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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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SPERIMENTAZIONE:  SERVE UN “BEL GESTO”

                                di Giancarlo Cerini (*)

 

1. Lo scenario: un clima “non pacificato”

 

    Quando le agende parlamentari si infittiscono di appuntamenti e sui provvedimenti in discussione si sfiora quotidianamente il conflitto “sulle regole”, allora diventa quasi impossibile trovare quella serenità di intenti che dovrebbe caratterizzare il dibattito sul futuro della scuola. Insomma, l’esempio di George Bush jr, che nel gennaio 2002 firma la riforma USA della scuola sotto lo sguardo soddisfatto di Ted Kennedy, leader storico dell’opposizione, da noi è al momento impraticabile, anche se il “No child left behind” (“Nessun ragazzo resti indietro”) non è poi così lontano dal “Non uno di meno” propugnato da Tullio De Mauro (e che oggi dà il nome al sito che raccoglie la bandiera di quella stagione scolastica:  www.nonunodimeno.it).

    La situazione è ancora quella della delegittimazione reciproca ed incrociata tra i due schieramenti che si sono avvicendati alla guida del paese: l’invettiva “avevate condotto la scuola sull’orlo di una bancarotta culturale” addebitata ex-post al governo dell’Ulivo, va di pari passo con l'anatema “state conducendo la scuola verso il baratro del liberismo selvaggio” lanciato ex-ante al governo della Casa delle libertà.

    In questo modo è diventato pressoché impossibile ingaggiare un confronto di merito credibile sulle proposte di riforma presentate dal Gruppo di Lavoro Ristretto presieduto dal prof. Giuseppe Bertagna (dicembre 2001) (cfr. l’interpretazione riformista della vicenda fornita da C.Mancina, Gli errori della Moratti, le sviste dell’opposizione, sulla dalemiana “Italianieuropei”, n. 3, giugno-luglio 2002). Il documento dei saggi è stato travolto dalle polemiche pregiudiziali, ma anche da qualche insipienza nella conduzione delle operazioni in previsione degli Stati Generali, come coraggiosamente rivela uno dei membri del gruppo di lavoro, l’autorevole N.Bottani in “Un’altra occasione perduta: Letizia Moratti e la commissione Bertagna“ sulla medesima rivista.

    Così, anche un bilancio disinteressato sul recente passato non riesce a cogliere la “mole” di innovazioni prodotte: dall’autonomia delle scuole alla riforma dell’amministrazione, dall’obbligo formativo a 18 anni agli esami di stato (penultima versione), fino alla formazione universitaria dei docenti. Il dito si appunta impietosamente sul presunto giacobinismo di alcune misure (come l’obbligo scolastico a 15 anni per tutti nelle scuole superiori o l’istituzione di una inedita scuola di base settennale) e comunque sulla mancata condivisione delle riforme da parte della scuola, come sarebbe dimostrato dal fallimento della proposta di "valutazione" della professionalità docente.

    I nodi, come si vede, sono sempre quelli e non possono essere sciolti con qualche colpo ad effetto mediatico. Ragionando sui problemi, commenta P.Ferratini sul prodiano “Il Mulino”, ci si accorgerebbe, al di là delle polemiche, che forse è possibile costruire un percorso di riforma bipartisan, addirittura all’insegna dell’asse Berlinguer-Bertagna (cfr. P.Ferratini, La riforma Berlinguer-Moratti, in “Il Mulino” n. 2, marzo-aprile 2002).

    Sulle scelte di fondo, sui principi fondamentali, l’intesa è a portata di mano - suggerisce R.Drago, uno dei più ascoltati consiglieri ministeriali-  le divergenze potrebbero manifestarsi, semmai, nelle politiche di gestione e di implementazione, cioè sui modi di coinvolgere e convincere le scuole e gli insegnanti ad intraprendere processi di effettiva innovazione. L’atteggiamento difensivistico dei sindacati, ben visibile nei ripetuti pronunciamenti critici del Consiglio Nazionale della Pubblica istruzione, non aiuta il processo di riforma e rischia di confermare i docenti in un’area di marginalità sociale e politica. Ma -aggiungiamo noi- potrebbe essere la "spia" di un malessere profondo che va ascoltato e non semplicemente stigmatizzato.

    In questa prospettiva –prosegue R.Drago- la sperimentazione proposta dalla Moratti, al di là della sovraesposizione politica avvenuta nel Consiglio dei Ministri, è una sana provocazione perché mette le scuole di fronte ai nodi del cambiamento e le invita ad adeguare la loro offerta formativa alle mutate esigenze sociali. Così è per l’anticipo nella scuola dell’infanzia ed elementare (per cui esisterebbe una forte domanda sociale), per i nuovi modelli organizzativi (assai più semplici degli artificiosi “moduli”), per i nuovi programmi di studio (strutturati per abilità e conoscenze), per forme più incisive di alternanza tra istruzione e formazione professionale (come già stabilito in alcuni protocolli di intesa con sei regioni italiane). Il modello trentino, sanzionato con un protocollo ministeriale, e accolto dalla provincia autonoma di Trento a guida "ulivista",  dimostrerebbe la praticabilità politica di una riforma dei cicli diversa da quella scritta nella legge 30/2000.

