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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Riflessività

di Cinzia Mion

 

Nella nostra cultura oggi si sta celebrando finalmente quella che viene chiamata l’era della riflessione.

L’affermarsi della riflessione,  come mezzo sempre più autorevole per dare significato alla esperienza,  riguarda innanzitutto i modi dell’apprendimento. Apprendimento degli adulti e nel caso dei docenti, nuova autodirezione del loro apprendimento in funzione del  migliore insegnamento agli allievi.

 Mezirow, interessante studioso di Educazione degli adulti, reso noto in Italia da Duccio Demetrio, afferma che c’è stato un incredibile disinteresse finora per la funzione della riflessione che, se opportunamente affrontata,  permetterebbe invece una vera e propria illuminazione utile a reinterpretare la verifica della validità di ciò che si è appreso e di conseguenza, per i docenti, di come si insegna.

Quasi sempre il termine riflessione viene infatti ricondotto semplicisticamente ad una azione meditata. che non esamina deliberatamente l’apprendimento pregresso ma che mettiamo in moto per identificare una relazione, riconoscere una teoria, dare un giudizio,  generalizzare o spiegare.

La riflessione invece è “un processo con cui si valutano criticamente il contenuto, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a interpretare un’esperienza e a darvi significato.”(Mezirow:-Apprendimento e trasformazione,Cortina,  pag.106)

Mi permetto di sottolineare il passaggio riferito al processo e alle premesse su cui insiste molto l’autore e su cui torneremo nel corso di questo testo.

La riflessione sul processo consiste nel tentativo di esaminare come avviene usualmente il nostro modo di percepire, pensare,  sentire o agire, su cui noi fondiamo la nostra valutazione in merito alla congruenza od efficacia delle nostre azioni.

La riflessione  sulle premesse presuppone “ la consapevolezza da parte nostra del perché percepiamo, pensiamo, sentiamo e agiamo in quel modo e delle ragioni e delle conseguenze di eventuali giudizi affrettati” che ci inducono in modo implicito, in assenza di riflessione a comportamenti ripetitivi.

 

Il professionista riflessivo

 

Risale solo agli anni 90 un particolare interesse per la riflessività, per l’appunto dalla pubblicazione del saggio di D.A.Schon Il professionista riflessivo, tradotto in Italia nel 1993 e da allora molto citato  e considerato paradigmatico per quanto attiene la moderna pratica professionale, anche se non ci sono ricerche che dimostrano che sia stato applicato intenzionalmente in quella scolastica.

   Schon  sostiene che nella crisi delle professioni, per cui la competenza tecnico-scientifica  non è più sufficiente a governare la complessità, si afferma la figura del professionista riflessivo. La complessità sappiamo che ci mette a contatto con le incertezze,  con il dubbio, con il rischio, con i conflitti di valore che possono essere affrontati soltanto se conflitti e dilemmi, conseguenti a questa complessificazione, vengono lasciati emergere per farne oggetto appunto di riflessione.

Schon raccomanda che la riflessione venga attivata  durante l’azione perché solo questo atteggiamento di apertura permette ai dubbi, che altrimenti resterebbero celati,  di essere portati in superficie, di essere disambiguati. La formazione professionale di tipo solo tecnico-razionale risulta oggi pertanto inadeguata ad affrontare le difficoltà e gli imprevisti.

Il passaggio all’azione fa ricordare anche l’attenzione alla circolarità tra teoria e prassi, problematica molto importante ai fini di sollecitare l’innovazione a scuola attraverso la formazione teorica dei docenti, spesso molto approfondita  ma lontana dai livelli della prassi da loro applicata, ancorata spesso a vecchi schemi che resistono nel tempo.

Nel mio lavoro di formazione dei docenti devo infatti registrare una forte ambivalenza tra il desiderio di cambiare- che si registra nell’entusiasmo che i corsisti dimostrano  rispetto alle sollecitazioni a modificare la didattica- e la paura a farlo che paralizza e rende impotenti oppure crea inadeguatezza per cui si preferisce restare nelle vecchie prassi.

Ho subito pertanto una sorta di fascinazione quando ho trovato nelle argomentazioni di Mezirow il bandolo della matassa credendo così di aver capito meglio come accompagnare e sostenere i docenti in un loro apprendimento trasformativo.

