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PER “DIMENTICARE” I MOMENTI BUI!

 

La PEDAGOGIA CONVERSAZIONALE, quattro “passi” con il Prof. Paolo Perticari,  docente di Pedagogia Generale all’Università di Bergamo e con la Professoressa Gabriella Giornelli, docente e ricercatrice.
 

 

In un clima arroventato dalle novità della Riforma, surriscaldato dalle circolari che si sono susseguite senza tregua nei mesi estivi, è emersa, da una confusione pedagogica imperante, la significativa esperienza dei tre giorni di corso d’aggiornamento (a cura del Centro Didattico Romagnolo di Forlì) sulla pedagogia conversazionale

 

I due relatori, la Professoressa Gabriella Giornelli e il Professor Paolo Perticari hanno permesso il ritorno del “sogno” a un pubblico folto e attento di docenti.

 

UN LIBRO

 

L’occasione per riflettere tutti insieme sul lavoro dell’insegnante e sulle buone pratiche del rapporto insegnamento e apprendimento è nata dalla presentazione del libro di G. Giornelli e A. Maioli “Educazione linguistica interculturale” ed. Erickson, libro estremamente utile, creativo, operativo e consigliabile  a chiunque abbia a cuore il problema dell’integrazione effettiva, non virtuale, dei ragazzi stranieri, libro che rivela fin dalle prime pagine l’intelligenza, la sapienza della costruzione dei rapporti umani e l’amore per l’altro.

 

Dall’opera in questione si è poi partiti insieme per affrontare il tema della crescita umana e culturale in una “possibile” scuola in cui insegnamento/apprendimento divengano il cuore dell’esperienza scolastica.

 

IL LINGUAGGIO NON E’ DEGLI DEI

 

La Prof. Giornelli ci ha ricordato di come la lingua sia un mezzo che ha un senso soltanto se aiuta a comunicare, e che di parole ci sia bisogno estremo purché ci sia qualcosa di appetibile per cui stabilire contatti verbali con l’altro da sé. Ci ha invitato a non dimenticare mai nella nostra azione educativa quanto siano uniti mente e corpo e che ogni regola grammaticale resterà lettera morta se non si tiene conto che la mente di un bambino parte dal concreto dell’esperienza.

 

Il linguaggio è uno strumento, e non il solo della comunicazione, è un raffinatissimo strumento, ma “non degli dei”. Infatti necessita della spinta affettiva per funzionare.

 

E’ prima di tutto un “guardarsi negli occhi” che crea coevoluzione in una comunicazione che consente di trasformare il mondo esterno e al contempo trasformare l’io di chi partecipa al “dialogo”. Così, gli stranieri- bambini rappresentano una “occasione” da non “perdere” per la comunità che li accoglie, un’esperienza di riflessione, di presa di coscienza di ciò che facciamo e siamo nell’atto della comunicazione a cominciare dagli sguardi, dalla gestualità rituale che solitamente dimentichiamo di possedere in quanto non ci rendiamo conto di quanto siamo immersi nella nostra cultura di provenienza senza conoscerla e senza padroneggiarla. Lo straniero invece ci riconduce alle origini, ce le fa riscoprire e ci “informa” di altri mondi, di altre emozioni, sensazioni, percezioni della realtà e della quotidianità. Ci allerta sul valore della dialogicità dei rapporti e su quanto essi siano delicati e fragili quando ci lasciamo prendere dalla fretta, dalla superficialità, dalla logica del mercato della comunicazione usa e getta, mordi e fuggi.

 

 

Ecco che allora la lingua ci apparirà per quello che è: non solo parole, ma ritmo, suono, musicalità, ascolto di “vibrazioni” interne ed esterne. Il bambino più dell’adulto impara le lingue straniere con facilità perché “ci entra con corpo e orecchi”.

La memoria dell’oralità è quella dei popoli, memoria fatta di gesti, riti, danze, parole…Noi spesso invece ingessiamo la lingua nei libri, in un sapere alto, distaccato dal cuore, dall’affettività, dalle ragazze e dai ragazzi che invece ascoltano la lingua dell’ ”io sono”, del “voglio esistere” in quanto persona completa, reale, concretamente implicata nel rapporto dialogico con chi viene in contatto con me anch’egli munito del suo corpo e della sua storia!