    Fin qui la voce dell’amministrazione. Ma sull’interpretazione dei protocolli e delle sperimentazioni i punti di vista sono assai diversi (cfr. G.Cerini, La svolta federalista, in “Notizie della scuola”, n. 23, 1-15 agosto 2002) e oscillano tra la percezione di un “vulnus” giuridico (non si dovrebbe sperimentare ciò che non è stato deliberato in Parlamento) e l’enfasi sulla volontà della base (scuole ed enti locali) di procedere comunque sulle strade di una riforma praticabile.

    Il fatto è - scrivono alcuni intellettuali della “sinistra movimentista”, in un recente pamphlet allegato al mensile "Aprile", con l’ambita presentazione di S.Cofferati - che si sta delineando per la scuola italiana uno scenario  assai poco rassicurante, con un evidente restringimento di spazi democratici (contrassegnato dalla precoce canalizzazione dei percorsi formativi a 14 anni) e la consistente riduzione delle risorse destinate alla scuola pubblica (come anticipato dalla legge finanziaria per il 2002).

    Ma, ribatte Bertagna [1] ….(e qui si potrebbe proseguire ad oltranza in questo dialogo tra quasi-sordi sulle sorti della scuola italiana…). Preferiamo, invece, fermarci qui, prendendo atto di un clima non ancora pacificato e auspicarne il superamento (serve, appunto un “bel gesto”).

    Intanto, la prossima stagione autunnale propone un nuovo oggetto (la sperimentazione) che è stato lanciato nel dibattito politico sulla scuola, nelle prime pagine dei mass-media, nelle aspettative e nelle preoccupazioni quotidiane degli operatori scolastici e (anche) dei genitori. Forse il "bel gesto" è necessario proprio a partire da questo oggetto. Vediamo, allora, di spiegarci meglio.

 

2. La sperimentazione, questa “conosciuta”

 

    Non è una novità per il sistema scolastico italiano superare i ritardi della decisione politica attraverso la messa in atto di riforme “amministrative”. Interi settori si sono rinnovati mediante programmi di sperimentazione o, comunque, tramite processi di innovazione rimessi alla libera iniziativa delle scuole. Ricordiamo la vicenda del tempo pieno all’inizio degli anni ’70. La legge n. 820 del 20-9-1970 non aveva istituito il modello di scuola a tempo pieno, ma semplicemente proposto alcune ipotesi organizzative per l’avvio del tempo pieno (tramite attività integrative ed insegnamenti speciali). Il consolidamento del modello è venuto, più tardi, per via amministrativa ed oggi supera il 25 % dell’intera utenza della scuola elementare italiana, con larghi consensi nell’opinione pubblica. La stessa riorganizzazione “modulare” della scuola primaria (pluralità dei docenti, ambiti disciplinari, moduli, ecc.) fu anticipata sperimentalmente dalle scuole alla fine degli anni ’80, in migliaia di classi, assai prima che il Parlamento sanzionasse le novità con la legge n. 148 del 5-6-1990. Anzi, qualcuno fece osservare come il Parlamento fosse stato quasi costretto a legiferare da un movimento “anticipatore” a favore della riforma.

    Analogamente potremmo dire per la più recente esperienza degli istituti comprensivi (le istituzioni che raggruppano in una sola struttura organizzativa e professionale le scuole materne, elementari e medie di un medesimo ambito territoriale). Anch’essi sono nati quasi per caso, all’interno di un provvedimento rivolto alla tutela delle zone di montagna (la legge n. 97 del 31-1-1994), con un basso profilo pedagogico ed organizzativo, che si è precisato mano a mano che l’esperienza si estendeva. La piattaforma pedagogica degli istituti comprensivi è stata messa a punto anche attraverso processi di sperimentazione “controllata” che hanno coinvolto gruppi di istituti con la guida di comitati tecnico-scientifici autorevoli e con l’accompagnamento di azioni di monitoraggio. In ogni regione sono stati costituiti poli di documentazione per lo scambio di materiali, esperienze, risultati delle ricerche curricolari degli istituti comprensivi.

    Potremmo continuare negli esempi con il riferimento alla scuola dell’infanzia, coinvolta in anni recenti nei progetti di ricerca-azione ASCANIO (su nuovi modelli organizzativi) e ALICE (di formazione sui temi della qualità dei contesti educativi) o con il più ampio quadro delle sperimentazioni strutturali che hanno riguardato ampi settori delle scuole secondarie superiori (fin dagli anni settanta).

