AUTOINTERVISTA SUL FEDERALISMO (SCOLASTICO):
SARA’ COMPETITIVO O SOLIDALE?

A cura di Giancarlo Cerini

 

La riforma costituzionale sembra ormai procedere, pur tra alti e bassi, lungo il suo percorso parlamentare. La Commissione Bicamerale ha consegnato al Parlamento un progetto di nuova Costituzione (parte II) che, dopo la sua approvazione in aula (con eventuali emendamenti e modifiche), dovrà ritornare agli elettori per la conferma definitiva, attraverso un referendum popolare.

Ma quanti cittadini sono adeguatamente informati sulla reale portata delle novità che si prospettano per il nostro ordinamento costituzionale? E, più in particolare, anche tra gli addetti ai lavori, quanti hanno riflettuto sul ruolo attribuito alla scuola ed all’istruzione nel nuovo assetto di una Repubblica che tutti (o quasi) ormai vogliono "Federale"? In definitiva, quali sono i vantaggi (e gli svantaggi) del federalismo in campo educativo?

Poiché nessuno ha pensato di chiedere a chi opera nella scuola un parere in merito alle prospettive del federalismo, ho pensato ad una auto-intervista per riflettere a voce alta sulle aspettative, le preoccupazioni, i dubbi, che sento quotidianamente provenire dal mondo della scuola.

D. "Federalismo e scuola" si presenta come un abbinamento del tutto inedito per il nostro paese. Molti però temono che la nuova Costituzione federale, con il suo richiamo al principio di sussidiarietà, vada a sminuire il significato della istruzione pubblica. Se lo Stato (che si vorrebbe più "leggero") riduce il suo intervento nel campo scolastico a favore di altri soggetti (Regioni, Enti locali, associazioni, privati, gruppi, ecc.) – ci si chiede - non si corre il rischio di indebolire (o addirittura di privatizzare) l‘educazione delle nuove generazioni?

R. In base alla nostra attuale Costituzione, l’educazione dei figli impegna la responsabilità diretta e prioritaria dei genitori. Essa costituisce lo specifico compito di una genitorialità consapevole. Sappiamo però che la formazione delle giovani generazioni rappresenta anche un’impresa "pubblica", perché pone le condizioni per lo sviluppo futuro di ogni società e delle persone che la compongono. E’ il tipo di educazione pubblica a orientare verso l’inclusione o l’esclusione, a integrare o separare, a promuovere o selezionare. E’ per questo che l’istruzione (in una società democratica) richiede un esplicito impegno delle istituzioni pubbliche per la promozione di una effettiva uguaglianza di opportunità e per il superamento di condizionamenti e discriminazioni sociali, culturali, etniche o di sesso. Questi sono i valori affermati nella prima parte della attuale Costituzione che, ricordiamolo, non è soggetta a revisione. Gli articoli della (nuova) Costituzione non potranno dunque contraddire questi valori di fondo.

D. Federalismo e autonomia impongono alla scuola di essere più attenta ed aderente ai bisogni della comunità in cui opera. La qualità della scuola sembra dipendere dal tasso di "occupazione" e "impiegabilità" che riesce a garantire –in uscita- ai suoi allievi. Sempre più spesso il Ministro (o l’Assessore) alla Pubblica Istruzione è accompagnato dal Ministro (o dall’Assessore) al Lavoro. La scuola –si chiede con insistenza- deve collegarsi maggiormente al mondo del lavoro, deve essere meno erudita e più moderna, più produttiva. Sono affermazioni condivisibili, o no?

R. L’aderenza alle esigenze del territorio e dell’ambiente (anche produttivo) sono in sé elementi importanti, ma non esauriscono il compito della scuola, anzi, potrebbero limitarne le potenzialità. Educare ad essere cittadini attivi, attraverso la conquista di strumenti culturali via via più raffinati e consapevoli (o almeno di quelli indispensabili), rappresenta la "mission" specifica del sistema formativo pubblico. La scuola non può essere orientata dalla sola preoccupazione del collocamento dei suoi diplomati nel mondo del lavoro (i problemi della disoccupazione non dipendono solo da una "cattiva" formazione). Istruzione ed educazione rappresentano dunque un bene comune, meritevole di essere tutelato dalla Costituzione, per non dipendere dai "capricci" del mercato, dai "desideri" dei clienti, dalle "spinte" localistiche. Ecco perché è preoccupante il silenzio della nuova Costituzione sul tema della "pubblica istruzione".

