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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Una piccola grande responsabilità rivoluzionaria

 

Sofferenza/divertimento

… Ma l’insegnamento è sofferenza…sì, è dolore. All’inizio lo è…quando si pretende di essere tanto bravi/e, tanto utili al prossimo, e poi ci  si accorge  invece che gli altri non  comprendono e che  oltretutto si deve  capirli e ascoltarli con un atto di volontà totale, determinato e  faticoso. La frustrazione rischia di prendere il sopravvento, oppure  la severità nel giudizio dell’operato altrui  emerge come estrema difesa del proprio.

Su questa verità non piove. Il fatto che esso dia anche un’estrema gioia nel  momento in cui il suo rapporto e il dialogo con l’apprendimento funziona è, a sua volta, innegabile. Che sia anche puro divertimento quando si ha a che fare con giovani allievi/e è altrettanto profondamente vero. Ma che sia dolore puro nel momento in cui qualcosa  sfugge, nelle occasioni in cui, e capitano sovente, ci si intestardisce  a riproporre “ricette” che  sembravano buone e non lo sono più, è una verità inoppugnabile. Detto questo, pertanto,  è giunta l’ora di cambiare completamente rotta all’interno degli ordini di scuola rifacendosi alle migliori ricerche in tema di didattica e metodologie. Soltanto così si potrà far fronte all’ignoranza dei decisori politici e alla sempre più diffusa “sofferenza”.

La nostra politica di cittadinanza attiva dovrà essere sempre di più il cambiamento nella conduzione delle classi e delle relazioni con tutti i soggetti interessati all’educazione, istruzione e formazione degli allievi/e.

 

Rivoluzione competente/valutazione rivoluzionaria

Facciamo tutti insieme una rivoluzione che, se pure lenta inizialmente, dovrà essere progressiva e testarda. Poniamoci di fronte ai problemi di chi sembra non apprendere con umiltà e studiamo attentamente le dinamiche intrinseche al gruppo su cui operiamo, poi lavoriamo con competenza intorno alla strutturazione dei team d’apprendimento in modo oculato, creando relazioni dialogiche su ogni ambito che andiamo ad affrontare, poniamo le domande giuste, ascoltiamo le riflessioni in risposta. Sbrogliamo insieme con i ragazzi i nodi, non diamo voti, non esprimiamo giudizi. Semplicemente viviamo gli apprendimenti come ricerca condivisa. Fidiamoci meno del nostro “sapere” culturale relativamente alle materie di insegnamento. Ricordiamoci che esse sono soltanto un veicolo per motivare alle capacità critiche, alla scoperta di “mondi” lontani dal “sapere” contemporaneo dei giovani, che esse hanno strutture da indagare per usarle come grimaldello da maneggiare per avviarsi alla comprensione dei saperi attuali.

Se dimentichiamo che i linguaggi odierni sono in continua evoluzione o ci limitiamo a non vederne le possibilità comunicative, gran parte delle classi non risponderà all’insegnamento, si arroccherà in difesa. Negli ordini di scuola successivi alla primaria, ma anche in molte situazioni della primaria, sarebbe auspicabile una competente gestione di scambi, di classi aperte, quotidiana, non soltanto su qualche progetto estemporaneo che poi vede il rinchiudersi successivo per portare a termine verifiche e programmi con cui arrivare al voto da scrivere sui pagellini o sulle schede di valutazione finale. Dobbiamo avere più fiducia nei ragazzi, ma soprattutto nella nostra capacità di gestire gli imprevisti, di accettare le sorprese, di mettere in crisi la nostra esperienza pregressa con altre classi, in altri contesti storici e in altre situazioni ambientali. Valutare dovrebbe essere un’azione tesa a far migliorare, dovrebbe essere autovalutazione in situazione da parte dei ragazzi, metacognizione costante. Certo il numero degli alunni sembra non aiutare quando è alto, tuttavia, se è così che ci vogliono, numerosi e ammassati in aule inadatte, noi dobbiamo chiedere a noi stessi lo sforzo di non farci schiacciare, di opporre l’amore per i giovani all’odio che sembrano avere i decisori politici verso la scuola tutta, qualsiasi cosa essa faccia, qualsiasi bellezza essa produca. Un odio grande verso il mondo della cultura in generale, ma in particolare proprio verso ciò che di grande l’istituzione riesce a realizzare: le vicende che hanno toccato la scuola elementare lo dimostrano.

 

Attenzione alle semplificazioni

E ancora, mentre sto scrivendo si parla delle classi ponte come della panacea per le difficoltà di inserimento degli stranieri. Eludendo qualsiasi soluzione già adottata e che ha prodotto buoni risultati, ci viene offerta la semplificazione su un piatto d’argento: della serie, se vi lamentate, ecco a voi la ricetta, e tenetevela! Che bestialità! Le risposte dovrebbero essere ben altre: classi poco numerose, organizzazione flessibile e autonoma delle singole scuole, informazione costante presso le famiglie di italiani e stranieri su quanto sia proficuo il contatto fra culture, Municipi disponibili ad offrire mediatori competenti e proposte extrascolastiche gratuite e di valore fruibili dai giovani di qualsiasi provenienza…

Ma la classe “normale” deve essere il luogo  della vita sociale e della crescita linguistica nello scambio continuo e cocciuto di parole, gesti, sfumature relazionali, sguardi, segni, problemi da risolvere insieme, e lo ripeto, senza valutazioni numeriche, senza il bastone, senza la cattedra, con i libri e i quaderni  usati come strumento di conoscenza, non come  la pretesa stessa conoscenza.

