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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Riflessioni a ruota libera sull’elevamento dell’obbligo

 

Penso che meriti una qualche riflessione sapere che al convegno “Frames”a San Benedetto del Tronto tenutosi il 1 e 2 dicembre, alla sessione avente per titolo “Obbligo a 16anni? Sì, ma come?” la frequenza che, data l’attualità del tema, era prevista molto fitta, si è rivelata invece deludente:  16 persone a fronte delle 160 che hanno affollato, per esempio, la sessione  sulla valutazione. Come si suole dire: è d’uopo una domanda. Come mai si è verificato ciò? La risposta può essere varia e poliedrica.

                 La prima che viene in mente è che dirigenti scolastici e docenti della scuola secondaria di secondo grado non si interessano al problema perché pensano che quando arriverà la legge (che fra l’altro ora è già arrivata) si accingeranno semplicemente ad applicarla e faranno fronte alle evenienze. Se fosse così penso che il fatto di non preoccuparsi  di doversi preparare per far fronte in modo adeguato a questo evento epocale significa che ciò che viene a mancare è il senso di appartenenza. Quel senso di appartenenza ad una istituzione, nel nostro caso scolastica, che dovrebbe far attivare responsabilmente l’attaccamento e l’aderenza al progetto di realizzare,  per tutti quelli che la frequentano, un futuro più democratico perché più colto. Questo disegno dovrebbe essere guidato dalla bussola dell’idea di scuola ormai conosciuta con l’espressione “non uno di meno”. I professionisti delle scuole cui faccio riferimento dovrebbero, secondo me,  farsi promotori per tempo di proficue riflessioni e produzioni nella direzione indicata, cercando di mettere a disposizione del progetto in via di realizzazione il meglio di sé e della propria professionalità (a meno che l’idea di scuola non sia quella elitaria ed escludente che abbiamo recentemente combattuto!).

 Diciamo che l’individualismo imperante ha già fatto i suoi danni. Non intendo con ciò affermare che le persone di scuola devono immolarsi ma affermo con forza che se non sentono di far parte di una istituzione,  per giunta molto delicata e significativa per un Paese e per il suo destino, vuol dire che siamo di fronte ad una deriva preoccupante.

                  Riprendendo il filo delle possibili risposte, la seconda che mi viene in mente è che forse sono spaventati e fanno come i bambini:  se io non vedo gli altri gli altri non vedono me. Ignorare il problema significa allora esorcizzarlo, allontanarlo, sperare che si risolva da solo.

                  La terza risposta è che stanno sperando ardentemente che le cose non cambino o non cambino almeno molto, che alla scuola media di secondo grado si iscriva un numero di ragazzi senza grosse variazioni rispetto agli anni precedenti, e che quelli che la Moratti aveva previsto essere candidati  alla formazione professionale ci vadano subito, realmente. In altre parole: che si facciano pure dibattiti e convegni,  tanto le cose non cambieranno comunque. Chi ha voglia di cambiare ?

                  La quarta risposta è la più semplice: a S. Benedetto del Tronto non sono andati i professionisti della scuola interessati alla problematica.

                   La quinta risposta è la più ottimista:  sono stati nei loro uffici e nei loro gruppi di lavoro a pensare e a lavorare su queste tematiche. Non è una ipotesi del tutto illusoria, sono a conoscenza per certo che alcuni dirigenti che conosco bene  hanno proprio fatto così…Ma quanti in tutta Italia?

                     Dopo queste semplici ed anche superficiali osservazioni desidero però portare avanti una idea che mi passa sempre più per la testa.

                     Mi viene il dubbio che forse  pochi si interessano a questo evento perché si pensa che abbia solo risvolti organizzativi e ci si premura di organizzare gruppi a livello ministeriale o associativo con competenze solo di questo tipo, pensando che una volta individuati i gruppi, i percorsi per l’equivalenza formativa, gli obiettivi, gli standard, le competenze, i curricoli, i progetti individuali, laboratori e stage, reti di scuole,ecc. sia più che sufficiente. Noto che  si discetta di cosa ma non di come, non c’è nessuno che osa parlare di psicologia dell’apprendimento e men che mai di metodologia o peggio di didattica. Si trova scritto che queste sono dimensioni ascrivibili all’autonomia delle singole scuole…Certo,  siamo tutti d’accordo,  ma se non si afferma in modo forte e chiaro, anche da parte dei gruppi ministeriali e non,  senza eccessive ed incomprensibili prudenze e senza opposizione da parte delle organizzazioni sindacali,  che le dimensioni della metodologia e della didattica devono essere aggiornate, rivisitate, trasformate,  affrontate a livello della formazione iniziale e in servizio, ogni provvedimento organizzativo,  anche il più intelligente ed accorto rischia di diventare un flop.Ciò che infatti marca veramente l’innovazione è il rapporto in classe con gli allievi/e sia dal punto di vista relazionale che didattico.

