CICLO PER CICLO…
Nuove ipotesi di riordino dei cicli all’esame del Parlamento

di Giancarlo Cerini

 

Le tessere del mosaico…

E’ ripreso nelle ultime settimane, presso la Commissione Cultura della Camera dei Deputati, il dibattito sul riordino dei cicli. Il Parlamento sembra rendersi conto che l'approvazione di una legge quadro sui cicli è ormai indispensabile per dare un senso compiuto alle tante azioni di riforma intraprese (estensione dell’obbligo, autonomia scolastica, ristrutturazione del Ministero, ecc.) e di fronte alle numerose operazioni amministrative oggi in fase di realizzazione, a volte con una certa improvvisazione. Ci riferiamo –in particolare- al dimensionamento delle scuole in previsione dell’autonomia (DPR 233/98), che sta delineando un sistema scolastico di base a due facce: una "verticale", con l’aggregazione di scuole materne, elementari e medie di uno stesso territorio (che riguarderà circa 1/3 della scuola dell'obbligo) ed una "orizzontale", con l’aggregazione di scuole dello stesso grado (che interesserà i restanti 2/3 dei casi).

Una simile incertezza di prospettive può inficiare l’intero progetto di riforma: sono troppi i segnali che parlano di scelte di riorganizzazione della rete scolastica del tutto casuali e localistiche, senza un preciso progetto culturale. (Ndr: Personalmente sono molto favorevole alle ipotesi di organizzazione della scuola di base in verticale, mediante l’istituto comprensivo. Tuttavia una simile prospettiva va adeguatamente motivata e preparata, non subita da operatori scolastici tenuti all’oscuro delle scelte. Inoltre l’istituto comprensivo richiede alcune serie condizioni di fattibilità: un territorio omogeneo, una contiguità dei plessi dei diversi ordini scolastici, un’ipotesi pedagogica condivisa sul tema della continuità del curricolo, una preventiva intesa tra scuola-enti locali per la messa in comune di risorse, idee, progetti. Non sempre si sono predisposte queste condizioni, anzi si è finito con l’anticipare al 1-9-1999 "verticalizzazioni" che avrebbero potuto decollare, con più agio, dal 1-9-2000).

E’ dunque urgente arrivare ad un quadro di riferimento certo ed organico. Questo è, in fondo, il pregio dell’ultimo tentativo predisposto dall’on. Soave (DS), relatore del provvedimento di riordino dei cicli, il quale ha ricucito in un nuovo testo le diverse proposte giacenti in Parlamento, a partire da quella –assai autorevole- predisposta dal Governo (3-6-1997).

 

Dall’ingegneria istituzionale al progetto culturale

E’ necessario che il nuovo testo proposto dall’apposito Comitato ristretto della Commissione Cultura, assai scarno e sobrio, non perda di vista il forte respiro culturale che un progetto di riordino dell’intero sistema deve saper testimoniare (…altrimenti il gioco non vale la candela). Un simile progetto non può lasciare l’impressione di una soluzione di mera ingegneria istituzionale, magari dovuta alle "limature" tra le diverse proposte in campo. Va detto che il nuovo modello 7+5 (cioè sette anni di ciclo primario e cinque anni di ciclo secondario), che prende il posto del precedente modello berlingueriano (conosciuto come 6+6), è stato vissuto come un accomodamento, un po’ al ribasso, tra le diverse forze politiche alla ricerca di un compromesso.

L’arte della mediazione non è, in sé, una malattia della politica, ma va esercitata con sapienza. Nel nostro caso, al di là delle soluzioni numeriche, i nuovi cicli devono garantire finalità esplicite di democratizzazione dell’educazione, di espansione di opportunità, cercando di mantenere alto il profilo culturale della nostra scuola. Questa è la scommessa su cui si regge la scuola pubblica nel nostro paese: promuovere nel maggior numero dei ragazzi quei "saperi di cittadinanza e di responsabilità" necessari per entrare da persone attive e consapevoli nella società della conoscenza (1).

Questa è anche la lettura che si può dare dell'estensione dell'obbligo scolastico a 15 anni (pur nella fretta e nell’improvvisazione della Legge 9/99 che sta destando notevoli contraccolpi negativi) e dell'espansione dell'obbligo formativo a 18 anni previsto dalla Legge 133/99, con la quale si tenta di garantire, per la prima volta, il diritto alla formazione anche a quel 35 % di ragazzi e ragazze che oggi fuoriescono (o meglio, vengono espulsi) dal sistema sistema scolastico dopo i 14/15 anni.