 

Conduzione e accompagnamento negli apprendimenti

Ci vogliono insegnanti preparati sulle proprie materie di insegnamento senza dubbio, ma prioritarie sono la modalità di conduzione delle classi, la volontà di fare ricerca dentro i testi, nei laboratori di informatica quando esistono e, se non esistono, dentro le immagini, dentro la musica, fra le macchine di un professionale, insomma ovunque si insegni e si apprenda. La maieutica deve diventare la forza del rapporto docente-alunno. Il docente non è buonista se fa un patto individualizzato con ognuno/a o, meglio ancora, con piccoli gruppi di lavoro; egli/ella diviene  compagno di ricerca,  sostegno, una persona capace di farsi piccola e di ascoltare, di parlare di Kant e al tempo stesso di mettere a disposizione gli strumenti affinché gli alunni producano riflessioni autonome su Kant. Dovrà essere in grado di non “arrabbiarsi” dinanzi a osservazioni che non condivide o che ritiene inadeguate, o strampalate, dovrà viverle come l’opportunità per dialogare, per andare oltre con altre proposte che veicolino la riflessione. Non sarà una perdita di tempo, bensì un guadagno incommensurabile.

Ci si accorgerà che il climax delle classi sterzerà verso la curiosità, verso la disponibilità, verso l’ascolto, verso una serietà inimmaginabile e così verrà stretto un patto d’acciaio fra vecchie e nuove generazioni, un patto fatto di ragione e sentimento…

Penso che queste mie iniziali considerazioni strideranno e non collimeranno con le idee di molti che ritengono la scuola il luogo della spiegazione, dell’interrogazione individuale, dei compiti in classe; credo già di indovinare le riflessioni sulle difficoltà organizzative, sul numero ridotto di ore di insegnamento, sugli ambienti inadatti, sulla valutazione che poi alla fine ci dovrà essere in numeri e in punteggi…eppure soltanto noi possiamo rivoluzionare il sistema, soltanto a noi è data la responsabilità di credere o non credere nelle capacità dei ragazzi. Se ci crediamo, allora cambiamo profondamente, ne vediamo l’umanità che chiede di sapere anche se nei modi che non ci piacciono, eppure sono i modi che hanno i giovani per dirci “io sono qui, fai che questo mio essere qui mi serva, fai che questo mio essere qui ti sia gradito anche quando sono sgradito, fai che io possa crescere come vorrei, ascoltami, so tante cose che forse ti possono servire per conoscermi prima che io possa dispormi ad apprendere”…

 

Integrazione separata?

Quindi lasciamo perdere le tentazioni dell’integrazione separata degli stranieri e apriamoci a una intercultura chiara e, oltretutto, necessaria per come è il mondo, per come andrebbe intesa la mondialità.

Se in classe gli insegnanti si trovano di fronte a problematiche nuove e inattese, provano sofferenza, così come quando si trovano dinanzi a un handicap gravissimo o a disagi inaspettati che gli alunni comunicano, siano essi italiani “normali”, o a rischio analfabetismo di ritorno, ma la sofferenza sarà lo stimolo al cambiamento, sarà la spinta per la ricerca, per far sì che questo lavoro difficile e incompreso nel suo tormento, divenga utile, indispensabile a tutta la società e…bellissimo!

La società e la politica  remano contro, così l’insegnare diviene ancor più una azione dolorosa e sofferta. Tuttavia è proprio dalle sabbie mobili che si fa di tutto per uscire  adottando stratagemmi diversi dall’annaspare o dal semplificare le modalità di emersione! Così come la scienza è nata e cresce e si arrovella intorno alle problematiche proprio per trovare adattamenti o superamenti, l’insegnare, il tracciare sentieri mai percorsi nella quotidiana lotta alla dispersione e alla spinta al riscatto sociale degli altri, prende l’avvio dai problemi più spinosi per poi anche saper “divertirsi”, per approcciare in modo ludico, spesso nuovo e artigianale, le dinamiche che nascono nelle classi multicolori e multi formate. La forma dell’acqua è quella che più ricorda il modo adatto per insegnare fra teste e idee e culture e relazioni complesse, talmente complesse da sembrare impossibili da gestire e impossibilitate a produrre risultati apprezzabili.

