NOBLESSE OBLIGE
ovvero (con qualche licenza) la "nobiltà dell'obbligo"

di Giancarlo Cerini

 

Non è facile interpretare la "mossa" con la quale il Ministro Berlinguer (o il Governo nel suo insieme? o qualche sua componente, in particolare?) ha deciso di presentare un disegno di legge, a procedura parlamentare accelerata, per l'ampliamento dell'obbligo scolastico dagli attuali 8 a 10 anni. Una proposta assai scarna (due soli articoli, di cui uno di carattere puramente finanziario) che sembra ridimensionare di molto il più vasto disegno di legge di riordino dei cicli scolastici, presentato alle Camere nel luglio 1997, ma ancora "impantanato" nelle discussioni preliminari di Commissione.

L'intervento ipotizzato si limita infatti ad incrementare di due anni la formazione scolastica, estendendola fino alla seconda classe dell'attuale scuola secondaria superiore, in pratica fino ai 16 anni. Più obbligo subito, ma nelle attuali strutture (visto che la riforma degli ordinamenti si presenta più difficile del previsto).

Obbligo subito: tattica o strategia?

Una prima "lettura" della proposta è di natura tattico-parlamentare. Il Parlamento è distratto, non si impegna a sufficienza nell'approvazione dei disegni di legge in materia scolastica (v. anche il deludente iter della riforma degli organi collegiali o la telenovela sul precariato - alias provvedimento n. 932), non crede forse più nella centralità della formazione come investimento per il nostro paese! E' necessario dargli una sveglia; forzare in qualche modo l'interlocutore ad esprimersi sulla questione, a prendere una decisione. Se poi si creano incongruenze e difficoltà nell'insieme del sistema scolastico (ad esempio, accentuando e non riducendo il tasso di insuccesso scolastico), sarà una ragione in più per rimettere in corsa il riordino complessivo dei cicli. Qualora poi il Parlamento nicchiasse ulteriormente, si potrà ricorrere magari ad un vero e proprio decreto-legge "catenaccio".

In effetti, è già da tempo che il Ministro è scontento del "suo" Parlamento; che segnala ritardi, resistenze, incomprensioni; che lamenta di non poter mantenere gli impegni solenni presi dall'Ulivo con gli elettori in materia di grandi riforme della scuola. Al fondo, insomma, ci sarebbe l'eterno problema del rapporto tra decisione politica (che compete a chi governa) e partecipazione e consenso (che si deve esprimere nelle aule parlamentari e, a seguire, nel paese). Così, in una ideale divisione dei compiti, al Ministro spetta fare le proposte ed al Parlamento di accoglierle o respingerle, ma non di "insabbiarle" o "snaturarle". Ah! Si potesse governare solo con decreti-legge, o magari con semplici regolamenti! In fondo, in molti paesi europei si fa proprio così. Non ci siamo tutti lamentati delle 200.000 leggi e leggine esistenti che ingessano il sistema e burocratizzano ogni evento della vita quotidiana?

Vista in questi termini la "mossa" sembra azzeccata per rilanciare l’iniziativa del Ministro da una posizione di forza. In fondo i risultati sono molteplici: "stanare" il Parlamento con un blitz a filo di regolamento (la procedura accelerata); divincolarsi dalla soggezione sui temi della parità scolastica; concedere "qualcosa" alla coalizione dell’Ulivo (i Popolari appaiono a disagio di fronte ai cicli berlingueriani); mantenere intatto il disegno di riordino ipotizzato inizialmente, rimandandolo però al successivo "balzo in avanti" verso un obbligo generalizzato a 18 anni. Vedremo, tecnicamente, come e perché.

Un ripiegamento "minimalista" (…politically correct)

Il mini-disegno di legge sull’obbligo a 16 anni può essere interpretato anche come ripiegamento su una proposta "minimalista", di minor pregio ma più realistica del precedente grande affresco sui cicli. E’ una azione che vede la politica (anche quella scolastica) come "arte del possibile", ma che raccoglie anche la disillusione e l’amarezza di chi ritiene di non essere stato capito, e di aver "cozzato" (come volevasi dimostrare?) contro una tenace muraglia di interessi costituiti. Ma -ci chiediamo- la strategia scelta in questi due anni dal Ministro per sviluppare una nuova politica scolastica è esente da ogni pecca? Non è stato sottovalutato il possibile apporto e coinvolgimento della scuola e dei suoi operatori (un milone di addetti) nel processo di riforma? Non ha prevalso, per caso, la percezione di una categoria professionale troppo autoreferenziale e giudicata incapace di porsi dal punto di vista dell'interesse generale? E non si forse è costruito un progetto avvalendosi e ricercando contributi e consensi "esterni" (la Confindustria, le parti sociali, i 44 saggi, gli organismi europei, i tecnocrati del Ministero) rispetto ai quali il mondo della scuola si è sentito piuttosto destinatario passivo, che non appassionato protagonista. Questo, per lo meno, è lo stato d'animo che si respira tra gli insegnanti.

