A PROPOSITO DI MAXI-CONCORSO: I PRO E I CONTRO

di Giancarlo CERINI

 

I dubbi e i disagi

La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’11 gennaio 2000 dei decreti relativi al concorso per l’attribuzione del beneficio economico di 6 milioni ha scatenato un acceso dibattito tra i docenti.

Ci si confronta e ci si divide sulle questioni di principio:

- "è giusto o meno sottoporre una categoria di lavoratori ad una prova di accertamento delle competenze professionali? Per lo più in un campo, quello della trasmissione delle conoscenze, dove i margini di discrezionalità sono tali da rendere difficoltosa una preventiva delimitazione di comportamenti "virtuosi")?

- Posto poi che si risolvano i problemi tecnici legati ad una procedura così complessa (cosa valutare, come farlo, in quanto tempo, ecc.), quali saranno gli effetti di questo concorso nel corpo vivo della scuola?

- Migliorerà effettivamente il livello di preparazione della generalità dei docenti: il concorso, cioè, sarà una spinta verso la crescita professionale oppure (come paventato da alcuni) determinerà la creazione di una casta chiusa (il 20 % dei docenti "vincenti") che presidierà ad ogni costo –negli anni futuri- la posizione conquistata?

- E che ne sarà dei docenti che non rientrano in questo gruppo? Quali i contraccolpi nel rapporto con gli allievi e le famiglie?

Come si vede, un coacervo di dubbi si affolla sulla scena. E’ il medesimo che ha sconsigliato in questi anni di attuare le numerose proposte che pure erano state presentate per dare corso ad una valorizzazione delle professionalità docenti che non si limitasse a registrare il semplice "passare del tempo".

Ora si è manifestata una precisa volontà politica (nel Governo) di modificare questo stato di fatto, accompagnata da un sufficiente consenso delle parti sociali. I sindacati hanno infatti contribuito, negli accordi del 26 maggio 1999 (Contratto Nazionale) e del 31 agosto 1999 (Contratto Integrativo), a dar via libera alla procedura concorsuale, negoziando pure le caratteristiche tecniche delle prove d’esame. Ha cioè prevalso la "voglia" di misurarsi concretamente con questo tema, assumendo un atteggiamento di cauto sperimentalismo. E’ prevista, infatti, una verifica al termine del primo anno di sperimentazione (entro il 31 dicembre 2001), anche perché dal 2002 occorre definire come si mantiene il beneficio economico acquisito (che scade al momento del passaggio da un gradone all’altro) o come si può accedere per la prima volta (ad esempio, da parte di chi non è entrato al primo concorso o da chi –nel frattempo- ha maturato la fatidica soglia dei 10 anni minimi di servizio.

 

Le questioni di principio

Il problema del limitato numero dei "vincitori" già evidenzia uno dei limiti dell’intera operazione. L’aver precostituito una soglia del 20 % di beneficiari crea una sorta di competizione interna, una distinzione tra vincitori e vinti che potrebbe risultare opposta a quella logica di cooperazione, appartenenza, responsabilità condivisa, lavoro in rete, che si tenta invece di sviluppare con l’autonomia scolastica.

Occorre impostare in termini concettualmente diversi la questione: la "gara" non è degli uni contro gli altri, ma piuttosto con se stessi, con la propria professione, con il modo in cui "vivere" e "costruirsi" un curriculum: quali corsi frequentare, su quali esperienze impegnarsi, ma anche come -dignitosamente e senza troppi lustrini- compiere un buon lavoro quotidiano in classe. La fascia alta, cioè, non dovrebbe essere appannaggio di pochi, ma potenzialmente di tutti (magari rendendo più rigoroso l’accesso iniziale), fermo restando l’impegno a sottoporsi ad una verifica "pubblica" le cui caratteristiche dovrebbero però essere ampiamente riviste.