Certo la politica dei partiti non conosce l’insegnamento, non sa di apprendimento:

uno, perché non esiste la possibilità per nessuno, neppure per i più sensibili, di avere costantemente il polso della quotidianità; due, perché la politica ricorre alla semplificazione, mentre la realtà scolastica e quella delle persone che la abitano è ad alta complessità; tre, perché, in cerca di consenso, rimanda al pubblico ciò che il pubblico vuole, e cioè il “già visto”.

 

Non abbandonare la lotta politica e sindacale

Certo è triste pensare che senza risorse economiche date all’autonomia reale della scuola, l’atto dell’insegnare e dell’apprendere divengono ancora più complicati e a rischio; certo è moralmente ingiustificabile  accettare passivamente che tanti precari saranno ancora più precari invece di entrare di diritto nella scuola che ha fame di persone motivate e entusiaste di darsi e di vivere come avevano sognato e giustamente agognato, quindi guai a chi rinunciasse alla lotta politica e sindacale, guai agli indifferenti di gramsciana memoria.

E, pur tuttavia, se chi insegna rinunciasse alla ricerca, alla “sofferenza” dello sperimentare, dell’accettare le sfide, dell’aggiornarsi costantemente alla scoperta di strade sempre nuove e sempre più sofisticate in termini di didattica, metodologie e strategie, al buttare un modo di pensare alle ortiche, anche, a volte, per ritrovarlo dopo aver conosciuto modi alternativi e lontani anni luce dal proprio, sarebbe finita per tutti e per tutto, sarebbe la stasi anche della lotta che si deve fare per aprire le porte ad altre persone, le quali, per diritto, per studio, esperienza e competenze, restano sulla soglia senza poter mai iniettare sostanze vitali a un’istituzione che ha fame di energie giovani e intellettualmente provate.

 

La diversità   e la cooperazione, esplosione vitale della ricerca

Alunni stranieri, alunni italiani con culture e atteggiamenti sempre diversi essi pure,

alunni ex stranieri ormai italiani, alunni con handicap o senza, tutti e ognuno/a sono la sfida più grande, la miscela più esplosiva per la vita della ricerca pedagogica. Senza di loro la scuola sarebbe senza dubbio meno faticosa, più silenziosa, eppure talmente smorta da far temere per il futuro di industria, artigianato, commercio, terziario, tecnologie, sapere letterario, sapere linguistico, scientifico, ambientale, alimentare, sentimentale…Insomma, il mondo, pieno di contraddizioni e drammaticamente richiedente soluzioni, sarebbe a rischio di implosione. Impostare le azioni dell’ insegnare e dell’ apprendere come forza dinamica, propulsiva verso la libertà, il riscatto sociale e per il raggiungimento da parte di ognuno/a di benessere interiore, sia psicologico, sia intellettuale, è l’unica scelta possibile. E tale scelta  si completa con l’eliminazione di voti, giudizi sintetici, di enunciati approssimativi. Essa si completa con una scuola agente per un unico fine: il pensiero critico sviluppatosi per mezzo di apprendimenti vissuti, rielaborati, condivisi, discussi, cooperativamente nati e cresciuti fino a diventare patrimonio di tutti coloro che partecipano all’atto dell’apprendere dentro regole condivise, dentro la collaborazione, dentro la fatica del provare e riprovare insieme, dell’aggiustare il tiro in modo dinamico e dialogico con se stessi (unica competizione di qualche utilità) e con gli altri che mettono a disposizione da banco a banco, da aula ad aula, le proprie idee, i propri errori, le proprie competenze…Il sapere si fa, non si costruisce mai una volta per tutte e per tutti; tuttavia, l’avere dentro di sé la consapevolezza di valere, di essere diversi ma estremamente utili alla buona riuscita di progetti comuni, di essere costruttori e che la propria costruzione serve alla comunità, è la gioia più grande per alunni e insegnanti, la motivazione più valida per il recupero di sé e degli altri. Insegnare e apprendere divengono allora sì divertimento puro, vorrei dire ludico, che spinge in alto l’uno e il tutto.

 

Concretezza invisibile eppure tangibile nei risultati

Parlare di pedagogia è parlare di concreto più di quanto non sembri a prima vista. Incentivare la ricerca è qualcosa di estremamente rivoluzionario, di estremamente utile per cambiare un mondo che diventa stretto e angusto quando ricorre alla semplificazione, all’elusione o addirittura all’esclusione della differenza e delle differenze. Non dobbiamo vergognarci di esprimere l’invisibile, di desiderare l’utopia, di andare oltre i crolli delle pareti responsabili della morte di un giovane ragazzo vittima della sottovalutazione semplificatoria dei decisori politici di ogni epoca, i quali sempre pontificano, sempre dibattono, sempre offrono soluzioni inadeguate e al risparmio sul e per il benessere della gente comune e “piccola”. Non dobbiamo vergognarci di fare della pedagogia la forza propellente per noi e per i nostri alunni/e affinché divengano essi stessi capaci di migliorare le dinamiche sociali e di superare barriere di qualsiasi tipo, prima fra tutte quella che nega valore alla vita umana per darne ai consumi più di quanto essi meritino.

25 novembre 2008

Claudia Fanti


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