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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Federalismo "scolastico" ed altri scenari

di Giancarlo Cerini

 

Il contesto

Il Convegno dedicato a “Scuola ed Enti locali, insieme per il diritto all’istruzione” organizzato dalla Provincia di Ascoli Piceno nei giorni 5-6-7 dicembre 2002 a San Benedetto del Tronto, con il concorso di una rete di 23 amministrazioni provinciali italiane e di altre autorevoli istituzioni, si è collocato in una fase “calda” del dibattito politico-istituzionale sul futuro della nostra Costituzione e sul posto all’interno di essa del “sistema scolastico pubblico”.

Ambiziosamente, i curatori della manifestazione (che ha visto oltre 350 presenze, provenienti da tutte le regioni italiane) si erano proposti di fare il punto sullo stato di applicazione – in materia scolastica - della legislazione ordinaria (per tutti il decreto legislativo n. 112 del 30 marzo 1998, che già conferisce ampi poteri agli Enti Locali) e sulla prima attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione riformata (con la Legge Cost. n. 3 del 18-10-2001, confermata dal referendum). Ma, inaspettatamente, sono stati posti di fronte ad ulteriori novità, cadute proprio a ridosso del convegno, come l’approvazione (nella giornata del 5 dicembre 2002) da parte del Senato della Repubblica – in prima lettura – del testo di revisione della Costituzione (la cosiddetta “devolution” proposta dal Ministro delle Riforme istituzionali Bossi) o le “esternazioni” del Presidente della Repubblica Ciampi a tutela del valore unitario del sistema scolastico pubblico e della esigenza di un suo coordinamento nazionale da affidarsi allo Stato.

Inevitabile, allora, che durante la tre giorni sia stata percepita una forte tensione etico-politica, alla ricerca delle ragioni “forti” dello stare insieme di un paese e delle sue istituzioni, con una palpabile inquietudine per i toni “sopra le righe” che spesso hanno accompagnato le nuove idee in materia costituzionale (dal federalismo alla sussidiarietà, dalla libertà di iniziativa alla de-burocratizzazione degli apparati), presentate quasi sempre con una forte carica anti-istituzionale.

Così, anche una parola ormai entrata nel lessico quotidiano, come “federalismo”, è stata utilizzata con molta parsimonia e considerata in parallelo al concetto di “regionalismo”, forse in sintonia con il Presidente Ciampi, che ha preferito recentemente utilizzare tale termine, da qualcuno considerato un passo indietro, da altri un segno di maggiore attenzione alla tutela dell’integrità nazionale delle istituzioni.

Il convegno ha però accettato la sfida del federalismo “futuribile” inteso come fattore di democrazia, di espansione dei diritti e di pari opportunità tra parti distinte di una nazione che si “alleano” per meglio perseguire le finalità comuni. E non poteva che essere così, vista anche la presenza di autorevoli rappresentanti delle Magistrature del nostro Paese (Corte Costituzionale, Consiglio di Stato, Corte dei Conti), oltre al ceto politico più direttamente interessato ai nuovi scenari ed agli operatori scolastici attenti alle possibili “ricadute” sulla vita quotidiana della scuola delle evoluzioni istituzionali ancora in corso. Lo snodarsi narrativo di molte relazioni (in particolare quella del consigliere A. Pajno) ha fatto cogliere la lunga durata dei processi costituzionali, quasi a garanzia del loro valore “duraturo”, almeno dal 1948 al 2002.

 

Verso un federalismo ragionevole? 

Si può portare a referto degli esiti del convegno una possibile convergenza, un filo conduttore comune, nella ricerca di un “federalismo ragionevole”, cooperativo piuttosto che competitivo, capace di fare connessione piuttosto che accentuare divisione. È stato ricordato che solo due paesi, il Brasile ed il Belgio, hanno attuato “felicemente” un processo di distinzione federale da preesistenti forme statuali unitarie, come si vorrebbe ora in Italia.

È stato evidente l’invito ad evitare le fughe in avanti, che hanno spesso caratterizzato le scelte politiche di questi anni in materia costituzionale[1], ma anche in tema di riforme scolastiche, che ha visto un rapido susseguirsi di nuovi oggetti, nuovi prodotti, nuovi ritrovati, senza consolidarli (e consolidare una riforma vuol dire lavorare in una prospettiva di 10-15 anni), creando una situazione di incertezza che porta a lungo andare alla disillusione “riformatrice” ed al possibile disimpegno rispetto alle innovazioni[2].