Diventa così più comprensibile l’ipotesi di anticipare il termine del curricolo scolastico a 18 anni. Lo si fa, non tanto in ossequio ad un presunto modello efficientistico, ma per garantire a TUTTI i ragazzi una formazione fino alla maggiore età, pur attraverso percorsi differenziati (la scuola, la formazione professionale, l’apprendistato), a tempo pieno o a tempo parziale.

L'uscita a 18 anni rappresenta inoltre uno stimolo a riorganizzare l'intero sistema con percorsi "lunghi" e coerenti. Va però ricordato che in Europa emergono orientamenti diversi: si va dalla proposta di una scuola di base obbligatoria lunga (modello scandinavo), alla presenza di due soli cicli, primario/secondario (con un rapporto tra i due segmenti variamente strutturato).

 

La vera novità: una scuola di base unitaria

Si consolida, nella proposta di mediazione parlamentare, l'idea di un "ciclo primario" unitario. La scelta ha fatto discutere, fin nell’uso dei termini. Perché "ciclo" e non "scuola"? Ciclo sembra riferirsi piuttosto ad una articolazione funzionale interna ai curricoli formativi, piuttosto che identificare una nuova istituzione scolastica. Perché "primario" e non "di base"? "Primario" rischia di essere sovrapposto ad "elementare". Un segmento relativamente lungo (dai 6 ai 13 anni, come quello ipotizzato nel testo della Commissione) è piuttosto una scuola di base, con elementi di progressiva secondarizzazione, anche se non esaurisce al suo interno tutta la formazione obbligatoria (i primi due anni delle superiori diventano infatti obbligatori).

Al di là dei nomi, ciò che conta è fornire un immaginario più nobile (europeo) al modello proposto, da leggere non con vecchi occhiali, ma mediante processi di ricerca aperta sul nuovo curriculum di base, sui compiti formativi e le competenze dei ragazzi, sulla mobilità professionale da garantire a tutti i docenti (senza barriere pregiudiziali). Non ha convinto la puntigliosa segmentazione del ciclo primario in un percorso scandito da tappe brevi (2+2+2+1), che sembrano evocare vecchie identità (la scuola elementare…la scuola media…), destinate a rimanere separate.

Perché non immaginare l’anno iniziale della nuova scuola di base come anno di forte raccordo con la scuola dell'infanzia, seguito poi da snodi biennali in cui integrare effettivamente scuola elementare e media?

La scuola materna –nel nuovo progetto- viene mantenuta nella sua scansione triennale unitaria, ma scompare l’obbligo del suo ultimo anno. Di fronte al rischio di marginalità di una scelta ancora "facoltativa", sarebbe quanto mai opportuno un cogente richiamo all'obbligo –almeno- delle istituzioni pubbliche nel garantire presenza generalizzata e qualità alla scuola dai 3 ai 6 anni, per rendere effettivo il diritto alla formazione per tutti i bambini, in tutte le aree del nostro paese.

 

Un punto interrogativo: cambierà la "secondaria" ?

Veniamo infine alla scuola secondaria superiore, che sembra l’istituzione meno "scalfita" dalla nuova ipotesi di riforma, la vera e propria variabile indipendente dell’intero riordino. Infatti, la scuola superiore mantiene l'attuale assetto quinquennale bypassando la doppia ipotesi di un modello più lungo (il "sessennio" berlingueriano), o più breve (il "quadriennio" proposto dai Popolari ed in particolare da Luciano Corradini). Per evitare che dietro questa conferma della quinquennalità (tipica dei nostri licei ed istituti tecnici) si celi un effetto "gattopardo", occorre ripensare in termini più aperti cultura, funzioni, modelli operativi dei nostri istituti secondari.

Il livello formativo in uscita, che viene considerato pregevole anche a livello europeo, va salvaguardato, ma vanno decisamente superate vecchie gerarchie culturali tra le diverse "filiere" (classico, scientifico, tecnico, professionale, ecc.) e va contrasta la pesante selezione sociale che ancora caratterizza il successo (anzi, l’insuccesso) scolastico.

In questa ottica l'autonomia può diventare una cosa seria, offrendo soluzioni innovative che vanno dalla didattica modulare alla integrazione dei percorsi formativi (dentro e fuori le classi): innovazioni che vanno però governate con una esplicita regia e progettazione curata dalla scuola.