D. Ti riferisci, in particolare, a qualche articolo del nuovo testo di Costituzione?

R. Sì, all’art. 58, che non inserisce più la scuola tra le materie fondamentali attribuite all’intervento dello Stato. Si parla solo di una regolamentazione generale dell’istruzione (nel capoverso riservato alle attività sportive, al tempo libero, ai beni culturali). La scuola non sembra avere quella centralità che merita e che tutti a parole dichiarano di volere.

D. Oggi però il concetto di formazione è assai più esteso del contenitore "scuola". E’ molto più "pervasivo". Non c’è il rischio di fare la figura dei "conservatori" a difendere certe prerogative (quasi dei privilegi) della scuola e –per di più- della scuola statale?

R. E’ certamente vero che la formazione, oggi più che mai, si estende lungo tutto l’arco della vita e si avvale di una pluralità di sedi e di opportunità. Ma la sua parte iniziale (indicativamente quella che va dai 3 ai 18 anni) rappresenta un indispensabile fattore di promozione e di libertà per ogni persona, e dovrà essere organizzata con il massimo delle garanzie. Le sue caratteristiche non potranno essere affidate al caso. Un diritto fondamentale come quello all’istruzione non può dipendere dalla configurazione del territorio o dalle richieste della "clientela" o del mercato. Questo principio di uguaglianza andrebbe messo, nero su bianco, nella Costituzione.

D. Forse è per questo rischio di differenziazione che si guarda con preoccupazione alla prospettiva di una scuola federale? In fondo, il federalismo si lega alla storia della democrazia, con il suo forte richiamo ai concetti di autogoverno e di responsabilità delle singole comunità. Perché allora tanta ostilità e tutti questi timori?

R. Il federalismo è in sé una prospettiva accettabile, ma deve comportare la salvaguardia di una identità comune e di un principio di responsabilità solidale tra tutti i membri della comunità "federata". Altrove il concetto di "federalismo" è sinonimo di unitario, condiviso, sovra-locale, ecc. Mi sembra invece che da noi, di questi tempi, il termine "federalismo" sia associato più spesso all’idea di divisione, frantumazione, separazione di parti precedentemente unite. Non vorrei che dietro il termine di "federalismo competitivo" si celasse la voglia delle aree più forti di sottrarsi dagli obblighi di solidarietà verso quelle più deboli. Nel campo educativo queste spinte all’antagonismo sarebbero deleterie. L’istruzione, la formazione, l’educazione (ho voluto comprendere tutti i possibili significati dei termini) sono valori di interesse nazionale, uno dei "beni" comuni per cui vale la pena stare assieme. Ecco perché non ha senso parlare di "scuola padana" (o meglio, ha un preciso senso per chi punta alla secessione o alla frantumazione dell’unità del nostro paese). L’istruzione pubblica deve fondare il senso di appartenenza, in una prospettiva che valorizza certamente le identità locali, ma le proietta in un contesto nazionale volto all’integrazione europea. Spetta alla Repubblica, nelle sue diverse articolazioni, assicurare l’unitarietà e la coerenza del progetto formativo per l’intero Paese.

D. E’ però vero che la Repubblica non si identifica più con lo Stato. Questa corrispondenza era invece molto marcata nella Costituzione del 1948, che invitava la Repubblica a istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi e ammetteva l’esistenza di scuole private, ma senza oneri per lo Stato. Oggi la Repubblica diventa un’entità assai più articolata e si compone –come dice la nuova costituzione- di "Comuni, Province, Regioni e Stato" (e persino di "aree metropolitane"). Ognuno di questi soggetti aspira ad avere una sua parte nel nuovo sistema scolastico "federale"; perché dunque meravigliarsi se lo Stato riduce la sua presenza nel campo della scuola? Uno "Stato" più leggero non è forse nell’aspirazione di tutti gli innovatori? Non vorrai mica assumere il ruolo di un "vetero-statalista"?