In questa prospettiva costruttiva è stato importante mettere al centro del convegno di S. Benedetto oggetti molto concreti, come quelli relativi alle prime ipotesi di gestione del D.Lvo 112/1998 (con molte buone pratiche di integrazione storicamente già attivate[3]) piuttosto che di attuazione del nuovo Titolo V (ove le Regioni sono apparse più in ritardo, o meglio, in evidente imbarazzo). Si tratta, comunque, di strumenti giuridici talmente recenti da dover essere ancora messi alla prova, sia sotto il profilo strettamente amministrativo, di raffronto e raccordo tra le fonti (come ha ben precisato Sergio Auriemma[4]), sia sotto il profilo politico-istituzionale (come ha ampiamente argomentato Alessandro Pajno[5]).

Un processo inedito e quindi incerto, a rischio, ma da governare con gli strumenti della politica, di una buona politica, che è necessario ricostruire alla luce del nuovo scenario “bipolare” che non può essere riassunto solo dalla logica dello spoils-sistem: chi vince, vince tutto… chi perde, perde tutto (anche nel campo della politica scolastica). Per costruire questa “buona politica” servono certamente la cultura amministrativa ed organizzativa, che richiama in prima persona responsabilità diffuse e professionalità necessarie. L’operosa integrazione di energie e di risorse è la metafora del “buon governo” offerta dal celebre ciclo pittorico di Ambrogio Lorenzetti che affresca il Palazzo Pubblico di Siena. Appunto: non basta “comandare”, occorre “governare” (con il rispetto dei cittadini). Ed oggi, questa metafora del buon governo dovrebbe sfociare nella richiesta di un rigoroso rispetto delle istituzioni e delle regole costituzionali (il dialogo politico, l’indipendenza della magistratura, libertà di informazione, difesa del principio dell’unità nazionale)[6].

Questa è anche la sfida del federalismo “solidale”, cooperativo, della sussidiarietà che non può essere intesa in chiave di abbandono, di dismissione, di rinuncia ad ogni intervento pubblico, come se il principio di sussidiarietà fosse confondibile con il liberismo “compassionevole”. Una sussidiarietà ben intesa non significa sempre e comunque abbassare il livello di gestione sempre più vicino al destinatario finale dei servizi o delle prestazioni; in qualche caso occorre elevarlo ad una istituzione più forte e capace di rispondere alle esigenze dei cittadini (a questo proposito, il costituzionalista R. Bin ha utilizzato la metafora dell’ascensore).

Non è dunque accettabile parlare dell’intervento dello Stato nel campo dell’istruzione come di una “intrusione” o di un “monopolio” sgradevole, perché ci sono precisi obblighi costituzionali cui occorre far fronte per garantire il carattere pubblico dell’istruzione. Oggi, è vero, la Repubblica si articola (anzi, nel nuovo Titolo V: è costituita da) in una pluralità di soggetti: i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e, buon ultimo, lo Stato. Dunque, non c’è più nessun Stato di cui essere amici?

Oggi lo Stato sembra rimpicciolirsi. Stato moderno, stato “modesto”, ci ricorda M. Crozier[7], uno dei più attenti studiosi dell’evoluzione delle pubbliche amministrazioni. Dalla scuola dello Stato alla scuola della Repubblica è diventato uno “slogan” che si trova anche nelle pubblicazioni ufficiali del Ministero dell’Istruzione[8]. Ma il passaggio non è dei più facili. Non è scontato pensare al Sindaco né come semplice esponente dei cittadini (e degli interessi) che lo hanno eletto, né come Ufficiale di Governo nel senso di “organo” dello Stato (nelle classiche accezioni di “pubblico ufficiale”), ma quasi come ad una sintesi di interessi nazionali/generali (“la fascia tricolore”) e di interessi locali/particolari (“il gonfalone”), come nella tradizione anglosassone, che però non ci appartiene[9]. Da noi vige una doppia filiera, distinta tra organizzazione (anche periferica) dello Stato ed organizzazione (autonoma) degli Enti locali, ben visibile anche nel caso della pubblica istruzione. Il nuovo articolo 118 della Costituzione propone un passaggio molto innovativo, quando attribuisce ai Comuni la generalità delle funzioni amministrative, salvo che non se ne debba assicurare l’esercizio unitario conferendole a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.