    Si può affermare che la via sperimentale ha rappresentato una strategia per la riforma in assenza della riforma, con tutti gli elementi di ambiguità insiti in un simile approccio (prevalenza del dato amministrativo, ruolo degli ispettori e dei gruppi tecnici di elaborazione dei piani di studio, frammentazione dei modelli, oscillazione tra ipotesi blindate dal centro –le cosiddette sperimentazioni assistite- e spontaneismo “locale”), con un endemico deficit nei criteri e nei sistemi di verifica e di valutazione. Anche nel 1997, in attesa del decollo dell’autonomia scolastica, un discreto numero di scuole secondarie (166, scelte “quasi” direttamente dal Ministero) è stato immesso in un percorso di sperimentazione, comprendente il riassetto degli orari curricolari (leggermente ridotti e rimodulati per far posto ad attività opzionali e a nuove discipline, come ad esempio le “tecnologie dell’informazione e della comunicazione”).

    L'autonomia scolastica riconosce alle scuole un ampio diritto di iniziativa di ricerca e di sviluppo, cioè l’attitudine ad un continuo miglioramento della propria offerta formativa, per meglio adattarla alle esigenze degli allievi e del contesto socio-culturale. L’autonomia (art. 6 del Dpr 275/99) suggella il riconoscimento di un modello naturalmente sperimentale, cioè un invito permanente alle scuole ad innovare facendo leva sulle proprie energie interne.   

    E’ su questa base che il Ministro, anche di fronte alla stasi dei lavori parlamentari sul disegno di legge di riforma degli ordinamenti, ha aperto la stagione della sperimentazione, dapprima con alcune Regioni, sul tema dell’integrazione tra istruzione scolastica e formazione professionale, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo scolastico a 15 anni, poi sul fronte della scuola primaria, con la possibilità offerta a 200 scuole di sperimentare alcune delle innovazioni previste dal disegno di legge n. 1306 del 14-3-2002.

    Nel primo caso si è fatto ricorso ad accordi politici diretti con i Governi locali regionali (provinciale nel caso di Trento) richiamando l’autonomia delle scuole nell’aderire all’iniziativa; nel secondo caso (anche per ovviare alle critiche sul metodo precedente) si è scelto il ricorso all’art. 11 del Dpr 275/99 che consente al Ministro, oltre che ad altri soggetti (compresi gli enti locali e le scuole) di proporre progetti di sperimentazione, anche di carattere nazionale, aventi per oggetto innovazioni di ordinamento.

    In particolare, l’idea è quella di consentire l’anticipo delle iscrizioni alla scuola dell’infanzia ed elementare (per i bambini che compiono i tre e i sei anni nei mesi di gennaio e febbraio dell’anno successivo a quello previsto), di mettere alla prova i nuovi indirizzi curricolari per la scuola dell’infanzia ed elementare (elaborati nel corso dell’estate 2002), di saggiare la validità di alcune modifiche nell’organizzazione del lavoro degli insegnanti della scuola elementare, tra le quali la figura di docente prevalente all’interno del team degli insegnanti.

    La procedura per l’attuazione di una simile sperimentazione prevede il parere obbligatorio del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, che dovrebbe essere reso entra la prima decade del mese di settembre.

    Restano, pertanto, molte incertezze circa l’effettiva possibilità di avviare in tempo utile i progetti sperimentali, vista anche l’esigenza di definire accordi con il sistema degli Enti locali, specie per quanto riguarda l’anticipo nella scuola materna e, ancora, di riaprire i termini di iscrizione per i genitori interessati, di apportare le necessarie modifiche all’organizzazione didattica, in larga parte già programmata. Inoltre, scarse notizie si hanno, al momento, sulla disponibilità di risorse aggiuntive (di personale o di finanziamento) per far fronte ai nuovi impegni.

    Sarebbe opportuno soffermarsi maggiormente su queste condizioni di contesto (tempi, risorse, informazioni, processi di decisione) che rischiano di ridurre l’impatto della proposta tra gli insegnanti e nelle scuole, proprio nella delicata fase di avvio dell’anno scolastico.

    Tuttavia, per non rimanere alle sole questioni di metodo, proviamo ad entrare nel merito delle questioni più importanti sollevate dal progetto di sperimentazione, che si riferiscono all’anticipo delle iscrizioni, ai nuovi curricoli, ai nuovi modelli organizzativi.

 

  1. Anticipo, anticipo… ma non solo anticipo

 

    L’anticipo scolastico è una questione assai controversa, sia sotto il profilo pedagogico, sia sotto quello istituzionale ed organizzativo. Chi è favorevole ritiene che oggi le potenzialità cognitive e sociali dei bambini di 3 o 5 anni siano nettamente sottovalutate e che quindi le offerte didattiche dovrebbero meglio adattarsi a questo maggior dinamismo dello sviluppo infantile. Chi l’avversa ritiene invece che alimentare aspettative e anticipare obiettivi cognitivi a questa età vada tutto a scapito di un equilibrato sviluppo emotivo-affettivo dei bambini. Gli esperti del Gruppo Bertagna avevano sconsigliato ogni forma di precocismo e di anticipo.

    Anche all’interno del Parlamento, e della stessa maggioranza di governo, si sono manifestate idee incerte, che hanno portato ad una proposta di estrema cautela, che prevede uno scorrimento in avanti di soli due mesi (quattro mesi, in prospettiva) dell’età di accesso alla scuola materna ed elementare.