 

E così, ecco che non è possibile nell’agire didattico fare a meno di strategie che valorizzino l’essere umano e la sua capacità naturale di interagire instaurando un clima di fiducia e aiuto reciproco attraverso attività che rafforzino l’autostima, che favoriscano il sorgere di un’identità conscia della sua competenza attraverso il lavoro delle coppie tutoriali, di quelle di aiuto, dei piccoli gruppi cooperativi, del circle-time, del brainstorming, dell’utilizzo dei contratti per stringere rapporti di fiducia e di serietà nell’affrontare, mai soli, le difficoltà che sorgono nella quotidianità scolastica, sempre attenti, come insegnanti, a non trasferire le sconfitte scolastiche delle ragazze e dei ragazzi nella sfera affettiva.

 

NON SONO MACCHINE

 

La scuola non deve mai banalizzare l’apprendimento, perché le bambine e i bambini non sono macchine nate per dare le risposte che ci aspettiamo. Anzi più è sicura la loro  memorizzazione di risposte prevedibili, più alto è il rischio che la persona sia privata della sua creatività: di fronte alle domande di un bambino non dobbiamo dare risposte, bensì sollecitare il suo pensiero con altre domande che aiutino lui o lei a ritrovarsi e noi stessi a comprenderlo/a nella sua originalità utilizzando tecniche conversazionali che aprano nuovi orizzonti di apprendimento del mondo degli altri e di noi in relazione.

 

L’INSEGNANTE IGNORANTE E’ BRAVO!

 

Il Prof. Paolo Perticari ha proseguito in continuità sollecitandoci a non dimenticare che il nostro lavoro dovrebbe nutrirsi della consapevolezza che la parola ignoranza è senza dubbio quella che più si presta a disegnare ciò che dovrebbe essere la/il bravo insegnante, la/il quale dovrebbe, ogni giorno, in ogni incontro, pronunciare dentro di sé un’ esclamazione scaturente dagli imprevisti: “Ah, non sapevo di non sapere!” e bisognerebbe che correggessimo il motto socratico “So di non sapere” dicendo: “Io non so di non sapere, ma…” perché allora al di là di quel “ma” si aprirebbe un vuoto davanti al quale potremmo veramente incominciare a imparare e a insegnare con l’umiltà e la disponibilità a una totale apertura della mente e dell’anima.

 

La scuola purtroppo spesso si è trasformata in una fabbrica di ignoranza di secondo livello, quella del motto “Io non so di non sapere”. Dal nido all’università tale tipo di ignoranza tende a progredire: si fa sempre meno ricerca, perché si devono seguire “pacchetti” prefabbricati di sapere.

Invece sarebbe opportuno che l’insegnante sapesse dichiararsi “imbecille”, non un imbecille qualsiasi, bensì “interessante” come “imbecilli interessanti” furono San Francesco o San Giuseppe da Copertino…i quali non avevano paura di “praticare l’imbecillità” senza il bastone del potere, senza la logica del bastone!

 

MACROSISTEMA/MICROSISTEMA

 

Un’altra parola di grande importanza è “efficienza”: si vive in un’epoca di grandi riforme annunciate che riguardano la scuola, ma esse si occupano di macrosistema, senza interessarsi di ciò che si fa la mattina, del modo in cui si insegna. Noi invece dovremmo estraniarci dal sistema e andare oltre le logiche organizzative.

La logica delle Riforme di stampo organizzativo generale assomiglia a quella della guerra senza fine in cui “viviamo” nostro malgrado: la scuola infatti continuerà anch’essa a fare “morti” a colpi di circolari e decreti volti a realizzare l’efficienza del sistema!

 

LA “BANALITA’ DEL MALE”

 

Che senso ha la logica dell’efficienza fine a se stessa?