R. E’ evidente che il nostro attuale Stato così accentrato non può funzionare. E’ necessario alleggerirlo, snellirlo, responsabilizzando le periferie. Ma uno Stato dovrà pur esserci, non potrà rattrappirsi nella cittadella dei Ministeri romani. La questione che pongo è proprio questa: lo Stato si ferma a Roma o deve articolarsi sul territorio nazionale? Come garantire altrimenti quelle finalità di uguaglianza, pari opportunità, compensazione, che tutti ritengono necessarie, ad esempio nel campo dell’istruzione. La prospettiva di passare alle Regioni tutte le funzioni legislative in merito alla scuola –come si afferma nella proposta di nuova Costituzione- comporta un reale rischio di "spappolamento" dell’unitarietà dei compiti attribuiti dalla Costituzione alla scuola pubblica del nostro paese. Ad esempio, esisterà ancora un unico Bilancio nazionale della Pubblica Istruzione (per ripartire le risorse alle Regioni in base alle effettive esigenze), oppure si andrà verso distinti bilanci regionali dell’istruzione, magari in base ad un reperimento in loco dei finanziamenti? Il federalismo fiscale responsabilizza certamente i cittadini, ma li può rendere assai "occhiuti" (per non dire egoisti) nella destinazione dei fondi reperiti.

D. Per evitare questi rischi, come dovrebbe cambiare il testo in discussione?

R. E’ vero che nel testo della Costituzione si afferma che allo Stato resta la "regolamentazione generale" in materia di istruzione, ma questa dicitura appare assai generica e riduttiva, e apre la strada a successivi conflitti e divergenze nell’interpretazione. Meglio sarebbe specificare che gli aspetti salienti del sistema di istruzione (ordinamenti, programmi, standard di funzionamento, stato giuridico e trattamento del personale, controlli e verifiche, titoli di studio) sono di esclusiva pertinenza dello Stato. Nel testo della nuova Costituzione esiste già un elenco con le materie meritevoli di tutela legislativa nazionale, ma tra queste manca proprio la pubblica istruzione. E’ necessario re-inserirla.

D. Ma allora, cosa resterebbe alle Regioni? Non si rischia di cambiare tutto per non cambiare nulla? Non avrà per caso ragione il Ministro Bassanini a lamentare le fortissime resistenze al cambiamento proveniente dagli apparati burocratici statali?

R. Intanto alle Regioni sarebbero attribuiti importanti compiti di programmazione dell’offerta formativa. Già le leggi vigenti (in particolare la Legge 59/97, cosiddetta Bassanini), individuano nella Regione, con il concorso di Province e Comuni, la sede decisionale della programmazione dei servizi scolastici: e questo significa apertura e chiusura di scuole, scelta di indirizzi, accorpamenti, dimensionamento degli istituti in vista dell’autonomia. Non sono compiti di poco conto. Anzi, ci si chiede se gli Enti locali saranno in grado di svolgere queste delicate funzioni. A quali criteri si ispireranno? Come leggeranno i bisogni "interni" delle scuole? Come sapranno gestire intese e accordi attraverso un vero dialogo tra le parti? Chi dirimerà gli eventuali conflitti? E’ giusto che siano gli Enti locali a decidere sul futuro delle scuole delle loro Comunità, perché la scuola è un elemento importante del "paesaggio" geografico e umano di un territorio, ma la scuola deve saper andare oltre, deve aprire prospettive di sviluppo e di confronto, deve mettere in gioco saperi disinteressati e non localistici. Ecco perché lo Stato non può rinunciare al suo impegno verso la scuola.

D. Ci stavamo dimenticando che è già in corso, con le deleghe previste dalla Legge 59/97, un processo di forte spostamento di compiti dallo Stato verso le Regioni e gli Enti locali. Come vedi l’attuazione della Legge Bassanini? E’ vero che si sta regionalizzando la scuola? Che i Provveditorati agli Studi scompariranno? Che la scuola verrà affidata a Comuni e Province?