 

    Anticipo alla materna.  Oggi è possibile iscriversi alla scuola materna avendo compiuto i tre anni di età entro il 31 dicembre dell’anno scolastico di riferimento. E’ già prevista una deroga per i bambini nati nel mese di gennaio successivo, ma l’effettiva frequenza decorre solo dal compimento del 3° anno (e quindi in corso d’anno scolastico) e in subordine alla disponibilità di posti liberi. La nuova normativa, così come viene congegnata nel progetto di sperimentazione (e ampliata nel disegno di legge n. 1306 del 14-3-2002), consente invece la frequenza fin dall’inizio dell’anno scolastico per i nati in gennaio e febbraio, configurando un anticipo massimo di sei mesi nella frequenza della scuola dell’infanzia. La decisione spetta, comunque, ai genitori.

    Fino ad oggi sono stati gli enti locali a far fronte alla domanda educativa per i bambini al di sotto dei tre anni di età, attraverso gli asili nido (istituiti con la legge 1044 del 1971), che accolgono generalmente bambini dai tre mesi ai tre anni di età. Recentemente, in alcune Regioni, sono state approvate leggi regionali sugli asili nido (e su altre tipologie più flessibili di servizi) che consentono di potenziare l’offerta educativa per i bambini dai 2 ai 3 anni di età. Tali servizi sono gestiti dai comuni (es.: progetti 0-6) o dagli enti privati convenzionati (es.: sezioni “primavera”)

      La chiamata in causa dei nidi, che pure si rivolgono al solo 7 % dei bambini di età 0-3 anni, rappresenta un passaggio obbligato nel momento in cui si intende aprire il tema dell’anticipo sperimentale della frequenza alla scuola dell’infanzia di bambini di 3 anni non ancora compiuti (con precisione, di 2 anni e 6 mesi).

    Gli asili nido dispongono di una cultura pedagogica appropriata ai bisogni educativi della prima infanzia (con una forte attenzione alle dinamiche affettive e relazionali), modelli organizzativi sperimentati in genere con molta cura, competenze professionali messe a punto attraverso una consuetudine di ricerca e riflessione sulle pratiche educative. Valorizzare questo patrimonio è indispensabile per non azzardare soluzioni improvvisate con bambini di due anni e pochi mesi.

    Va anche chiarito che, oggettivamente, l’apertura di un nuovo servizio educativo statale per una fascia di utenza così particolare rischia di essere alternativa al nido, mettendo in crisi le sue potenzialità di espansione futura. Analogamente potrebbe avvenire nei confronti delle cosiddette “sezioni primavera” annesse alle scuole materne paritarie e convenzionate con i Comuni, che possono accogliere già bambini dai 2 ai 3 anni, facendo riferimento ai parametri ed ai controlli delle apposite leggi regionali sui nidi. In definitiva, si vorrebbe che il nuovo esperimento dell’anticipo non fosse dettato solo dall’esigenza di “inventare” nuovi servizi educativi a costi ridotti.

    La domanda sociale dei genitori per questo tipo di servizio è alta, occorre sapervi far fronte con risposte di qualità, “dalla parte dei bambini”, con investimenti adeguati (si pensi ai rapporti numerici ridotti per le sezioni), senza mettere in crisi gli attuali assetti dei servizi prescolastici del nostro paese, che hanno già una loro alta affidabilità, anche se non sono sufficienti sul piano quantitativo.

 

    L’anticipo alle elementari.    L’iscrizione alla scuola elementare è consentita, in base ad una norma di legge (Art. 143 del T.U. n. 297 del 16-4-1994), ai bambini che compiono i sei anni di età entro il 31 dicembre dell’anno scolastico di riferimento. Una interpretazione estensiva di tale articolo ha fatto nascere la figura del cosiddetto alunno “uditore”, cioè di un alunno di 5 anni considerato “iscritto non regolare”, ma ammesso di fatto a frequentare la prima classe.

    In generale, la frequenza dei bambini di 5 anni i cui genitori aspirano all’anticipo, avviene regolarmente nell’ambito della scuola materna, magari in apposite sezioni (definite talvolta “primine”), ove viene svolto un programma didattico finalizzato a superare l’esame di idoneità alla classe seconda. L’esame per l’accesso diretto alla seconda classe (in qualità di alunno privatista) è oggi l’unica forma “regolare” –anche se forzata- di anticipo del percorso scolastico (prevista dall’art. 147 del T.U. cit.). Questa possibilità riguarda, secondo alcune stime ministeriali, circa il 5 % della popolazione di 5 anni di età. Non sembra, dunque, esserci una forte spinta sociale per l’anticipo.  