 

Tipi logici della riflessione.

 

Schon  distingue a tale proposito tre tipi diversi di riflessione. Il primo tipo riguarda, come dicevamo, la riflessione nel corso dell’azione. Possiamo ipotizzare l’insegnante che durante l’attività di insegnamento si accorge della distrazione degli allievi e intuitivamente quasi inconsapevolmente cambierà immediatamente il repertorio di strategie,  usando la propria competenza - una specie di riferimento routinario a categorie utilizzate in precedenza - per auto aggiustarsi in itinere.

 Il secondo tipo riguarda la riflessione sull’azione. Sempre per quanto attiene la professione docente questo secondo dispositivo riguarda una consapevolezza ed una intenzionalità più specifiche per cui i docenti osservano il proprio agire, lo riconoscono,  riescono ad esplicitarlo formalizzandolo. In altre parole si riflette su quanto effettivamente la didattica utilizzata si dimostri in quel frangente autenticamente efficace o quanto invece potrebbe essere più efficace una strategia alternativa più operativa ma  più costosa in termini di fatica personale E’ quella che la teoria trasformativa di Mezirow chiama azione riflessiva o presa di coscienza.

Il terzo tipo consiste in una meta riflessione: vale a dire in una riflessione sulla riflessione nel corso dell’azione, interrogandosi sulle motivazioni, sulla loro coerenza logica, confrontando  il caso con situazioni simili per rintracciare costanti o dissonanze, aprirsi soprattutto al confronto all’interno della comunità di pratiche. Quest’ultima infatti è la sede ideale per portare a galla i dubbi, le incertezze , i conflitti di valore al fine di avviare una comparazione e una discussione con i colleghi di lavoro.

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Anche la progettazione dovrebbe comportare momenti di riflessione sia sull’azione che a livello metariflessivo collegiale: diventa infatti sempre più ineludibile l’elaborazione del lutto del programma attraverso l’individuazione e la scelta di saperi essenziali. Questa scelta dovrebbe avvenire al momento della progettazione e durante la realizzazione ma i contenuti dei vari livelli di riflessione vanno affrontati insieme per una condivisione partecipata, quindi per un adempimento  effettivo non solo dichiarato. L’esperienza invece purtroppo dimostra che spesso alcuni documenti di lavoro vengono costruiti solo a livello burocratico quando invece, proprio in quanto documenti di lavoro, sarebbe indispensabile realizzarli mettendo al loro interno tutta la riflessività possibile.

 

Schemi di significato

 

 A me pare che l’aspetto innovativo apportato da  Mezirow, rispetto al testo di Schon,  sia  dato dall’individuazione, attraverso l’ analisi dell’apprendimento pregresso, dei cosiddetti schemi di significato, spesso taciti e inconsapevoli e interiorizzati nel tempo che sorreggono l’impalcatura della conoscenza fini a quel momento organizzata. Questi schemi,  e qui sta l’aspetto interessante per la formazione, per chi la offre e per chi la riceve, vanno necessariamente scoperti e disambiguati per poter avviare una trasformazione che modifichi poi intenzionalmente le prospettive di significato- direttamente collegate  agli schemi stessi-  e poter così realizzare il famoso apprendimento trasformativo.

Nella sua prefazione al volume “Apprendimento e trasformazione” Mezirow anticipa l’obiettivo della sua opera che consiste nell’approfondire la dimensione del significato dell’apprendimento degli adulti, indirizzando con ciò il suo lavoro agli educatori. Gli interessa sviscerare il modo in cui questo significato viene costruito, validato e riformulato e gli preme individuare le condizioni sociali che influenzano il processo di elaborazione critica dell’esperienza.

“In quanto discenti adulti, siamo prigionieri della nostra storia personale.  Per quanto abili a dare un significato alle nostre esperienze, tutti noi dobbiamo partire da ciò che ci è stato dato, e operare entro gli orizzonti fissati dal modo di vedere e di capire che abbiamo acquisito attraverso l’apprendimento pregresso”(pag.9)

Il significato che noi diamo a ciò che apprendiamo è un’interpretazione dell’esperienza e ciò che cerchiamo di fare è darvi coerenza attraverso anche l’interazione e la comunicazione con gli altri.