 

L’autonomia nel paese delle tre Costituzioni 

Parlare del rapporto tra autonomia (anche della scuola) e federalismo significa ricostruire la lunga storia dell’affermazione delle autonomie locali, di quelle che oggi possono essere definite le potenziali virtù civiche delle 20 regioni, delle 100 province, degli 8000 comuni (e delle 10.000 scuole autonome, aggiungiamo noi). Si tratta di una evoluzione da Stato-ordinamento a Stato-comunità che sembra far venir meno quella “sontuosità” delle istituzioni a cui eravamo abituati dall’imprinting prefettizio cisalpino (e poi subalpino), e affievolisce l’imperatività che segnava il rapporto asimmetrico tra potestà delle istituzioni e diritti/interessi dei cittadini.

In questo nuovo scenario la scuola cambia pelle: da temuto apparato ideologico dello Stato, si sposta verso un’idea di servizio quasi di natura “privatistica”, quasi a giustificare la caduta dell’aggettivazione “Pubblica” dal frontone del Ministero della (non più ?) Pubblica Istruzione. L’istruzione si lega così ad una domanda soggettiva, di singoli utenti o fruitori, e non più al protagonismo di cittadini associati. In questa ottica sembra doversi interpretare il forte richiamo ai singolari diritti di libertà e di scelta in materia di istruzione che pervade la proposta di nuova riforma degli ordinamenti scolastica, fino alla scomparsa del concetto di obbligo, visto come intrusivo ferrovecchio dell’ottocento, sostituito dalla più dinamica dialettica tra diritto e dovere all’istruzione/formazione. Ma allora potremmo anche  aspettarci che questo diritto/dovere sarà, di qui in avanti, tutto contenibile in un “buono scuola” (come quota-parte “commerciabile” e “negoziabile” di un diritto civile e sociale).

Ma dobbiamo ancora cogliere le novità degli ultimi sviluppi costituzionali. Scorrono quasi in contemporanea di fronte a noi tre Costituzioni: quella del 1948, quella appena riformata del 2001, quella futuribile della “devoluzione”.

La costituzione dei padri fondatori (1948) ha un forte respiro “autonomistico”, con aperture su un’inedita idea di regionalismo, di decentramento e autonomia, sopitosi però negli anni successivi, fino alla ripresa degli anni settanta. Nella nostra legge fondamentale è presente una chiara affermazione di principi e di diritti, che appaiono come scolpiti nelle tavole della parte I del testo costituzionale. E’ positivo che nessuna parte politica immagini di sottoporre a revisioni la prima parte della Costituzione vigente. Nel campo dell’istruzione questa è una garanzia fondamentale: i primi articoli rappresentano una vera e propria piattaforma “pedagogica” ancora capace di indicare prospettive di sviluppo alla nostra scuola (oltre che alla società italiana), come ha più volte ricordato Tullio De Mauro[10].

          La riforma del 2001 (in particolare, del titolo V sugli assetti dei poteri locali) è il frutto di un regionalismo maturo, che suggella la compartecipazione delle Regioni alle scelte legislative, però attraverso un oggetto quasi misterioso come sono le “competenze concorrenti”, che invitano alla connessione, ma che potrebbero aprire la strada a insanabili conflitti di competenze, se non si trovano le sedi e le ragioni della integrazione e della compensazione. Nella legge n. 3 del 18-10-2001 queste garanzie sono presenti, seppur alquanto deboli, come ad esempio la commissione bicamerale integrata.  Nel nuovo testo si fa però apprezzare la forte presa di posizione costituzionale a favore delle autonomie scolastiche che sono “fatte salve” rispetto ad eventuali interventi debordanti degli enti locali, e la cui regolamentazione dovrebbe continuare a far parte della legislazione di carattere statale (ma su questo punto, gli esperti anche al convegno si sono mostrati piuttosto cauti).