    Si interviene, oggi, con una limitata sperimentazione che, emblematicamente, riguarda solo le prime classi elementari e la scuola materna (ma sono sempre le scuole dei “piccoli” a doversi mettere in discussione ?). Questa limitazione, abbinata all’enfasi sull’anticipo delle iscrizioni alla classe prima per i bambini di 5 anni e sei mesi (in verità lo slittamento si riferisce a sole due nuove leve mensili: i nati di gennaio e febbraio), contribuisce a focalizzare la sperimentazione sul tema della continuità tra i due ordini di scuola. Anche in questo campo esistono esperienze di pregio, sollecitate dalla legge di riforma della scuola elementare (art. 2 della L. 148/90) che poneva la continuità educativa, dell’intero ciclo di base, tra i principi ispiratori del nuovo progetto educativo.

    I programmi del 1985 ipotizzavano una classe prima elementare fortemente attenta alle diverse caratteristiche dei bambini in ingresso ed, ancor più, alla qualità delle esperienze compiute nella scuola dell’infanzia di provenienza. In questo senso si esprimevano gli Orientamenti del 1991 per le Scuole dell’infanzia, anche se, saggiamente, preferivano individuare come punti di cerniera tra le due scuole i possibili traguardi di sviluppo dei bambini di 5 anni, piuttosto che una rigida tassonomia di prerequisiti.

    Le bozze dei nuovi indirizzi curricolari si muovono in questa direzione, ma scelgono di enucleare distintamente gli obiettivi di apprendimento del primo anno di scuola elementare, innovando una tradizione (risalente al 1955) che vedeva il primo ciclo composto di prima e seconda elementare. Sulla nuova “nervatura” curricolare si innesta ora il progetto di sperimentazione, attraverso la creazione di un vero e proprio ciclo di raccordo didattico tra i due ordini scolastici, cogestito dai docenti di entrambi i livelli, operanti in un team integrato.

    Questo sguardo “comune” sulla formazione dei bambini di 5 e 6 anni (capace di cogliere meglio le diverse dimensioni del loro sviluppo) potrebbe smussare, almeno in parte, le preoccupazioni di chi vede nell’anticipo scolastico un dannoso precocismo degli apprendimenti, con la netta prevalenza delle abilità cognitive. La cultura della continuità sembra così in grado di temperare la spinta a raggiungere, a tappe forzate, abilità e competenze strutturate per singole discipline, trasformando invece questi traguardi in una impresa educativa comune che si distende su più anni.

 

4.  Nuovi curricoli: solo un buon editing ?

 

    Una sola mano ha certamente ispirato (ma forse anche “scritto”) le bozze dei testi contenenti i nuovi indirizzi curricolari per la scuola dell’infanzia, elementare e media ed è visivamente rappresentata dalla netta separazione redazionale tra le INDICAZIONI (comprendenti gli obiettivi specifici di apprendimento minutamente descritti, disciplina per disciplina) e le RACCOMANDAZIONI (ove ritorna uno stile argomentativi e pedagogico tipico dei programmi vigenti).

    Non è solo questione di editing, infatti le Indicazioni assumono un carattere prescrittivo (cioè indicano gli obiettivi specifici che tutti gli insegnanti e le scuole devono obbligatoriamente mettere al centro delle progettazioni didattiche a livello di scuola, di classe ed anche di alunno. In questa ottica gli obiettivi specifici sarebbero il corrispettivo e la garanzia di quei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) da assicurare a tutti i cittadini anche in presenza di una scuola fortemente “federale”. Tra di essi è compreso il diritto all’istruzione, come diritto da esigere e su cui, giustamente, pretendere un affidabile sistema di rendicontazione e di valutazione; anche per la scuola dell’infanzia, se vuole (come in effetti vuole) essere considerata parte integrante del sistema nazionale di istruzione (pur con qualche inevitabile rischio).

    Le Raccomandazioni, invece, vogliono favorire la migliore interpretazione del “senso” delle discipline di studio, la coerenza delle scelte metodologiche e didattiche, l’esemplificazione di possibili modelli organizzativi, con qualche nuovo oggetto di interesse pedagogico (il port-folio, il laboratorio, il piano personalizzato di studio, l’insegnante-tutor, ecc.).

    Lo stile delle raccomandazioni risulta eccessivamente espositivo-argomentativo, quasi si trattasse di un saggio d’autore o di un articolo per rivista di settore. L’effetto ottico, soprattutto per le indicazioni prescrittive della scuola elementare, è di un eccesso di minuziosità negli obiettivi, anche perché sono reiterati su tre distinti livelli (al termine della prima classe, della terza classe, della quinta classe), per tutte le 10 discipline del curricolo (italiano, inglese, storia, geografia, matematica, scienze, tecnologia, musica, arte ed immagine, attività motorie e sportive) e per l’undicesima, l’educazione alla convivenza civile, che si articola in 6 ulteriori educazioni (educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività).