Per rendere accettabile questa interpretazione utilizziamo appunto schemi impliciti di significato che fino a quel momento hanno funzionato. Il problema appare quando il nuovo apprendimento richiede la formulazione di nuovi schemi .Se però i vecchi schemi che usiamo automaticamente per leggere le nuove conoscenze non appaiono consapevolmente come lenti attraverso le quali guardiamo il mondo non potremmo mai decidere di cambiarli per un adattamento al nuovo apprendimento. Questo perché questi schemi sono funzionali alle nostre prospettive di significato fino a quel momento perseguite.

Gli schemi di significato sono costituiti , sempre secondo Mezirow, dalle conoscenze, dalle convinzioni, dai giudizi di valore e dai sentimenti che si manifestano nell’interpretazione e consistono nelle manifestazioni concrete del nostro orientamento abituale. E sono alla base delle nostre aspettative,  che costituiscono la molla su cui poggiano  le prospettive di significato.

La focalizzazione delle nostre aspettative ordina selettivamente ciò che apprendiamo e il modo in cui apprendiamo.

 

Prospettive di significato

 

La prospettiva di significato è simile, per Mezirow, a ciò che alcuni chiamano paradigma o schema di riferimento personale. Thomas Kuhn nel suo famoso testo La struttura delle rivoluzioni scientifiche descriveva nello stesso modo le trasformazioni paradigmatiche che intervengono nelle conoscenze scientifiche : convincimenti, idee, valori e atteggiamenti che influenzano i metodi di ricerca delle informazioni .In altre parole le prospettive di significato sono delle cornici di presupposti entro le quali noi assimiliamo e trasformiamo la nuova esperienza.

Per poter avere la forza di dare spazio e senso ad un nuovo apprendimento, che possa trasformare le vecchie prospettive, che abbiamo visto poggiare saldamente sugli schemi pregressi, noi dobbiamo attivare una riflessività intenzionale, sistematica e aperta al cambiamento, non timorosa del senso di smarrimento che potrebbe cogliere chi si avventura su di un terreno nuovo.

Questo terreno nuovo può spaventare perché ci fa incontrare la fatica di pensare, che porta con sé il richiamo alla riflessività, oppure può rappresentare la necessità di affrontare angoli bui, che toccano il concetto di sé, per evitare i quali ricorriamo anche all’autoinganno.

Le prospettive infatti sono condizionate, limitate o distorte da diversi fattori . Mezirow a tale proposito ne distingue tre tipi: quelle epistemologiche che dipendono dal modo in cui conosciamo e da come utilizziamo questa conoscenza, quelle sociolinguistiche, fortemente connotate dall’etnocentrismo, dai copioni e prototipi interiorizzati, nonché dalle filosofie o teorie implicite e alla fine quelle psicologiche caratterizzate dal concetto di sé, dalla tolleranza all’ambiguità,dal  livello di ansia di fronte alle novità o all’incertezza o alla difficoltà a cogliere subito il significato di una dimensione vissuta come poco chiara.

Tutte queste variabili sono state presenti., e sono tuttora presenti, in buona parte dei docenti posti di fronte al cambio di paradigma culturale che caratterizza la nostra epoca da un po’ di tempo: dalla cultura della linearità alla cultura della complessità.

La reazione è stata spesso il meccanismo di difesa della negazione, oppure l’evitamento della problematica., oppure la veloce assimilazione ai vecchi schemi di significato perché tutto rimanga immobile e non diventi minaccioso per il sé personale e professionale.

Il medesimo percorso sta avvenendo per il concetto di valutazione formativa, che mi accingerò ad affrontare alla fine di questo lavoro per portare una esemplificazione pratica ed attuale, in merito alla problematica vissuta dalla scuole in questo ultimo periodo, e che avrebbe potuto veramente apportare un apprendimento trasformativo nella cultura professionale dei docenti se questi avessero accettato la sfida della riflessività.

 

Apprendimento trasformativo

 

Tutte le argomentazioni condotte finora vogliono introdurre l’argomento dell’apprendimento trasformativo, l’unico in grado di far evolvere l’adulto verso il cambiamento.