La riforma preannunciata dal voto del Senato sulla devolution (5 dicembre 2002) introduce un principio di “federalismo a geometria variabile”, nel senso che viene riconosciuto alle Regioni la possibilità di “appropriarsi” autonomamente di “fette” di legislazione esclusiva in alcuni settori limitati, ma strategici (la sanità, l’istruzione e la polizia locale). Certo, resta in vigore tutto l’impianto della costituzione appena riformata (a cui gli articoli sulla devolution si aggiungono come commi ulteriori), con le garanzie fissate dalle “norme generali” di pertinenza dello Stato, dai principi fondamentali da rispettare, dai livelli essenziali delle prestazioni da tutelare. Tuttavia, il meccanismo adombrato appare dirompente, per la possibile diversa “velocità” dei processi di autonomia, dove le Regioni più forti sembrano anche quelle più pronte a “staccarsi” dalle comuni fatiche della solidarietà nazionale. L’assunzione di più forti prerogative legislative regionali potrà avvenire anche senza il necessario consenso del Parlamento (come è previsto oggi dalla legge 3/2001), ma con il semplice “via libera” di singole leggi regionali appena “vidimate” dalla Corte Costituzionale.

 Nel campo dell’istruzione la legislazione esclusiva si limiterebbe ad alcuni settori molto specifici: l’organizzazione e la gestione delle scuole ed i programmi di interesse “locale”. Ma c’è chi vede in questo nuovo articolato costituzionale una possibile erosione delle ancor fresche competenze che proprio in queste materie sono state da poco (con il Dpr n. 275 dell’8-3-1999) attribuite alle scuole autonome, in fatto di autonomia “organizzativa” e “didattica” e di potestà sul curricolo “locale”, oggi nella misura del 15 %.

Inoltre, il termine “gestione” può assumere un significato più o meno esteso a seconda delle diverse interpretazioni. Per alcuni si dovrebbe spingere fino alla gestione del personale docente in appositi ruoli di pertinenza delle Regioni[11], con connessi contratti di lavoro regionali (almeno integrativi di quelli nazionali); per altri, questo evento dovrebbe essere scongiurato, pena l’instaurarsi di un localismo inaccettabile anche nel profilo culturale della scuola. Così pure la possibilità di adottare diverse forme di gestione, partecipazione e governo delle istituzioni, potrebbe portare ad una diversa configurazione di diritti civili fondamentali a seconda dei territori di residenza. Per non parlare poi dei programmi di studio e della possibilità di curvarli in chiave regionalistica o localistica.

 

Le garanzie nazionali

Nei prossimi anni diventerà decisivo poter disporre di “norme generali” sull’istruzione che delimitino un’area essenziale di salvaguardia dell’unitarietà del sistema scolastico. C’è una declaratoria ben precisa delle prerogative dello Stato nella legge 59/1997[12] (non a caso definita del “federalismo amministrativo”), ma anche nel primo testo costituzionale del 1948 si introduceva il concetto di “norme generali” in materia di istruzione, già intuendo la necessaria distinzione tra aspetti essenziali, fondamentali, dell’ordinamento scolastico e normazione secondaria, di contesto, di dettaglio, meritevole di essere delegificata e affidata a fonti più specifiche e transeunti.

Oggi il problema non è semplicemente accademico, ma di sostanza: a chi spetterà custodire e far rispettare le norme generali? da dove dedurre queste norme? come verificare che nelle leggi concorrenti regionali, nella tutela degli interessi territoriali, non si oltrepassi questa “zona di rispetto”?

Un’utile ricerca è anche quella attorno ai “livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali”; in questo caso non siamo più in presenza di una pura enunciazione, ma di una previsione di diritti “strumentabili”, azionabili”, con l’aspettativa di una obbligazione da parte di chi (l’istituzione) quel diritto deve tradurre in una concreta e corrispondente azione.