    Apprezzabile è lo sforzo di distinguere, anche graficamente, il quadro delle abilità (colonna di destra) da quello delle conoscenze (colonna di sinistra). Le une (abilità) non riconducibili ad un mero saper fare esecutivo, le altre (conoscenze) non solo meri contenuti nozionistici da acquisire. Ma, appunto, le nuove indicazioni si leggeranno da destra verso sinistra (le conoscenze, innanzitutto !) o da sinistra verso destra (le abilità al centro del progetto !), oppure –proseguendo con un pizzico di ironia- dall’altro verso il basso, con stretto criterio cronologico o tassonomico, oppure dal basso verso l’alto ? Detto in altre parole: c’è un ordine logico, epistemologico, psicodidattico nella disposizione degli obiettivi sulle 11 tavole prescrittive (10 discipline + 1 “educazione”) delle Indicazioni ? O ancora, con quale libertà (o discrezionalità professionale) gli insegnanti potranno utilizzare questi materiali (prescrittivi) per costruire un quadro di obiettivi formativi , in grado di trasformare contenuti e abilità descritti a priori in elementi di effettiva formazione e crescita degli allievi, cioè in competenze legate a specifici contesti operativi (l’ambiente, i ragazzi, la didattica) ?

    C’è dunque un filo logico che lega tra di loro obiettivi specifici, obiettivi formativi, unità di apprendimento e competenze degli allievi, certamente non  univoco, né pedissequo. Basta un approccio ologrammatico, scrivono con nonchalance gli estensori dei nuovi curricoli, cioè considerare sempre aperto e reciproco il rapporto tra le parti e il tutto, tra il tutto e le parti (cioè tra il ruolo dei saperi e la formazione di una persona).

    Ma afferma Laura Carotti Goggi, insegnante già impegnata nella elaborazione dei curricoli “De Mauro”, mi sarei aspettata un centro nazionale (il Ministero) che mi dicesse: “…la comunità nazionale vuole studenti che alla fine del loro percorso (o nelle tappe intermedie) siano in grado di …… (segue l’elenco di competenze complesse, naturalmente non analitiche) e tu docente (tecnico della disciplina) analizzi e declini in procedura la competenza, individui attraverso quali passaggi specifici, obiettivi di apprendimento strettamente connessi a contenuti, uno studente può arrivare all’esercizio consapevole della competenza richiesta…”.

    Al di là di un dibattito che potrebbe risultare sterile (“vengono” prima gli obiettivi specifici o gli obiettivi formativi ? dove “mettiamo” le competenze ?) ci sono questioni di forte impatto per il concreto lavoro didattico degli insegnanti.

    Ci si dovrebbe chiedere, ad esempio, come mai esiste e permane uno scarto consistente tra pratiche didattiche quotidiane e indicazioni programmatiche nazionali (verrebbe da dire) indipendentemente dal loro contenuto. Non basta cioè un buon lavoro redazionale, di semplice editing e di maquillage (come è avvenuto nel caso della revisione limitata degli Orientamenti della scuola dell’infanzia) per rendere utile e funzionale un nuovo testo programmatico.

    C’è un problema di metodo, di tempi necessari per il coinvolgimento degli insegnanti e delle scuole in un processo di condivisione di nuovi orientamenti culturali e pedagogici, che non possono essere imposti solo con la forza della legge. Ma c’è, soprattutto, un’esigenza di individuazione di un curricolo sostenibile, cioè di una credibile sintesi tra principi pedagogici, strategie metodologiche, condizioni organizzative, assunzione di responsabilità di tutti i soggetti che agiscono nell’ecosistema formativo (in una classe, in una scuola, in un territorio).

    Se poi consideriamo gli effetti della insistenza sulla valutazione standardizzata delle prestazioni (su cui si sta costruendo il nuovo sistema nazionale di valutazione) esiste il rischio palese che l’idea di percorsi personalizzati di formazione sia ben presto contraddetta da un profluvio di prove e test oggettivi. O che si trasformi in una pericolosa “disarticolazione” della vita della classe o del gruppo di coetanei (dove ci si forma e si dà anche un valore esistenziale all’apprendimento, come giustamente rivendicano i nuovi indirizzi pedagogici), per fare posto a storie scolastiche variamente “composte” e gestite dallo stesso studente, secondo un’idea affascinante ma anche prematuramente rischiosa.

 

5. I modelli organizzativi: e spuntò il “tutor”

 

    L’organizzazione a moduli, scaturita dalla riforma della scuola elementare del 1990, non ha mai goduto di una buona immagine. Vista essenzialmente come escamotage per salvaguardare gli organici dei docenti anche a fronte del vistoso calo demografico, piuttosto che conseguenza naturale della nuova impostazione culturale dei programmi didattici del 1985. Infatti, far crescere i ragazzi attraverso l’incontro con i saperi, le discipline, gli ambiti culturali, richiede il concorso di competenze specifiche dei docenti (al plurale).

    In questi anni ci sono stati degli eccessi. Si è assistito a volte al proliferare delle figure docenti, ad una frammentazione che ha portato alla secondarizzazione degli insegnamenti fin dalla prima elementare: troppi insegnanti (fino a 5-6), troppi quaderni, troppe “materie”, ognuna con le sue esigenze di tempo, le sue attività, le sue esercitazioni.