Dice Mezrow che non tutto l’apprendimento è trasformativo .Possiamo imparare semplicemente aggiungendo altre conoscenze ai nostri schemi di significato con cui interpretare la nostra esperienza .L’incarico della  formazione di docenti comporta evidentemente una responsabilità per questo tipo di apprendimento, comunque più significativo e pertinente di quello strumentale o di quello comunicativo, categorie individuate da Habermas.

Non è questa le sede per dilungarci nella dissertazione e distinzione tra questi due tipi di apprendimento, anche se risulta funzionale alla tesi sulla riflessività. Basti sapere che l’apprendimento strumentale riguarda principalmente l’individuazione delle relazioni causa-effetto e la strategia del  problem-solving orientata al compito.

L’apprendimento comunicativo invece ha una finalità diversa e consiste nell’imparare a capire cosa vogliono dire gli altri e nell’imparare a farci capire quando cerchiamo di mettere in comune le nostre idee attraverso il discorso, la parola scritta, l’arte, ecc. In fondo riguarda la comprensione, la descrizione e la spiegazione delle intenzioni , dei valori,  degli ideali, delle problematiche morali, dei concetti sociali, politici, filosofici, psicologici, o educativi, dei sentimenti o delle ragioni.

Tutte queste variabili all’interno dell’azione formativa devono apparire esplicite e vanno esplicitate altrimenti il peso di quelle implicite avrà un enorme effetto di trascinamento che impedirà il cambiamento reale.

Così come le ipotesi sono gli strumenti di ragionamento dell’apprendimento strumentale, le metafore sono gli strumenti dell’apprendimento comunicativo.

L’apprendimento trasformativo implica tutte le condizioni previste per un efficace apprendimento comunicativo ma aggiunge la particolare focalizzazione su una critica delle premesse che necessitano di un riesame per correggere le preconcezioni  insufficientemente sviluppate o distorte, di natura epistemologica, sociolinguistica o psicologica.

 

Valutazione formativa e apprendimento trasformativo

 

Don Milani, nella sua Lettera ad una professoressa, aveva affermato che la scuola non può essere un ospedale che accetta solo i sani e respinge gli ammalati. La forza di questa metafora ci accompagna ancora nel nostro percorso di apprendimento comunicativo. Quante volte abbiamo usato da allora questa metafora per veicolare l’intenzione, il valore, l’ideale della scuola dell’obbligo, funzionale a creare il valore della democrazia e dell’uguaglianza nel nostro Paese !

La medesima metafora vorrei usare io ora per andare oltre all’apprendimento comunicativo, che già sarebbe comunque molto, ma per arrivare a quello trasformativo per quanto attiene la valutazione scolastica.

Mi ha colpito molto il modo in cui i docenti si sono adattati immediatamente al cambio di sistema di valutazione a partire dall’inizio dell’anno scolastico 2008/9 prima ancora che il regolamento sulla valutazione venisse formalmente approvato.

Ci possono essere varie ragioni, ma ora qui desidero sottolineare quelle funzionali a spiegare il motivo della difficoltà ad assumere, per la scuola dell’obbligo, la valutazione formativa, suggerita anche dalle “Indicazioni per il curricolo”ancora vigenti.

Tutti i docenti ora in servizio hanno subito, quando erano a loro volta  studenti, solo una valutazione scolastica di tipo sommativo, caratterizzata dalla media aritmetica calcolata sulle misurazioni su scala numerica decimale,  avvenute durante il loro percorso scolastico.

Questo è lo schema di significato interiorizzato ed automaticamente validato.

Da questo schema di significato, quando sono diventati docenti, hanno pescato anche quando la legge 517/77 ha invece varato il nuovo sistema, attraverso le schede di valutazione, che hanno soppiantato le vecchie pagelle con i voti. Come? Trasformando i voti in correlativi giudizi.