Si poteva fare diversamente? Noi pensiamo di sì. La scuola poteva essere portata a riflettere sul suo futuro, anche sui suoi attuali punti di debolezza, attraverso un dialogo più intenso e attento. Sembra invece che sia stato scelto come interlocutore più credibile dell'azione del Ministero il mondo degli enti locali, a cui si è concesso forse troppo, in questa fase di attuazione dell'autonomia. Non possiamo ignorare le preoccupazioni del cittadino Luigi Berlinguer di fronte alla piega assunta dal dibattito sul federalismo scolastico nella nuova Costituzione.

L’interpretazione minimalista sembra cogliere un disagio diffuso nella scuola, circa i frequenti annunci di grandi riforme e la troppa carne al fuoco: cicli, autonomia, saperi fondamentali, valutazione, maturità, nuove tecnologie, parità, ecc. Un’overdose di input, in grado di annichilire anche la platea più disponibile.

Con la proposta sull’obbligo si riconosce questa "stanchezza" e si sceglie di conseguenza il percorso più praticabile. Ad ordinamento vigente (e quindi senza timori di rivolgimenti radicali) si tenta di implementare la riforma cercando di agire sulle variabili di contesto:

Detto in altre parole: meglio prendersi oggi (con l’autonomia "possibile") ciò che domani (con il riordino dei cicli) potrebbe sfuggire di mano.

Una presa d’atto che i cambiamenti nella scuola dipendono molto dalle quotidiane condizioni del fare scuola (e quindi anche da una buona autonomia), piuttosto che dai grandi disegni strutturali. La rivincita, insomma, dell’autoriforma gentile (con la g minuscola, dal basso) sulla grande riforma Gentile (con la G maiuscola, epocale).

Terza ipotesi: "…provando e riprovando…"

C’è infine una terza ipotesi, più pessimistica, che accentua i segnali di crisi della politica scolastica dell’Ulivo, sia per le dinamiche interne alla coalizione tra "laici" e "cattolici" (con la potenziale rotta di collisione sul tema del finanziamento delle scuole private), sia per il precario consenso sull’impianto complessivo del riordino dei cicli.

Anche in questo caso vien da ripensare, retrospettivamente, alle mosse che, nel gennaio 1997, senza un preventivo dibattito (con gli insegnanti, le scuole, l’opinione pubblica) e senza un contraddittorio qualificato (con i testimoni privilegiati, i tecnici, gli amministratori) portarono a quel progetto di riordino dei cicli.

La scelta precoce e non sufficientemente argomentata di un modello istituzionale già dettagliato (il cosiddetto 6+6, che metteva in forse l'esistenza di un intero segmento scolastico –la media- creando "disagi" in quelli contigui - l'elementare e la superiore), non si è rivelata una scelta tattica azzeccata. In fondo, chi entra "papa" in conclave ne esce solo "cardinale". Sarebbe risultato più saggio limitarsi a definire uno scenario culturale ed obiettivi istituzionali forti, invece di predeterminare soluzioni operative di difficile attuazione (comportando la ridislocazione di alcune centinaia migliaia di docenti e l’esubero di 50.000 di essi). Perché non spingere più a fondo sui temi del rinnovamento culturale (nuovi saperi e nuovi curricoli; formazione dei docenti; valorizzazione delle esperienze migliori; sostegno a progetti innovativi) piuttosto che fare perno su un solo modello strutturale (per altro, interpretato diversamente a seconda degli interpreti)?

Ricordiamo il paradosso: le critiche ai cicli sono piovute sia da "destra" (il progetto indebolisce il profilo culturale della scuola, la rende un ambiente solo socializzante, fa scomparire il liceo, ci avvia verso una grigia mediocrità), sia da "sinistra" (il progetto mette la scuola alla mercé del mercato, finalizza la formazione ad un addestramento in vista della flessibilità sul lavoro, anzi canalizza precocemente i ragazzi verso destini sociali differenziati, non scalfisce l’impianto delle attuali superiori, si accanisce verso la scuola primaria, comprimendola.

Critiche spesso ingenerose, di vario segno, ma assai diffuse nell’ambiente scolastico e di cui si è avuta un’eco anche in Parlamento, ove la discussione sui diversi disegni di legge sui cicli ristagna tuttora nell’incertezza delle scelte di fondo, pur nel desiderio –che sembra accomunare maggioranza ed opposizione- di realizzare un’effettiva riforma della scuola.