R. In effetti c’è molta confusione attorno all’attuazione della Legge Bassanini. Al suo interno si parla di autonomia scolastica (l’art. 21) con il passaggio di funzioni dallo Stato alle singole scuole autonome (soprattutto in materia di organizzazione e didattica), ma si prevede anche (agli artt. 1 e 4) un ampio decentramento di funzioni verso gli Enti locali, proprio in materia di formazione. Abbiamo già detto della programmazione dell’offerta formativa (quante e quali scuole?), dovremmo poi aggiungere l’integrazione dei sistemi formativi (dei rapporti tra istruzione e formazione professionale), il sostegno al diritto allo studio degli allievi. Ma la prima stesura dei decreti delegati fa molto discutere: il diritto allo studio potrebbe consentire finanziamenti agevolati alle scuole private; l’integrazione dei sistemi formativi potrebbe portare alla "annessione" alle Regioni di una fetta di istituti professionali ora statali; la fornitura di servizi e strutture di supporto alle scuole potrebbe comportare il passaggio di bidelli, applicati e segretari sotto l’egida delle Regione. Le prime bozze dei decreti "Bassanini", di decentramento alle Regioni di compiti e funzioni dello Stato, configurano una "mossa" poco chiara e quasi controproducente. Ci si dimentica che i veri protagonisti dell’autonomia scolastica dovranno essere le scuole, con gli enti locali a fare sinergia…e non entrare in conflitto tra di loro per gestire (qualche particella) di scuola…

D. Ti sembra dunque che si stiano affidando troppi poteri agli Enti locali? Ma non è comunque sempre positivo ridurre le pretese di ingerenza burocratica del potere statale centrale verso la scuola?

R. Vedo che il tono della domanda lascia trasparire un pregiudizio negativo nei confronti dello Stato e della scuola statale. E’ ingeneroso ritenere che scuola "statale" sia sinonimo di vecchiume, arretratezza, burocratismo. La qualificazione di "statale", oltre ad essere prevista dalla prima parte della Costituzione, risponde all’esigenza di garantire un profilo istituzionale omogeneo, una scuola di qualità, in ogni contrada del nostro paese. E la nostra scuola pubblica, pur fra tanti difetti, ha saputo svolgere negli ultimi decenni questa funzione. Si pensi al grande "balzo in avanti" della scolarizzazione femminile, ad una scuola materna ed elementare che sono considerate competitive anche a livello europeo, alla presenza di punti di eccellenza in tutte le zone del sistema. Di qui occorre partire per ripensare al ruolo dello Stato, delle Regioni, degli Enti locali e soprattutto delle Scuole.

D. In concreto, cosa significa…

R. Che alle scuole autonome va riconosciuta una più consistente autonomia funzionale nel campo amministrativo, organizzativo, didattico e culturale, nell’ambito di standard definiti e verificati nazionalmente. Va inoltre esclusa una forma di gestione "locale" del personale della scuola (reclutamento, stato giuridico, formazione, valutazione), che potrebbe ingenerare chiusure ed involuzioni, fino a limitare il riconoscimento di una indispensabile sfera di libertà culturale e progettuale. La gestione del sistema formativo statale dovrà essere assicurata da un’Amministrazione autorevole e competente, caratterizzata da imparzialità, equità e senso del servizio pubblico, che garantisca continuità istituzionale e tenga fuori la scuola da contraccolpi politici di corto respiro. La nuova amministrazione dovrà inoltre valorizzare meglio le competenze tecniche e culturali. Meno burocrazia e più professionalità potrebbe essere lo slogan...

In fondo con l’avvento dell’autonomia non si tratta di cambiare l’azionista di maggioranza della scuola (passando la mano dallo Stato agli Enti locali). Non è in discussione uno spostamento di competenze o di poteri sulla scuola, bensì una crescita di responsabilità e di impegni verso la scuola. Con l’autonomia ognuno dei soggetti in campo dovrà dare il meglio di sé: le scuole (in quanto a protagonismo culturale e didattico), gli Enti locali (come interlocutori credibili per lo sviluppo della scuola), lo Stato (come garante indispensabile di opportunità, equità, qualità e quindi con l’obbligo di definire gli indirizzi generali e le connesse verifiche).