In particolare, occorrerebbe ancorare la valutazione ad una soglia qualitativa ("master"), superata la quale si potrebbe accedere di diritto al beneficio economico (una sorta di scorrimento a ruoli aperti). Una simile procedura, che dovrebbe essere conosciuta con largo anticipo dagli interessati, potrebbe incentivare quei comportamenti "virtuosi" volti al futuro che non sembrano sufficientemente garantiti dall’attuale meccanismo, che assomiglia piuttosto ad un premio alla carriera (passata).

Una scelta di questo genere sarebbe inoltre più coerente con la finalità di elevare il livello complessivo della professione e quindi far emergere impegni e meriti degli insegnanti, spesso misconosciuti, perché confinati tra le pareti della classe.

E’ comprensibile, di fronte all’emergere delle incomprensioni della "base", sottolineare –come ha fatto il Ministro Luigi Berlinguer, che il concorso non prevede bocciature, né esclusioni (in effetti, non c’è un punteggio minimo per passare da una prova all’altra) e che quindi la sola partecipazione alle procedure valutative costituisce di per sé un "credito" da spendere nella propria carriera professionale. In tal modo –è il ragionamento implicito- il corpo professionale degli insegnanti italiani dimostrerebbe al Paese la sua piena affidabilità didattica e culturale, controbattendo nei fatti la ricorrente accusa di autoreferenzialità. Questo prerequisito –si fa trapelare dalle organizzazioni sindacali- potrebbe consentire di "forzare" la mano all’opinione pubblica ed ai decisori politici facendo transitare, poi, l’intera categoria (o buona parte di essa) ad uno status professionale ed economico più elevato.

L’alternativa? Oggi, forse, le solite 100.000 lire mensili di aumento, distribuite a pioggia, a prescindere da meriti e demeriti…

Riepilogando, si avrebbe una stratificazione professionale articolata in docenti junior (cioè nella fase iniziale di sviluppo professionale, con meno di dieci anni di servizio), in docenti qualificati (cioè insegnanti senior che hanno partecipato a verifiche di professionalità: tendenzialmente tutti) e in docenti master (quelli che ottengono anche un beneficio economico, comunque legato a contingenze economiche: risorse finanziarie disponibili, percentuali di ammessi, ecc. : tutti elementi negoziabili e transeunti).

Qualcuno farà pur sempre osservare che tutto ciò non appare giusto ed equo; che la stratificazione non è una scelta convincente. Faccia però, analoghe riflessioni sulla funzione docente universitaria (un modello a cui si guarda spesso volentieri) che è articolata sostanzialmente su 3 profili, quelli di ricercatore, di associato, di ordinario.

Aggiungiamo un ulteriore corollario: non è da escludere la trasformazione di rapporti di lavoro stabili in contratti temporanei, affidati anche ad "esterni", se competenti, soprattutto per spezzoni brevi di insegnamento, limitatamente a campi disciplinari ad alta specializzazione.

 

Questioni di metodo

Posto che il nostro ipotetico lettore ci abbia sin qui seguito, forse non del tutto convinto delle nostre argomentazioni, si aspetterà ora risposte ancora più convincenti sulle questioni più strettamente tecniche, di merito, sulla configurazione delle prove, sulla loro idoneità a valutare gli aspetti qualitativi della professionalità docente.

Occorre una premessa di metodo: è mancato il tempo, alla scuola ed agli insegnanti, di capire, condividere e metabolizzare il principio –assai radicale- di una valutazione del merito professionale. E’ vero che l’art. 29 del Contratto Nazionale di Lavoro siglato il 26-5-1999 lo prevede e che lo stesso contratto è stato sottoposto ad una qualche forma di convalida della base (certo, anche con punti di dissenso e glissando non poco sull’articolo contestato). Ma altre volte si erano approvati -alla larga- principi innovativi nei contratti (anticipo del "gradone", tempo potenziato dei docenti, ecc.), senza però giungere ad azioni concrete ed applicative.