Purtroppo, l’efficienza o meglio ancora l’efficacia che non si chiede che senso ha ciò che si vuole, presto si ammalano e fanno ammalare la scuola rischiando di produrre tanto male, anche se con le migliori intenzioni: un impianto educativo che non tiene conto della “banalità del male” distrugge le persone, le rende schiave dell’organizzazione annientando la possibilità di dichiararsi continuamente “ignoranti”, deturpando originalità e creatività. Frequenti sono stati i riferimenti storici di Perticari alla storia dell’olocausto per farci “sentire” il pericolo della “banalità del male” che va stanata nei luoghi più impensati del quotidiano, proprio dove si dice “io faccio il mio dovere, quindi faccio ciò che è bene”!

Si deve cominciare a capire che tipo di “specialisti” vogliamo nella scuola così come nella società per non incorrere mai più nel rischio di formare persone che come gli aguzzini nazisti facciano il loro dovere dimenticando il pensiero critico. Non si può capire l’apprendere senza la memoria dello sterminio: non si dovrebbe mai più concepire un apprendimento che prescinda dalla “banalità del male” a cui spesso conduce in modo più o meno consapevole il “progresso”. Le studentesse e gli studenti forse oggi sono più “disarmati” di ieri, pronti a venire “convinti o falciati” dal “bastone” e non c’è niente di più terribile e ingiusto che andare disarmati a una “guerra”. La scuola dei “pacchetti” di saperi, dei tempi ristretti, delle verifiche è una specie di guerra, così Perticari, con Winnicot, dice: “la compiacenza è la malattia, la non compiacenza è la salute”. La compiacenza fa ammalare il tessuto della conoscenza e uccide.

La scuola delle domande illegittime, quella che prevede tutte le risposte e le vuole in un modo standardizzato, è la scuola che produce elettricisti, idraulici, medici…incapaci, i quali poi “rimbalzeranno” addosso alla stessa società che li ha voluti così.

C’è una grande differenza fra lo stare al mondo per starci e lo stare al mondo per capire producendo pensiero critico e consapevole, un pensiero all’altezza

dell’attualità in cui si vive per trasformarla, non per adeguarvisi a mo’ di servi.

 

INSEGNANTE “IMPARANTE”

 

Altro che riforme della scuola! Le Riforme dimenticano qual è il centro del problema scuola: il binomio “insegnamento/apprendimento”: se esse non terranno conto di tale nucleo fondamentale, non avranno possibilità di modificare la situazione!

 

La coppia indissolubile “insegnamento/apprendimento” ci offre il modo di capire che l’insegnante dev’essere una/o che sa e vuole imparare. Anzi, deve assolutamente “prendersi tempo” per fare “l’imparante” così come allo  studente deve essere dato tempo per fare l’insegnante in una modalità che non consenta mai di darsi e dare risposte preconfezionate alle domande: si deve esplorare il terreno della conoscenza attraverso domande che stimolino insegnamenti di ritorno che rappresentano il punto di forza del rapporto “insegnamento/apprendimento”, il quale si basa anche su alti due domini di azione: l’accoglienza delle differenze per esplorare la diversità (e per approfittare dei conflitti come di occasioni per imparare e insegnare grazie agli indizi che avremo scoperto) e l’esplorazione degli errori come ci ha insegnato Canevaro con l’enunciato “gli errori che un bambino o una bambina commette sono utili a conoscerlo/a e per conoscere l’istituzione in cui vivono”.

 

L’ERRORE e LA “STORIA”

 

L’errore ci porta sul cammino dell’accettazione, dell’esplorazione e della mutua correzione nella consapevolezza di non voler fare di ognuno di noi una macchina banale che adotta risposte sempre prevedibili e nella scoperta che ci può e deve essere una sicurezza che si basa non già sul preconfezionamento di risposte banali, bensì sulla meraviglia de “il mondo è così e mi sorprende!”. Non ci sono ricette per fare “accoglienza” dell’altro, perché è in situazione di insegnamento/apprendimento che si trova il modo di accogliere più adatto  chi si trova con noi lungo il cammino, conservando così l’incanto della scoperta pur quando si conoscono e si sono studiate belle esperienze già sperimentate da noi o da altri insegnanti.

