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Soldi, bene comune, devoluzione e riforma della scuola

di Luciano Corradini

 

Ci sono due modi per prendersela col tempo inclemente di questo autunno allagato. I tedeschi imprecano verso il Sau Wetter, che significa letteralmente tempo scrofa. Gli italiani individuano un altro colpevole: piove, governo ladro. Se quest’ultima imprecazione è assai poco patriottica, non si può negare che una qualche correlazione ci sia, fra i termini di questo qualunquistico adagio. In Germania come in Italia i governi firmatari dei patti di Maastricht e titolari dell’euro sono indotti a stringere i cordoni della borsa e a tagliare quella spesa pubblica, che per qualcuno è la principale legittimazione dello Stato. Ebbene, se non risolve i problemi dei cittadini, se non ne soddisfa i bisogni, che Stato è? Imporre tasse e tagliare le spese è esercizio di ladrocinio o di responsabilità?

Ricorda Giovanni Sartori nel suo Democrazia Cosa è (Rizzoli, Milano 1992), che la nostra è una società di spettanze, in cui i cittadini si sentono creditori di dovuti, di cose che loro spettano, senza che questo comporti il dovere di interessarsi sulle condizioni della finanza pubblica e sull’andamento del "gettito" del pubblico denaro. Non si è lontani dal vero a pensare che su questa immaginazione sia prosperato il Welfare State. Quando distribuiva anche i denari che non aveva, facendo debito pubblico, non tanto per investimenti produttivi, ma per assicurarsi consenso sociale, chi amministrava lo Stato non si sentiva in colpa; e tuttavia non guadagnava la gratitudine dei cittadini, proprio perché questi si sentono tutti, chi più chi meno, soprattutto coloro che non pagano le tasse, creditori di beni loro dovuti, sovente indispettiti perché non riescono a vedere una plausibile corrispondenza fra i sacrifici subiti e i benefici goduti.

Se, per fare un solo esempio, i custodi del pubblico denaro si azzuffano, sprecano soldi o non ne incassano come previsto o come ottimisticamente dichiarato, per incapacità o per impreviste difficoltà, e magari si accordano in fretta per aumentarsi i rimborsi elettorali e lo stipendio (anche coloro che se la prendono con Roma ladrona, anche quando non piove) il comune cittadino non ha la sensazione che le casse siano effettivamente vuote e che i sacrifici siano necessari e comunque ripartiti con equità.

E invece di darsi pensiero dell’aumento del debito (che qualcuno dovrà comunque pagare), del calo non solo del gettito, ma anche del "capitale sociale" (fatto di appartenenza e fiducia), delle precarie condizioni dei pubblici servizi (fra cui non ultima la scuola), invece di pensare a questi problemi, si diceva, i comuni cittadini si concentrano sui bilanci familiari, accontentandosi di brontolare contro il governo ladro, o scioperando o manifestando coi girotondi. Eppure il nostro debito pubblico è risalito l’ultimo anno fin verso il 110% del PIL: il che significa che tutta la ricchezza che si produce in un anno non basterebbe ad ottenere il pareggio, e che il relativo "servizio del debito", cioè il costo degli interessi, si porta via una bella fetta delle risorse che dovrebbero servire a finanziare altri beni e servizi pubblici. In effetti, nonostante il provvido euro e l’ombrello europeo, la competitività delle imprese si riduce, l’inflazione cresce, la disoccupazione ha smesso di calare, le carceri scoppiano, il contenzioso cresce a tutti i livelli e i processi si allungano, i terremoti distruggono interi paesi, grandi regioni sono sott’acqua, l’Etna si concede una libera uscita di straordinaria pericolosità e durata.

 

Tremonti o Moratti?

Ha dunque ragione il Ministro del Tesoro Tremonti a negare al Ministro Moratti i soldi per la riforma della scuola, per l’università e la ricerca? Noi pensiamo di no e chiediamo al Governo e al Parlamento di ripensare alla gerarchia dei bisogni sociali e di spiegare il senso delle scelte, delle conquiste possibili e delle rinunce necessarie, ritenendo che scuola, università e ricerca siano beni di primaria importanza. Non dimentichiamo che erano stati assicurati al più alto livello di responsabilità politica i 16/19.000 miliardi di vecchie lire per finanziare il rilancio di una scuola che da troppo tempo vive nell’incertezza e nella precarietà, nonostante la conquista dell’autonomia. Previsioni sbagliate? Difficoltà sopravvenute? Tempistica da rivedere? Qui il discorso si fa necessariamente, drammaticamente politico. Chi presiede il Consiglio dei ministri ha il dovere di scegliere, in base ad una visione realistica e insieme organica e gerarchica dei bisogni sociali e dei valori che sono in gioco. Contano le promesse fatte, ma conta anche la presa d’atto della realtà, la considerazione del bene comune in situazione, non puntando sul successo a qualunque costo né solo sulle convenienze di tipo elettorale. L’impresa è quasi impossibile, ma è questa la condanna e la gloria della politica, quell’attività che un uomo pensoso come Paolo VI ha definito la più alta forma di carità.