Acquista così nuova luce il diritto all’istruzione come diritto ad una esperienza scolastica e formativa che consenta di raggiungere un risultato positivo a tutti i cittadini. Invece, il passaggio da obbligo (scolastico) a diritto (alla formazione) particolarmente visibile nel disegno di legge di riforma dei cicli (n. 1306/2002) è stato spesso interpretato come un arretramento rispetto al concetto precedente di obbligo scolastico: dovremmo però – almeno in linea di principio – cercare una convergenza di intenti tra il “non-uno-di-meno” propugnato da De Mauro, il “no-child-left-behind” (nessun bambino resti indietro) alla base della riforma scolastica degli USA, il “diritto all’istruzione/formazione per almeno 12 anni” (o fino al conseguimento di una qualifica) nel disegno di legge “Moratti”. Ma oltre ad una durata tendenzialmente omogenea dei percorsi di studio, che non appare pienamente realizzata nel nuovo progetto di riforma (chi sceglierà la filiera liceale uscirà dal percorso a 19 anni, chi la filiera professionale a 18 anni, chi opterà per una qualifica addestrativi potrebbe uscire anche a 17 anni), il problema è in quali condizioni si resta a scuola (o nella formazione) e quali sono i risultati finali. Oggi il 97% dei quindicenni è a scuola, ma sulla qualità degli esiti formativi ci sono ragionevoli dubbi.  Oltre alla durata degli studi c’è dunque un problema di standard di apprendimento e non bastano gli otto anni di scuola garantiti dalla Costituzione, come ci ricordavano i ragazzi di Barbiana nel lontano 1967.

Dovremmo chiederci se per garantire questi traguardi sia sufficiente l’intelaiatura dell’art. 8 del Regolamento dell’autonomia, che affida al ministro pro-tempore la stesura di finalità, obiettivi specifici, standard di funzionamento, verifiche degli apprendimenti, interventi di natura compensativa. Se questi sono punti di riferimento validi erga omnes si dovrà realizzare il concorso della comunità scientifica e professionale alla loro elaborazione. Infatti, per scrivere con piena legittimità programmi (o meglio, curricoli o indirizzi nazionali) occorre una voce autorevole e condivisa che sia espressione permanente della ricerca, della comunità scientifica e professionale, e quindi in grado di ergersi al di sopra delle parti e delle scelte contingenti.

Affiora oggi una preoccupazione circa un eccesso di deleghe, anche in materia di norme generali (e qui si affaccia anche un problema di correttezza costituzionale) in materia di istruzione. Appunto: chi ha titolo a scrivere le norme generali? con quali garanzie? Si ricorda che nel 1973, all’atto di concedere un’ampia delega all’esecutivo per scrivere i decreti delegati (emanati effettivamente nel 1974) fu prevista una commissione di redazione rappresentativa di tutte le correnti politiche, culturali e professionali del paese e della scuola. I decreti delegati furono scritti a più mani da un folto gruppo (di circa 60 esperti e politici): saranno stati gli effetti del consociativismo tipico della prima Repubblica, ma si ricorda altresì che quei decreti hanno retto per oltre 25 anni la vita della scuola, mentre oggi le riforme (quando vanno in porto) sembrano durare lo spazio di un mattino. Una riforma, in effetti, è tale se è a prova di almeno una generazione…

 

Il federalismo che verrà… 

Mai come in questo momento occorre saldare una visione di sistema, la comprensione delle nuove tendenze istituzionali con l’azione locale, la capacità di essere operativi, di gestire i nuovi spazi giuridici, amministrativi, organizzativi che si sono aperti con le innovazioni legislative di questi anni.

 La “vision” da sola non basta, non è sufficiente censire le “idee in movimento” per poterle esorcizzare. Esse si presentano a doppia valenza, quasi polarizzate: federalismo/regionalismo, autonomia/decentramento, sussidiarietà/responsabilità, libertà di iniziativa/solidarietà. Occorre mettere alla prova queste polarità, provare ad integrarle attraverso nuove alleanze e nuove sinergie, nuove responsabilità nel nostro caso tra scuole autonome, enti locali, amministrazione scolastica:

-       le scuole, oggi dotate di una autonomia con copertura costituzionale[13];

-       l’Amministrazione scolastica, con le sue funzioni serventi delle scuole, di promozione, di animazione, ma anche di indirizzo nazionale, di gestione locale[14];

-       le Regioni, le province, i comuni, con le competenze già attribuite dal decreto 112/98 e dal Titolo V[15].

Occorre assicurare un ruolo di garanzia (sui livelli essenziali delle prestazioni): il coordinamento dell’istruzione pubblica è una delle prerogative fondanti dello Stato. Chi e come si garantiscono i livelli essenziali delle prestazioni ? Cosa fa lo Stato e con quali strutture ed organi  agisce (al centro ed in periferia)?