Tutta la svolta significativa e trasformativa della valutazione formativa è stata , quasi sempre, bellamente ignorata. Il perché sta proprio nell’azione formativa inadeguata che non ha reso consapevoli i docenti-discenti, attraverso una significativa riflessività, dei vecchi schemi di significato introiettati e diventati impliciti, quindi fortemente radicati, che assimilavano la valutazione  alla selezione e alla classificazione -prospettive adeguate alla finalità di scremare le eccellenze per la futura formazione dei quadri dirigenti- congruenti perciò con i risultati di tipo sommativo. Questa consapevolezza, attraverso la non sufficiente chiarezza sui valori soggiacenti, sull’immagine di sé, sul contesto sociopolitico cambiato, non ha avuto la forza di portare alla creazione di nuovi schemi di significato adeguati a trasformare le prospettive di significato.

      La potenza della trasformazione dovrebbe essere affidata al concetto, come dicevamo, della valutazione formativa che risponde ad una logica completamente diversa dalla selezione-classificazione, perché risponde alla realizzazione di una scuola di base per tutti, il più possibile di qualità, degna di un Paese democratico e civile. D’altro canto può dirsi tale un Paese che conta quelle percentuali barbare di analfabetismo di ritorno, che sappiamo dalle indagini di Tullio De Mauro, per cui l’unico modo per esprimerne i diritti di cittadinanza consiste nell’andare a mettere ogni tanto una crocetta su di una scheda elettorale, per poi rimettersi a guardare la TV?

 

Qui richiamo ancora la metafora sanitaria usata da don Milani.

Le prove di verifica, rimaste quasi sempre tradizionali anche se camuffate un po’, impropriamente spesso assunte a prove oggettive, dovrebbero essere assimilate a degli accertamenti diagnostici, per avere informazioni sullo stato di salute della classe, per poi stabilire il tipo di cura, ovviamente personalizzata. La cura adeguata naturalmente consiste nell’insegnamento, affidato ad una didattica il più possibile idonea a fugare le difficoltà incontrate e ad una strategia eventualmente diversificata se quella usualmente adoperata non sortisce l’effetto desiderato.

Naturalmente questo adeguamento della didattica presuppone che il docente disponga di un ventaglio di opportunità da offrire, durante il processo di insegnamento-apprendimento, in modo da intervenire in tempo utile prima che la malattia si aggravi.

    A questo proposito ricordo il vecchio testo (quanto noto e masticato?)”Verso una teoria dell’istruzione” dell’intramontabile Bruner che ha offerto a generazioni di docenti di buona volontà intuizioni meravigliose sulla rappresentazione attiva, iconica e simbolica dei saperi, che rimangono ancora oggi un pilastro delle didattiche operativo-laboratoriali.

Tutto questo lavoro di analisi sulla propria professionalità ovviamente tocca svariate prospettive di significato: da quelle epistemologiche (quale dimestichezza abbiamo con lo stile riflessivo e il pensiero astratto?) a quelle sociolinguistiche (abbiamo mai imparato bene e decentrarci, ad uscire dal nostro etnocentrismo culturale?) ed infine a quelle psicologiche (quanto mette in crisi il concetto di sé una concezione di valutazione come quella formativa  che invece di ascrivere il mancato successo alla responsabilità soltanto di che apprende interroga anche la responsabilità di chi insegna?)

La mia conclusione è che questa pratica veramente innovativa sia stata sempre dribblata perché tocca profondamente tutti gli aspetti di vecchi schemi e  prospettive di significato che,  senza una particolare riflessività volta a mettere in crisi l’apprendimento pregresso che li reggeva, non hanno potuto essere trasformati.

 

Alla fine, se possiamo considerare abbastanza diffusa e scontata una pratica di riflessione sui contenuti e sui processi,  risulta senz’altro innovativa una riflessione sulle premesse perché questo rappresenta il vero senso della riflessione.

In altri termini possiamo dire che la riflessione sui processi e sui contenuti attiene al problem solving,  quella sulle premesse riguarda invece il problem posing.

    In verità noi sappiamo da tempo che uno spirito scientifico vero ed efficace si misura dalle buone domande non solo dalle efficienti risposte. Dovremmo ricordarcelo più spesso e riuscire a farlo ricordare a tutti gli operatori della scuola.

 

Bibliografia

  • Habermas  J, (1997), Teoria dell’agire comunicativo, Roma-Bari,  Laterza

  • Mezirow J.(2003), Apprendimento e trasformazione, Milano, Raffaello Cortina

  • Schon  D.A, (1993) Il professionista riflessivo, Bari, Dedalo


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