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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Sappiamo ancora capirci?

di Francesco Butturini

Pensando al primo Asse, Linguaggi, del Regolamento per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione (D.M. 22 agosto 2007 n. 139), di cui non sento molto parlare in questi giorni in cui si stanno scrivendo i regolamenti per le scuole secondarie di secondo grado, mi sembra possa servire una riflessione sulle possibilità comunicativa fra i due mondi che oggi si confrontano, a scuola e fuori scuola: il mondo dei comunicatori cartacei e il mondo dei comunicatori digitali.

Da qualche anno a questa parte (forse un decennio), presiedendo le commissioni degli esami di Stato conclusivi, ho frequentemente la sensazione che ci sia sempre più evidente una separazione comunicativa fra docenti e studenti.

Non penso a incomprensioni generazionali o alle crisi di comunicabilità e incomunicabilità che hanno caratterizzato i primi decenni del secondo dopoguerra.

Mi sembra di trovarmi di fronte a qualcosa di più radicale e meno psicologico o emotivo.
Certamente la differenza generazionale c’entra, ma per qualcosa di più grave e radicale: la mia generazione “cartacea” sembra non possedere le parole del linguaggio della generazione “digitale” e si procede, allora, parlando lingue che sembrano simili, anzi, sembrano proprio la stessa lingua.

Ma non è così.

Non solo per le differenti scale valoriali che, da sempre, caratterizzano le generazioni e le differenziano.

Le parole singole, ma anche la lingua come sintassi delle parole e quindi dei pensieri, acquistano altri significati dati da un contesto che è nuovo e diverso per densità, intensità, ma direi anche, per tempo e spazialità d’uso.

Il linguaggio delle generazione “cartacea” ha un’estensione temporale assai più ampia e lunga del linguaggio della generazione “digitale”.
Non penso solo alla drastica riduzione del vocabolario attuata con gli SMS per i quali bastano poche centinaia di vocaboli e gli acronimi abbondano.

C’è qualcosa di più sconvolgente che si manifesta da qualche anno. Infatti ci sono studenti che danno le risposte più curiose e strampalate a domande di evidente facilità. Studenti che hanno bravi docenti ed una buona presentazione da parte della loro scuola.

Come si spiega?

Solo con fatti puramente amministrativi, per i quali la scuola e i docenti tendono a salvaguardare i loro studenti?

Mi sembra molto riduttiva questa spiegazione che, sicuramente, avrebbe anche qualche spazio di validità se il fenomeno non fosse così diffuso e frequente.

Per questo sono sempre più tentato di credere che si tratti proprio di una nuova incomunicabilità che non viene avvertita, perché le due generazioni – docenti e studenti – hanno ancora e la vivono la convinzione di parlare la stessa lingua ed usare lo stesso linguaggio, le stesse immagini, gli stessi topoi.

E non è così: da almeno un decennio non è così, perché il linguaggio digitale, da un lato, e la facilità comunicativa – a volte assai sbrigativa – dei linguaggi iconici dall’altro, hanno impostato strumenti comunicativi decisamente differenti rispetto a quelli che, per comodità, chiamo tradizionali.
Un adolescente sa esprimersi compiutamente con meno parole e più immagini di un adulto, che ha bisogno di tante più parole e forse non sa usare le immagini.

E poi entra prepotentemente in campo l’infinito della rete e della comunicazione digitale, per la quale credo si debbano riprendere tutte le considerazioni che Platone scriveva nel Fedro a proposito dell’introduzione della scrittura.

Mutatis mutandis, naturalmente.

Però è un fatto che le dita sulla tastiera si muovono diversamente di quando accompagnano e reggono un penna o una matita: e il cervello guida.
E guida diversamente.

Quante volte vi sarà capitato che le vostre dita non riescono a tener dietro al pensiero che state scrivendo, ma anche, quante volte vi è capitato anche le dita hanno preceduto il pensiero?

Non è indolore questo fatto: lascia una traccia progressivamente sempre più profonda nell’abitudine a pensare e a immaginare.
Il foglio di carta bianco, immacolato, su cui tracciavate i segni del vostro scritto non è come i tasti neri con le lettere in bianco della tastiera su cui state scrivendo il vostro pensiero.

State scrivendo o state battendo?

Scrivere è come battere?

Sembrano parole differenti (battere vuol dire tante altre cose, belle e brutte) e originano lo stesso prodotto: un pensiero scritto.

Anche questo fatto, questo dato di fatto, lo possiamo considerare indolore?

Che io possa tagliare, incollare, copiare, correggere, riscrivere senza cambiare foglio o senza cancellare, non ha nessuna conseguenza sulla comunicazione e sui tempi della composizione e della comunicazione?

Sono più di quarant’anni che scrivo articoli e tesi vari. Quando lavoravo sulla mia gloriosa Studium 44 – e prima ancora sulla Lettera 22 – della Olivetti, fra l’inizio e la fine di un articolo di ca. 4000 caratteri, per consegnare fogli puliti, presentabili, ci volevano almeno tre ore. Oggi, 4000 caratteri si compongono, si correggono e si consegnano in meno di mezz’ora.

Tutto ciò non ha conseguenze, anche sul pensiero, sulla nascita del pensiero? Sull’esistenza, nel senso di ex-istenza, del pensiero?

E sto riflettendo solo sul segno grafico della scrittura.

Se mi espandessi al segno iconico, sia fisso che in movimento, il dato di fatto del cambiamento radicale sarebbe ancora più nuovo, differente, e tutto da valutare come nuova incidenza sulla comunicazione dei pensieri.

Se poi metto insieme un qualsiasi processo comunicativo multimediale e scopro che un piccolo programma mi permette di far scorrere e movimentare immagini, insieme con parole e suoni, in un contesto spaziale che può essere ampio quanto lo spazio che ho a disposizione, scopro che, di fatto – ed è anche questo un dato di fatto? – credo nuove realtà della cui realità non sono in grado di definire la consistenza esistenziale mentre le vivo, anche se so che, spente le macchine, tutto scompare.

Ma scompare veramente?

A queste riflessioni aggiungete i sistemi televisivi interattivi e tutte le forme della comunicazione digitale e domandativi: davanti ad un docente che legge appassionatamente il quinto canto dell’Inferno, cosa e come coglierà le immagini, le emozioni, le sensazioni un adolescente del XXI secolo, rispetto ad un suo coetaneo del XX secolo?

Sarà identico lo spessore della comunicazione, la sua realizzazione?

E via esemplificando per infinite possibilità.

Uno studente, serio e convinto, mi disse che Verga era un friulano, perché scriveva di contadini e storie di povera gente. Di fronte al mio viso stupito, dopo un attimo di esitazione, mi chiese: cancello e copio un altro pezzo? Era serio, uno studente serio che stava serenamente parlando il linguaggio del “copia-incolla” abituale per chiunque usi un PC. Anche a scuola. E sa di poter comunque arrivare ad una pagina pulita e corretta.

Che fare, allora?

Io credo valga la pena ricordare quello che Sant’Agostino annota nel libro Primo, capitolo XIII delle Confessioni a proposito degli studi letterari (ma la considerazione vale per qualsiasi tipo di studio):” … si giudicano quegli studi più elevati e più proficui che non quelli su cui imparai a leggere e a scrivere”.

Su cosa leggere e scrivere, sarà opportuno aprire altre riflessioni.

 


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