A volte emerge una malintesa interpretazione dell’autonomia scolastica, quasi immaginando che le 10.000 scuole italiane siano 10.000 aziende private, 10.000 punti di servizio, senza bandiere, ciascuna con il proprio “marchio” (logo). Quello della carta intestata sta diventando un problema non semplicemente tipografico!

Certamente non è più tempo di grandi ed uniformi apparati burocratici. Ci stiamo spostando verso il binomio scuola-territorio, verso la scuola della comunità, verso il sistema formativo integrato. Però non abbiamo deciso con la legge 59/1997 di regionalizzare, provincializzare o municipalizzare la scuola. Allo Stato spetta sicuramente garantire i livelli essenziali; alle politiche locali, territoriali, sussidiarie, la capacità di tradurre i livelli essenziali in livelli ottimali, come ci ricordano le indicazioni europee sulle politiche pubbliche.

 Poteremmo usare un’immagine cara agli psicologi dell’apprendimento e parlare di un’area potenziale di sviluppo (area prossimale). Si può andare molto più avanti nell’apprendimento se si usufruisce di adeguati supporti, esempi, buone pratiche, tutoraggio, scambi, ecc. Questo può essere il ruolo del sistema degli enti locali, della legislazione concorrente regionale; il valore aggiunto da mettere nell’attuazione dei trasferimenti di competenze previsti dal decreto 112/1998.

Il pilotaggio locale del sistema formativo allargato funziona se sa evitare le politiche asfittiche, se risponde non solo ad una domanda del territorio, ma ad una domanda di sviluppo; l’interazione avviene su più direzioni. L’ente locale avrà una sua offerta formativa, un POF di territorio, come la scuola. C’è quasi un ritmo fisiologico. Da un lato ci sono le domande del territorio, del mercato, dello sviluppo, della ricchezza. Oggi sono i territori ad essere competitivi[16], con tutta la ricchezza del loro ecosistema formativo. Un anno in più di formazione per una generazione di un paese comporta un aumento del 3% del reddito loro prodotto, della ricchezza. Ma dobbiamo rispondere anche ad un’altra domanda, più disinteressata, che ci chiede di formare persone e cittadini. In questo secondo caso lavoriamo sui tempi lunghi, sulle conoscenze durature, sulla riflessività, sui saperi procedurali, che sono propri di una istituzione che non può inseguire tutte le conoscenze, ma che li deve selezionare, appunto dialogando con il territorio, la memoria, l’identità. Ecco che tornano in gioco la comunità, il territorio, per dare valore e “senso” all’incontro con i saperi.

Ci sono dei diritti delle persone, dei diritti di cittadinanza, delle responsabilità sociali nei confronti dei più deboli, che non possono subire limitazioni dovuti alla dimensione territoriale (su questo dovrà vigilare con attenzione la Corte costituzionale).

Ci sono poi le esigenze di un rapporto con il territorio, di una fisicità delle strutture scolastiche (pensiamo all’edilizia, alla sicurezza, al dimensionamento, alla qualità degli apprendimenti veicolati dalla struttura scolastica; una certa geografia degli insediamenti scolastici può costituire la premessa per una certa idea di riforma (pensiamo oggi alla rete degli istituti comprensivi o agli istituti secondari pluri-indirizzo).

Inoltre, occorre governare un’offerta formativa che si è diversificata (in istruzione/formazione), per far fronte a nuove sfide (come l’estensione dell’obbligo scolastico): anche perché la scuola ha avuto l’impressione di essere lasciata sola di fronte ad imprese impegnative.

La scuola dell’autonomia non è una scelta autarchica; attorno a sé occorrono servizi, alleanze, supporti. Non vogliamo essere nostalgici dei CIS[17], di strutture di presidio amministrativo (come rischiano di ritornare ad essere i Centri Servizi Amministrativi con la riforma del Dpr n. 347 del 6-11-2000), ma di servizi a disposizione delle scuole in rete, in modo che la rete (naturale) delle scuole si trasformi in una rete sociale (intenzionalmente progettata e costruita).

Non bastano più i modelli di ingegneria istituzionale, occorre uno stile a rete che è diverso dall’approccio burocratico-amministrativo: nella rete contano soprattutto la pertinenza delle risposte, lo stile di lavoro, la capacità di ascolto, le persone e la loro professionalità.