    Ma gli eccessi, se ci sono stati, si possono correggere; a maggior ragione, oggi, con gli spazi di autogoverno e di autoregolazione consentiti dall’autonomia. Il Regolamento (Dpr 275/99) ha “liberalizzato” la composizione del team docente, sulla scia di quanto era avvenuto nell’ambito del monitoraggio della riforma (si ricordi la circolare 116 del 1996).

    Un team “ragionevole” può prevedere una pluralità limitata nei primi anni, ad esempio, due docenti come nelle classi a tempo pieno, quasi a presidiare le due grandi aree della conoscenza, quella delle competenze logico-linguistico-espressive e quella delle competenze logico-critico-matematiche, che via via si arricchiscono con l’intervento di altre figure, altre discipline, altre opportunità, secondo un’ipotesi organizzativa che interpreta e accompagna lo sviluppo del curricolo verticale.

    Non sarà facile accantonare il team. Amato dagli insegnanti e dai genitori (con oltre il 65 % dei consensi tra i genitori interpellati dall’ISTAT nel dicembre 2001), è entrato stabilmente nel nuovo immaginario della scuola elementare. Disporre di una pluralità di figure e di relazioni educative è considerata dalle famiglie e dagli insegnanti un’opportunità di arricchimento e di crescita per i ragazzi. Sarebbe difficile contro-proporre un modello organizzativo diverso, magari ripristinando la figura del docente unico, costellato da alcuni (o tanti) “specialistici” con poche ore dedicate a discipline particolari (lingua straniera, musica, educazione motoria e altro).

    Certo, non è facile far funzionare un gruppo di docenti (o di adulti). Intanto, è un “vero” gruppo (cioè un insieme di persone che stanno insieme per un obiettivo comune) ? O è un semplice e casuale accostamento di docenti ? C’è tra i membri del gruppo un comune sentire sull’educazione dei ragazzi, un’etica professionale (ma anche un’estetica, cioè un’ipotesi di benessere nel lavoro) ? Nel gruppo l’io viene “scalfito”, perché è l’altro (sono gli altri) ad entrare in scena. Nel gruppo “si è per l’altro”. Entra in crisi la propria identità. C’è una doverosa inquietudine in ogni gruppo. La sicurezza non può essere imposta da regole formali (gli orari, le discipline, un “capo-gruppo”, un tutor…); verrà dopo, col tempo. Sarà la storia del gruppo a consolidarla: il gruppo è un’entità che vive, cresce, si sviluppa, può anche perire. Non basta curare le buone relazioni tra i docenti del team, occorre un progetto culturale comune, da cui far discendere una strategia didattica chiara e scelte metodologiche coerenti.

    Non sempre le istituzioni (le norme, i contratti, le circolari) hanno aiutato i gruppi a crescere. Sembra prevalere la “separazione” tra i docenti, tra le discipline, tra gli allievi. Si ripropone il ritorno tout court all’insegnamento frontale, alla sicurezza di un rapporto asimmetrico (finalmente…ci sarà chi insegna…e chi apprende), alla dura necessità della trasmissione del sapere, dell’in-segnare come “lasciare il segno”. Insegnare a conoscere e capire, ci dicono i migliori studiosi di questa strana e misteriosa “scatola nera” che è l’apprendimento, significa promuovere processi di scambio, di costruzione, di interazione, situati in un ambiente ricco di segni e di immagini (di tecnologie e di artifici “didattici”), dove si senta una pedagogia della compiutezza (e non della parcellizzazione, delle unità didattiche “sfuse”, delle schede e degli esercizi per disciplina, degli orari incomunicanti). Certo, sono i difetti possibili di un “modulo” che non funziona, dove le scelte non sono negoziate e il gruppo viene vissuto come un peso, non come una risorsa.

    Ecco perché è importante ripensare alla pluralità docente, dargli un significato, trasformarla in una vera risorsa educativa. Ben venga anche la figura del docente “tutor”, di cui molti oggi parlano; potrebbe contribuire a migliorare il funzionamento del gruppo docente, a professionalizzarlo, a integrarlo: ma –per favore- senza scorciatoie o infingimenti. Parlare di tutor, di leadership “diffusa”, di ascolto e condivisione è qualcosa di assai diverso dal ripristino “ideologico” della figura del maestro unico.

 

6. Appunto, serve un "bel gesto", ma quale ?

 

    L'apertura di una stagione "sperimentale" può rappresentare un'occasione importante per coinvolgere la scuola e gli insegnanti nei processi di innovazione. Oggi si vive con incertezza il futuro, anche perché sembrano mancare le occasioni di dialogo, di ascolto, di elaborazione condivisa delle prospettive di lavoro. La ridefinizione dei curricoli,  ad esempio, non può non tener conto della ricca storia della nostra scuola dell'infanzia, elementare e media, recentemente rinnovata con l'esperienza degli istituti comprensivi (che coinvolge oltre il 40 % delle istituzioni scolastiche), muovendosi con più sicurezza e coerenza nell'ottica della continuità del ciclo di base.