                  Spero che sia chiaro a tutti però, a questo punto,  che non si tratta solo dell’elevamento dell’obbligo ma di riformare il percorso dai 3 ai 16 anni.  Inoltre, prendendo  in considerazione che la scuola secondaria di primo grado non è più il segmento terminale della scuola dell’obbligo,  rileviamo che in questo modo essa viene liberata dalla preoccupazione nei confronti del segmento superiore, per cui è opportuno che venga responsabilizzata di più nei confronti del tema che stiamo affrontando. Se per qualche verso questo ordine di scuola infatti non è stato sempre  in grado fino in fondo di attivarsi per recuperare tutti gli allievi alle competenze di base, ed ha “dimesso “mentalmente i soggetti più deboli,  questo è il momento di ripensare tutto l’impianto metodologico. In altri termini l’elevamento dell’obbligo parte dalla scuola dell’infanzia.   

                  Mi coglie ora una inguaribile nostalgia delle discussioni dei bei tempi andati (eccomi consapevolmente offrire il fianco).Sono perfettamente a conoscenza  che l’epoca è cambiata, non sto rimpiangendo la scuola degli anni settanta ( state tranquilli voi pronti ad accusarmi di questo…) ma sento la mancanza della vision che animava tutti in quel periodo e della leadership veramente trasformazionale dei direttori didattici di quella epoca.

                  Credete che non siano tremate le vene ai polsi anche a noi, per esempio,di fronte alla legge 517 del ‘77? Credete che non abbiamo assistito all’acido corrosivo,  come ha detto Canevaro, dell’introduzione nella scuola statale elementare dei soggetti chiamati allora handicappati, ed ora diversamente abili, senza preoccupazione? Ma questo acido corrosivo è stato provvidenziale!

                La preoccupazione è diventata”cura” e di fronte a tutte le contraddizioni della scuola di allora, scoppiate con l’handicap, ma riferite alla la scuola per tutti, ci siamo rimboccati la maniche . La scuola elementare era troppo  formale ed astratta, non solo per i soggetti in difficoltà ma anche per gli altri. Non dava la giusta importanza al corpo, non lasciava spazio per modalità laboratoriali ed operative, non veniva rispettata, durante la presentazione delle unità didattiche, l’evoluzione delle rappresentazioni da quella attiva a quella iconica fino a quella simbolica, come ci ha insegnato Bruner.

              Abbiamo provveduto allora a portare dei cambiamenti sia nella cultura professionale dei docenti,  che hanno dovuto in modo serio fare i conti, non solo sul piano teorico ma anche su quello pratico, con le diverse fasi evolutive dell’età mentale dei soggetti,  sia con lo svecchiamento della didattica. Abbiamo introdotto la psicomotricità per tutti, abbiamo imparato a rompere la struttura rigida delle classi inaugurando la stagione delle classi aperte, abbiamo appreso ad individualizzare l’insegnamento, abbiamo promosso la gestione della relazione educativa in classe in modo adeguato a tenere insieme le differenze e a rendere consapevoli gli insegnanti che non si trattava in modo banale e liquidatorio di mantenere la disciplina ma di saper gestire una particolare relazione di aiuto a crescere. Tutto questo ha aperto gli occhi su quanto fosse inadeguata la scuola precedente per l’universo dei bambini, non tanto o non solo per i nuovi portatori di diritti di cittadinanza.

                   Fatte le debite differenze io mi chiedo:  oggi la scuola secondaria di secondo grado sarà disposta a far scoppiare le sue contraddizioni ? Ha metabolizzato le critiche degli studenti ( e non solo !), di quanto sia noiosa per tutti, di quanto sia schematica, uguale nel tempo a se stessa,  trasmissiva  di saperi poco utilizzabili oggi ma soprattutto domani ( cosiddetti saperi inerti)  e non generativa di apprendimento,  ed inoltre di quanto sia bisognoso il suo corpo docente di alfabetizzarsi per quanto riguarda la relazionalità in classe? Come fare per far trovare oggi alla scuola tutto il coraggio e il desiderio che animavano allora la voglia di innovazione,  far acquisire la consapevolezza che si tratta anche oggi di una scommessa per rendere più democratico il paese e per far crescere le nuove generazioni in modo che qualcuno non possa dire più che stiamo allevando individui senza passioni. ?

Cinzia Mion


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