L’opposizione ha il diritto e il dovere di segnalare squilibri, di denunciare errori, di proporre alternative possibili. Quando non si dichiarano i criteri o quando non si capiscono le ragioni di certe scelte o di certe opposizioni, il conflitto si fa aspro, non ci si ascolta, la forza dei numeri prevale, senza che si trovino tempi e disponibilità per pensare sinceramente a ciò che è meglio o meno peggio.

Questo accade non solo fra maggioranza e minoranza, ma anche all’interno dei due schieramenti e dentro ogni istituzione. Per fortuna queste dinamiche non occupano tutto il tempo e tutti gli spazi di ogni sede di confronto democratico. Per esempio la Commissione Affari costituzionali del Senato ha votato all’unanimità i provvedimenti presentati dal ministro La Loggia, attuativi della legge costituzionale 3/2000, votata dall’Ulivo e confermata dal referendum. Peccato che poi, per un diktat del ministro Bossi, la maggioranza abbia deciso di portare in aula il progetto di devoluzione, per vararlo prima della finanziaria, interferendo così sul delicato processo di attuazione della riforma costituzionale in corso.

 

Rotta di collisione fra autonomia scolastica e competenze regionali?

V’è chi dice che si tratta di un provvedimento innocuo e anodino, chi ha promesso, per farlo passare, di ricorrere al voto di fiducia, chi annuncia la catastrofe e un referendum abrogativo: che sarebbe un altro modo per indebolire il capitale sociale e per accrescere la spesa pubblica. Muro contro muro, si dice in gergo. E noi che ci eravamo illusi che il Muro di Berlino fosse l’ultimo. Torna alla mente l’ultima stagione della vita di don Giuseppe Dossetti, che metteva in guardia dal ricorrere con troppa leggerezza alla modifica del testo costituzionale. Il testo di Bossi affida alle Regioni "competenza esclusiva" su "organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione". Che significa? In aula è stato accettato l’emendamento Bassanini che precisa "salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche". Ma organizzazione e gestione sono termini polivalenti, che possono nascondere sorprese. E le scuole non statali? Su materie di questo genere non è pericolosa la fretta? Certo anche la frettolosa legge 3 dell’Ulivo non è un capolavoro di chiarezza.

Giuseppe De Rita, in un suo recente volume, ha parlato di possibile suicidio delle istituzioni.

Probabilmente questa cupa previsione non si attuerà; ma a noi occorrono virtù particolari per affrontare questa situazione complessa, confusa, contraddittoria, che non si risolverà in pochi anni, e che dovremo seguire, con strabica attenzione alle regioni, a Roma e a Bruxelles.

Servono per esempio l’eutrapelia, la virtù del buon umore, e la preghiera di Tommaso Moro, che chiedeva la forza di cambiare le cose che si possono cambiare, la pazienza di sopportare quelle che non si possono cambiare e la saggezza per distinguere le une dalle altre. Dopo tutto, la democrazia è il metodo che ci consente di esercitare il diritto/dovere di fare proposte, di batterci per una soluzione e di accettare poi, il più creativamente possibile, ciò che si è deciso da parte di chi è legittimato a farlo.

E’ per esempio una fiammella di luce l’emendamento alla finanziaria che prevede l’aumento di dieci centesimi del costo di un pacchetto di sigarette, per ricuperare 500 milioni di euro da spendere per scuola e ricerca. Meglio sarebbe ancora se si riuscisse a ridurre la spesa per tabacco (pare che passi la legge a difesa dei fumatori involontari), e incentivare il pagamento delle tasse, invece che ricorrere ai condoni, che disincentivano la correttezza fiscale.

E’ di qualche mese fa l’articolo di Angelo Panebianco, che stigmatizzava duramente, sul Corriere della Sera, le affermazioni di un ex ministro della Repubblica che difendeva l’innocuità del proprio comportamento di evasore.

L’esercizio del mestiere di cittadino s’incontra a questo punto con quello dell’educatore e dell’insegnante. Davanti alla Commissione Cultura della Camera sta il testo votato dal Senato col n. 1306, noto come legge delega Moratti per la ridefinizione del sistema educativo d’istruzione e formazione. Ci sono cose buone, cose meno buone, cose pericolose. Una di queste è la formulazione dell’art. 5, che rischia di far cadere fuori dal 3+2 universitario la componente professionalizzante per i futuri docenti. Ne diamo un cenno altrove. Bisognerà attrezzarsi per influire in qualche modo sul dibattito alla Camera. Signor Ministro dal nome rasserenante, siamo con Lei quando promette di essere aperta al miglioramento del testo di legge, quando chiede le risorse necessarie al Ministro del Tesoro e al Presidente del Consiglio, quando valorizza le famiglie e l’educazione scolastica in tutte le sue dimensioni. Noi però vorremmo che Lei fosse un poco anche con le nostre associazioni professionali, quando chiediamo una sede d’interlocuzione utile a partecipare al difficile cambiamento. Non cerchiamo gloria, ma la possibilità di portare lealmente la nostra parte di peso per salvare la scuola di questa complessa e complicata Repubblica.


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