Dai grandi sistemi burocratici ad una rete di istituzioni pubbliche autorevoli: questo potrebbe essere il risultato auspicabile di un federalismo “sostenibile” ed utile per i cittadini (anche nel campo della scuola).



[1] G. Cerini, La svolta federalista, in “Notizie della Scuola”, inserto al n. 23 del 16-31 luglio 2002, Tecnodid, Napoli, utilizza la metafora del “paese dalle tre costituzioni” per rappresentare una situazione di transizione ai diversi assetti costituzionali, dalla prima Costituzione del 1948 a quella riformata con la legge 3/2001 (Titolo V) fino alla proposta di “devoluzione” (dicembre 2002).

[2] Un esame delle politiche di riforma degli ultimi anni è compiuta con la consueta pacatezza e con dovizia di documentazione da M. Reguzzoni, Riforma della scuola in Italia, Angeli, Milano, 2000. Una ricostruzione più irruenta degli ultimi tormenti riformistici (ma anche la difesa delle motivazioni che ne stavano alla base) è invece dovuta alla penna di uno dei protagonisti L. Berlinguer, La scuola nuova, Laterza, Bari, 2001. Opportuno, a questo punto, almeno per cogliere coerenze ed incoerenze tra “pensato” ed “agito” rileggersi le ipotesi “a priori” formulate nel lontano 1995 dallo “studioso” T. De Mauro, Idee per il governo. La scuola, Laterza, Bari, 1995.

[3] D. Ragazzini, Enti locali, regionalizzazione e politiche educative in D. Ragazzini-P. Causarano-M.G. Boeri, Rimuovere gli ostacoli. Politiche educative e culturali degli Enti locali dopo la regionalizzazione, Giunti, Firenze, 1999.

[4] L’intervento di S. Auriemma, Le regole di attività nel sistema istruzione è riportato integralmente nell’inserto a “Notizie della Scuola”, n. 7, 1-15 dicembre 2002, Tecnodid, Napoli.

[5] A. Pajno, Federalismo scolastico, in “Il Mulino”, n. 3, maggio-giugno, 2002.

[6] Nella rigorosa difesa dei principi della legalità costituzionale si distinguono giovani studiosi che vengono riscoprendo le virtù della Repubblica alla luce della cultura democratica italiana e anglosassone. Tra gli altri M. Viroli di cui si apprezzano gli editoriali su “La Stampa” (cfr. M. Viroli, Passione di patria, in “La Stampa”, 2 gennaio 2003). Vedi anche: N. Bobbio-M. Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, Bari, 2001.

[7] M. Crozier, Stato moderno, stato modesto, EL, Roma, 1988.

[8] MIUR, Una scuola per crescere. Ragioni e sfide del cambiamento, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2002.

[9] L. Vandelli, Devolution e altre storie, Il Mulino, Bologna, 2002.

[10] T. De Mauro, Scuola secondo Costituzione, in “Insegnare”, n. 9, settembre 2000, B. Mondadori, Milano.

[11] L. Ribolzi, “Professionalità”, in “Voci della scuola duemiladue”, Tecnodid, Napoli, 2002.

[12] L’articolo 1 della legge n. 59 del 15 marzo 1997, al comma 3, lettera q) così indica le funzioni ed i compiti sicuramente attribuiti allo Stato: “istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici, organizzazione generale dell’istruzione scolastica e stato giuridico del personale”.

[13] G. Cerini-D. Cristanini (a cura di), A scuola di autonomia. Dal Pei al Pof, Tecnodid, Napoli, 2000.

[14] F.Butera (a cura di), Il libro verde della Pubblica Istruzione, Angeli, Milano, 1999.

[15] G. Franchi-L. Barberio Corsetti, Governare la scuola. Guida al nuovo modello di gestione, La Nuova Italia, Firenze, 2000.

[16] G.De Rita-A. Bonomi, Manifesto per lo sviluppo locale. Dall’azione di comunità ai Patti territoriali, Bollati-Boringhieri, Torino, 1998.

[17] MPI-CFI-G.Cerini (a cura di), I servizi territoriali per i docenti, Tecnodid, Napoli, 2001.


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