    Il piano sperimentale assumerebbe ben altro rilievo se fosse accompagnato da un'ampia incentivazione a tutte le scuole, non solo alle 200 prescelte, di usufruire pienamente degli spazi di autonomia e di ricerca/sviluppo che è loro riconosciuta.  Così pure il lancio di nuovi indirizzi curricolari dovrebbe puntare non tanto sull'effetto "sorpresa" di documenti inaspettatamente già pronti, ma a far cogliere il rapporto tra la pratica didattica e le indicazioni progettuali e culturali di carattere nazionale, anche per aiutare a colmare gli scarti che sempre si manifestano tra questi due livelli.

    Al centro della sperimentazione non può stare solo l'attualità dell'ultima versione del disegno di legge, ma un approfondimento critico ed argomentato di ipotesi pedagogiche fondate e di scelte organizzative praticabili.

    In altre parole, le scuole dovrebbero incamminarsi sui sentieri della sperimentazione, meglio se in rete, sapendo di poter disporre di ampi margini di libertà di ricerca e innovazione su alcune questioni fondamentali:

a)     la ricerca sui contenuti del curricolo essenziale e comune, che deve ora confrontarsi con l'ambizioso quadro di 10 discipline emergenti dalle nuove proposte di indirizzi nazionali, anche per collaudarne la fattibilità fin nei suoi risvolti orari;

b)     l'individuazione di una quota opzionale (obbligatoria) delle attività e di una quota facoltativa (aggiuntiva) che risponde a domande "locali" ma che deve salvaguardare l'insieme dell'offerta formativa esistente, che comprende una vasta quota di tempo pieno; si apre cioè la ricerca su una composizione interna e flessibile del tempo scuola anche mediante la ricerca di percorsi personalizzati, laboratori, gruppi di apprendimento;

c)     l’assestamento nell’organizzazione del team docente e nella configurazione della collegialità (limitandosi ad individuare il criterio-guida di un approccio progressivo e graduale al sapere disciplinare e alla differenziazione degli interventi), senza per forza “sponsorizzare” il solo modello del maestro prevalente in classe prima (ma anche nel tempo pieno) con 18-21 ore di insegnamento in una sola classe

d)     tenere aperta la questione della scansione verticale del curricolo del primo ciclo, a partire certamente dal ritmo 1+2+2 per la scuola elementare e 2+1 per la scuola media, da non considerare però come approdo definitivo. Il problema del curricolo verticale è assai controverso, come dimostra la diversa scansione proposta nel documento Bertagna (dicembre 2001), con la successione di quattro bienni in progressione, dei quali quello a scavalco tra 5^ elementare e 1^ media finalizzato ad avvicinare e “saldare” i due ordini scolastici. Di fronte ai dubbi degli esperti, si dovrebbe esigere un maggior margine di manovra a livello sperimentale, anche per saggiare l’impatto delle diverse ipotesi in campo.

e)     Valorizzare gli istituti comprensivi, per coglierne gli apporti più significativi, in particolare i primi tracciati curricolari emersi. Una presenza così diffusa e generalizzata di istituti comprensivi (IC) è ormai la “chiave di volta” del sistema scolastico di base e tanto vale sfruttarne fino in fondo le potenzialità, ad esempio nel bisogno (che l’IC rende esplicito) di un dialogo ravvicinato, anche in materia di curricoli, tra scuola elementare e media, un’idea che a livello nazionale è per il momento “raffreddata”.

 

    Di fronte ad un simile “bel gesto”, certamente cambierebbe anche l’atteggiamento delle scuole.

    Un obiettivo condiviso dovrebbe essere quello di promuovere un deciso investimento sulla professionalità degli insegnanti, assicurando rapporti con le sedi della ricerca, forme di consulenza sul campo, ambienti articolati per l'apprendimento professionale continuo) ed un consapevole rilancio dell'autonomia scolastica e delle sue condizioni di esercizio (organico funzionale favorevole, risorse finanziarie per la progettazione, effettivi margini di flessibilità organizzativa, articolazione di responsabilità e funzioni professionali, più intensi rapporti con gli Enti locali ed il territorio.

    Forse sarebbero queste le "variabili" sperimentali che i docenti e le scuole vorrebbero trovare nel decreto che dà il via alla sperimentazione. Oggi invece, i contenuti sono molto diversi, le domande "altre". Occorre recuperare questo ennesimo scarto tra scuola reale e scuola legale. Occorre, insieme, costruire le "domande" della sperimentazione, per rendere possibili e utili le "risposte".

 

(*) Alcuni spunti dell'intervento sono stati ripresi da articoli dello stesso autore in corso di pubblicazione sulle riviste "La vita scolastica", "Notizie della Scuola", "Didascalie/Trento". Un più ampio studio sul problema della sperimentazione è in corso di stampa per Tecnodid come inserto del n. 1 di Notizie della Scuola: G.Cerini-M.Spinosi, Uno sguardo alla sperimentazione (inserto), 1-15 settembre 2002.



[1] G.Bertagna, In nome della complessità. Riflessioni sulla riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione attualmente in discussione, in “Scuola e Didattica”, n. 18, giugno 2002.

 


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