 

L’accoglienza deve fare riferimento al “bloccomondo” per mezzo di un insegnamento rivolto ai mondi di esperienze, anche delle cose che non si sopportano, proprio per capire, per ricevere un insegnamento da chi non è come noi, al fine di costruire un popolo della scuola che si incontra per il fare apprendimento e il fare storia partendo dalle piccole storie di ognuno, dalle individualità che si incontrano in un tempo che non sia una categoria separata dalla pratica, in cui ci siano pensiero e azione, riflessione e pratica.

 

UNA BUONA NOTIZIA: TU HAI TEMPO!

 

Una buona notizia è che “tu hai tempo”: anche la ripetizione delle azioni che ci servono per capire e capirci dovrebbe essere lenta per consentire il rinnovamento senza angustiarci del tempo, perché esso non deve essere per forza tanto, bensì sano: tempo e apprendimento viaggiano insieme. Il tempo perduto è una cosa buona se vogliamo fare una cosa nel migliore dei modi possibili e non bisogna neppure aver paura di perdere i “segni” del tempo, perché essi si ritrovano. Per un docente uno dei grandi “insegnamenti” è darsi e dare il tempo, perché quando non c’è più tempo inizia quello della fine: non è la fine del tempo, ma il tempo della fine che converrebbe tenere presente! Si dovrebbe meditare sulla frase di San Paolo “il tempo si è fatto breve, il resto è come non” nella consapevolezza che il male si annida

nell’ ”estetizzazione” della verità. L’insegnante spesso si trova nella situazione di chi ha in mente un progetto da rendere concreto nel fare, ma spesso incontra qualcosa di imprevisto che urge: questo è il tempo del “come non”. Quando capita qualcosa, tutto il resto è “come non”, allora i progetti perdono di senso, bisognerebbe abbandonarli, perché il tempo qualitativo deve lasciare il segno nel tempo ordinario: l’evento è un problema filosofico, ma soprattutto politico proprio in un’epoca in cui la politica non tiene conto dell’evento-verità. La didattica è talmente sbilanciata sul progettare che è totalmente disarmata di fronte all’evento-verità, così finge che non sia accaduto!

La scienza non deve perdere l’abc della verità dell’evento proprio per essere scienza, così anche la didattica non deve perdere l’abc della storia, della memoria, della ricerca evangelica basata sulla struttura dell’apprendimento messianico: l’apprendimento non dovrebbe essere legato ai progetti, bensì ai segni degli eventi di verità in un recupero dello spirito per scongiurare l’inaridimento totale.

Non è questione di essere contrari al progettare e ai progetti, bensì di trovarli più “sopportabili” quando non occludono ogni tipo di spazio e divengono soffocanti.

 

 

 

NON RIEMPIAMO LA SCENA DI PAROLE

 

L’importante è il trovare “spazi intermediari” da cui sia possibile osservare le cose in una certa maniera, che consentano la percezione della relazione che si sta vivendo da cui recuperare il senso e come affermava B. Brecht: “a teatro, la scena non deve essere troppo riempita dalle parole, altrimenti non la si capisce”. Gli spazi intermediari sono quelli in cui c’è il luogo della “presa” della parola, il luogo della “costruzione” e della “conversazione” nel senso del trovarsi in un luogo non da soli, ma con qualcun altro, conversazione che non è soltanto una forma della comunicazione anche perché di comunicazione ne abbiamo anche troppa e massiva.

La conversazione non deve dare per scontato che il rapporto tra persone esista, ma si  deve far scrupolo di consentire l’emergere di una conoscenza più profonda dell’altro in una situazione di “coegualità” all’interno di una relazione che consenta il legame con l’altro e di dare valore alle pause, ai momenti di stanchezza che non solo non sono da temere ed evitare, bensì da vivere fino in fondo.

 

Il Prof. Perticari ha concluso le tre giornate di lavori con una frase di  W. Benjamin che ci è sembrata anche un augurio e un’esortazione a vivere in modo più intenso l’esperienza degli “incontri” con gli studenti e le studentesse: “ Anche a noi è stata data una debole forza messianica di cui fare uso al cospetto della storia, senza la quale non potremmo fare qualcosa di buono…”

 

 

 

13 febbraio 2004

 

Claudia Fanti

 


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