Il nuovo obbligo scolastico (ricordandoci della prescrizione legislativa che prevede 10 anni di obbligo a tempo pieno, e non solo di 9, come in quest’ultima versione della legge) deve poter rappresentare un'ipotesi culturale coerente ed unitaria. A tal fine, sempre utile è il richiamo all'Europa ed alle scelte coraggiose che sono state compiute in molti paesi, con l'obiettivo di estendere l'area della formazione secondaria "unitaria e disinteressata" (ad esempio, il percorso quadriennale tra i 12 ed i 16 anni della scuola spagnola; o l'analogo percorso quadriennale francese, tra gli 11 ed i 15 anni; od il ciclo secondario obbligatorio inglese, tra i 12 ed i 15 anni).

Il rispetto di questo principio (perché altrimenti avrebbe ragione l’OCSE, nel suo Rapporto sulla politica scolastica italiana, a paventare la precoce canalizzazione dei percorsi secondari che traspare dal modello di riordino dei cicli proposto in Italia) richiede, per il nostro paese, un forte raccordo curricolare tra la nuova scuola di base unitaria e una scuola secondaria che deve effettivamente rinnovarsi.

Sarà necessario lavorare in profondità sul "nuovo" biennio obbligatorio della secondaria, per garantire l'effettiva equivalenza/unitarietà dei curricoli, la flessibilità/orientatività delle scelte, la congruità delle collocazioni istituzionali (insediamenti scolastici, sedi, poli unitari, opzioni e indirizzi, i rapporti con la formazione professionale, ecc.). Ma questi sono già problemi di stretta attualità, visto che il nuovo obbligo a 15 anni comincia a produrre i suoi effetti nella scuola secondaria superiore fin dal settembre 1999.

 

I grandi assenti: gli insegnanti

Ed infine, non ultimo, il problema degli insegnanti e del loro "consenso". In questi due anni si è registrata una certa tiepidezza, per non dire diffidenza, dei docenti nei confronti dell’ipotesi di una riforma radicale dei cicli. Ha pesato l’incertezza sulla nuova collocazione professionale (specialmente per gli insegnanti della scuola media) e l’ipoteca di una riduzione dei posti di lavoro (specialmente per gli insegnanti della scuola elementare), connessa alla contrazione del percorso scolastico dalle attuali 16 annualità a 15 (non più da 3 a 19 anni, ma da 3 ai 18). Una grande riforma non può certo essere finanziata con la riduzione dei posti di lavoro, anche se questo sembra essere il senso di tante ristrutturazioni dei servizi pubblici in Italia ed in Europa.

Il riordino dei cicli deve tradursi piuttosto in un'occasione di espansione di professionalità, di competenze, di mobilità, di funzioni arricchite. Solo associando, anche dal punto di vista delle emozioni, la "grande riforma" ad un’occasione "storica" di sviluppo e di crescita professionale, gli insegnanti potranno diventare i più validi sostenitori della riforma. E, allora, si potrà parlare ai docenti anche in termini chiari: serviranno, forse, 50.000 insegnanti "frontali" in meno, ma contemporaneamente saranno necessarie 50.000 risorse umane in più per trasformare le scuole in ambienti e luoghi di ricerca, di sviluppo professionale, di rapporto aperto con il territorio, di formazione permanente. E' necessario dunque riconoscere e valorizzare la risorsa insegnante, a partire dalla formazione iniziale ed in servizio che appaiono, per il momento, del tutto insufficienti e contraddittorie rispetto alle nuove esigenze.

Mai le parole dei "saggi" furono più "sagge": "Tutto ciò comporta un forte investimento negli insegnanti: nel gusto per l’insegnamento, nel senso morale, nel piacere che viene dal far conoscere, far discutere, far costruire sapere. La scuola deve diventare un luogo di vita e di apprendimento per docenti e studenti: per fare questo ci vogliono spazi e tempi adeguati e vivibili…la professione dell’insegnamento dovrà tornare ad essere culturalmente e socialmente desiderabile, grazie anche a nuovi profili di carriera e adeguati riconoscimenti economici"(2).

 

Note:

  1. CIDI (a cura di A.Sasso-S.Toselli), La scuola nella società della conoscenza, B.Mondadori, Milano, 1999.
  2. Ministero P.I., I contenuti essenziali per la formazione di base, Roma, 20 marzo 1998.


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