Il vero punto di svolta è stato il blitz balneare del Contratto Integrativo, firmato il 31-8-1999 dopo una trattativa estiva che ha visto, gioco forza, gli insegnanti assenti e poco informati sugli sviluppi operativi e sul senso di questi sviluppi. Anche la stessa elaborazione della piattaforma "integrativa", come di solito avviene, non è andata al di là della ristretta cerchia degli addetti ai lavori. C’è poi forse da dubitare circa la titolarità di sindacalisti e funzionari amministrativi a "prendere le misure" della professione docente. Vien da chiedersi: prima di decidere le procedure del maxi-concorso, sono state ascoltate le associazioni professionali e disciplinari? ed i tecnici? il mondo della ricerca? e gli esperti degli altri paesi europei?).

La fretta estiva ha certamente consentito di arrivare ad un risultato (definire la procedura concorsuale in tutti i suoi dettagli), ma a scapito di un più ampio coinvolgimento dei diretti interessati. Era difficile fare diversamente, essendo le alternative quasi del tutto impraticabili.

Questo passaggio frettoloso ha determinato una insufficiente ponderazione dell’articolazione interna della procedura e della scelta degli strumenti concorsuali. Ad esempio, la prova strutturata di conoscenza è "emersa" proprio durante l’estate, mentre le proposte precedenti avevano oscillato tra le classiche prove scritte (tema, saggio breve, ecc.: subito accantonate) e la documentazione "narrativa" di itinerari didattici, materiali, progetti (ipotesi affascinante, ma scartata per la difficile praticabilità: tempi lunghi, criteri valutativi più aleatori, ecc.).

 

Le tre fasi della procedura concorsuale

La "realpolitik" ha dunque vinto: la prova strutturata (sotto forma di quesito a risposta multipla, ove la chiave di risposta è già precostituita) mette tutti di fronte allo stesso compito, nelle stesse condizioni, con tempi fortemente ridotti e dunque praticabili. Sul versante opposto vanno però messi in conto taluni punti deboli (o almeno, controversi):

- le prove strutturate favoriscono un pensiero convergente (coincidente con quello degli estensori delle prove);

accertano sostanzialmente conoscenze (più o meno mosse e flessibili), ma non tanto le competenze, cioè l’uso di conoscenze in situazione (anche se i costruttori delle prove promettono il contrario…);

rischiano di accentuare la dimensione erudita del profilo del docente, seppure l’articolazione interna dei contenuti, prevista nel decreto ministeriale, sembri ben equilibrata e lontana dagli eccessi monodisciplinaristici (anche in questo caso occorre verificare).

Più consistente potrebbe rivelarsi l’obiezione sul "senso" vero di questo grande "quizzone nazionale" (sia detto in tono ironico e non denigratorio); utile per raccogliere dati sul livello culturale complessivo dei docenti (ed impostare serie azioni di formazione, di ricerca, di qualificazione, vista la disastrosa situazione della formazione iniziale), ma foriero di ingenerosi atti di accusa verso la categoria.

Avremo dunque preferito prove più aperte, un portfolio più documentato di esperienze e saperi, una rassegna più esplicativa delle proprie competenze. Ma siamo disposti a fare altrettanto con i nostri allievi, mettendo in soffitta voti, test, prove, compiti, ecc. Oppure, accettiamo -in quel caso- la strumentazione docimologica perché ne traiamo comunque qualche utile informazione?

Si esiga, comunque, che la struttura, i contenuti, l’equilibrio delle parti garantisca un effettivo pluralismo di opzioni scientifiche, culturali e metodologiche. E si lavori a potenziare, anche a livello di immagine e di "peso" concorsuale le altre due fasi della prova, cioè il curriculum e la verifica in situazione (che, ormai sappiamo, può essere sostituita da una lezione simulata).

L’articolazione della prova in tre fasi è comunque un punto condivisibile, per la possibilità di cogliere aspetti ampi della professionalità. Fa trapelare un’idea complessa di docente, un profilo assai articolato, dove però prevale la capacità di gestire buone situazioni di insegnamento/apprendimento (ecco perché la verifica in situazione occupa ben il 50 % dello spazio concorsuale).

 

Il curriculum: non solo titoli

Riprendiamo in considerazione la questione del curriculum professionale. E’ la prima volta che compare ufficialmente questo tipo di documento nella legislazione scolastica (il suo modello è stampato nella Gazzetta Ufficiale), ed è una grande opportunità per gli insegnanti. Dovrebbe diventare permanente, accompagnare la storia di ogni docente come un portfolio aperto, in grado di testimoniare le competenze via via acquisite.

La sua valutabilità non è equiparabile ad un concorso per titoli, ove il punteggio si accumula in virtù della quantità dei "pezzi" e dei titoli esibiti. Anche il curriculum (che, non dimentichiamolo, andrà discusso con la commissione) è una prova "nella prova": dalla sua articolazione emerge -comunque- un profilo di docente che sa ricostruire il proprio percorso di crescita culturale e professionale. Ma per fare questo non bastano le sbrigative griglie esposte nel modello ministeriale: quattro righe in bianco e tre crocette non danno ragione della complessità del profilo.

E’ vero che, tecnicamente, la ricostruzione del profilo può svilupparsi attorno alle 5 aree previste dalla griglia ministeriale. Sono aree già contemplate negli ultimi due contratti di lavoro: si tratta delle competenze disciplinari, pedagogiche, didattico-metodologiche, organizzativo-relazionali, di ricerca e innovazione.

Preferiamo utilizzare alcune metafore che ci sembrano meglio cogliere la qualità, non sempre misurabile a punteggio, delle professioni educative.

In fondo, l’insegnante è:

colto (perché padroneggia ad un livello "alto" i saperi disciplinari che si candida ad insegnare);

tecnico (è in grado di utilizzare strategie, strumenti, materiali per gestire l’aula, cioè per rendere efficace l’azione di insegnamento/apprendimento);

pratico (cioè dotato di competenze operative adattabili ai diversi contesti di lavoro);

creativo (perché non si limita a riprodurre una serie di routine o di lezioni, ma è un "istruttore" che combina creativamente comunicazione e apprendimento);

riflessivo (e quindi un professionista che ragiona, che mette da parte le esperienze e torna su di esse, con appropriati strumenti culturali e concettuali).

Queste metafore danno respiro al docente ideale, quello che tutti vorremmo avere come collega o come insegnante dei nostri figli, con "la disponibilità a mettersi in discussione, a cercare di acquisire informazioni sugli allievi per ritagliare i corsi su misura, con la volontà di stabilire anche rapporti personali e di far crescere le occasioni di incontro fra gli studenti, capace di valorizzare i processi di apprendimento al di là del puro e semplice risultato, con il desiderio di ridurre l’ansia e le difficoltà, cercando strade alternative" (Ribolzi, 1998).

 

Da questa riflessione scaturisce anche una certa delusione per la configurazione che viene ad assumere la terza prova del concorso, cioè la verifica in situazione (e quindi l'osservazione in classe delle modalità di insegnamento). Aver consentito la sostituzione di questo momento con una più asettica lezione simulata di fronte alla commissione, risolve molti problemi pratici e può rasserenare i docenti preoccupati per l'aleatorietà della situazione della classe, ove in effetti troppi sono i fattori contingenti che possono condizionare la prestazione dell'insegnante.

Tuttavia, con la lezione simulata, il rischio è che sia premiata una astratta capacità di far lezione (ad esempio, la chiarezza nell'esposizione dei contenuti), con ciò vanificando un'interpretazione più aperta e incisiva delle competenze relazionali del docente.

 

Al termine delle nostre argomentazioni, resta però un grande interrogativo: sarà possibile, alla fine del percorso concorsuale, avvicinare la realtà della scuola ai modelli ideali di professionalità delineati in astratto del modello di concorso? Perché, in fondo, tutto questo si fa per avere una scuola migliore ed un gruppo di professionisti più competenti, soddisfatti e motivati. O no ?



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