La scelta del solo innalzamento dell’obbligo, senza il corredo del riordino dei cicli, interpreta questo momento di impasse e dunque propone lo stralcio operativo di quanto è per ora condiviso e sembra riaprire invece i giochi sui cicli. Si guadagnano così, senza perderli per la scuola, altri 2-3 anni di tempo per ri-discutere a fondo l’impianto strutturale dei cicli, con la speranza di ri-trovare nuovi punti di accordo.

La partita continua: a carte "scoperte"

Il Ministro, se ci crede, non rinunci alla sua ipotesi di riordino complessivo dei cicli:

  1. due soli cicli, di sei anni ciascuno, anziché i tre attuali;
  2. anticipo dell’obbligo a cinque anni, ma all’interno della scuola materna;
  3. termine dell’obbligo al 15° anno di età;
  4. triennio superiore fortemente differenziato, con uscita a 18 anni (anziché 19), preceduto da un
  5. triennio di orientamento, in parte "canalizzato", in parte "orientativo".

ma magari dedichi più tempo ad argomentare sui punti deboli o controversi, vanamente segnalati dal dibattito di questi mesi:

a) le ragioni e l’identità della scuola media, come patrimonio di strutture, come "mission" democratica, come "periodizzazione" sensibile, come professionalità [con una riflessione più approfondita del semplicistico: "così com’è la scuola media non funziona"];

b) il rischio di un ultimo anno di materna tutto "preparatorio", scorrettamente attratto nell’alveo della alfabetizzazione strumentale [e con la delicata questione del finanziamento alla consistente area della scuola non statale – 40 %];

c) lo scarso "appeal" di un obbligo fermo a soli 15 anni (ancora ultimi in Europa!) e troppo anticipato per rilasciare una qualifica professionale [sarebbe buona norma prosciogliere ragazzi e ragazze dall’obbligo con un titolo in mano –culturale o professionale- piuttosto che registrare i soli anni passati dietro i banchi];

d) l’inesistenza di indicazioni concrete su come costruire il post-secondario [tanto per non illudersi che una scuola secondaria più corta sia anche "terminale"] ed i canali paralleli di formazione non-curricolare tra i 15 ed i 18 anni [il vero "buco nero" che l’Europa ci addebita];

e) la difficoltà a rendere effettivo il principio di una fase orientativa della parte iniziale della scuola superiore, stante il modello a canne d’organo sedimentato fino nella dislocazione fisica di edifici secondari tradizionalmente mono-indirizzo [su cui anche l’OCSE recentemente ci rimprovera].

E’ più che credibile che il Ministro abbia in animo di mantenere fede al suo disegno originario. Non sarà facile però, dopo aver lanciato il messaggio dell’obbligo a 16 anni (con il connesso spostamento del primo ingresso nel mondo del lavoro a tale età) retrocedere a 15 anni (per applicare l’impianto originario dei cicli). Sarà necessario, piuttosto, alzare la posta e puntare decisamente verso un obbligo formativo attestato a 18 anni (obiettivo di grande impatto sociale e di "fascino" democratico). In questo caso si potrà riconsiderare l’intero percorso, perché l’ultima parte dell’obbligo, tra i 15 ed i 18 anni (oppure, tra i 16 e i 18) potrebbe non essere uguale per tutti, ma a tempo pieno per molti, a tempo parziali per alcuni, in diretta alternanza con il lavoro, per altri.

E si potrà ridiscutere con più serenità su vantaggi e svantaggi delle ipotesi che per ora sembrano solo contrapporsi:

  1. Scuola di base unitaria? oppure no? In caso affermativo, pensando però ad un periodo più disteso degli attuali sei anni [almeno sette od otto, secondo alcuni] ed esplicitando con più chiarezza le caratteristiche unitarie del curricolo e delle professionalità.
  2. Scuola media autonoma? oppure no? In caso affermativo, pensando più seriamente a qualità e durata del curricolo [eccessivamente dispersivo], al consolidamento delle strutture [troppo frantumate], alle competenze dei docenti: tutti elementi che necessitano di un deciso cambiamento di rotta.
  3. "Spendere" un anno di obbligo a 5 anni o a 16 anni? valutando l’impatto sociale delle due alternative e tutte le possibili connessioni in termini pedagogici ed organizzativi.

Infine, per sgombrare il campo da retro-pensieri, si dichiari esplicitamente che le eventuali eccedenze di insegnanti (da "spalmare" comunque sull’intero percorso dai 3 ai 18 anni) serviranno non già per auto-finanziare a costo zero la riforma, ma per promuovere quella qualità diffusa (attraverso formazione dei docenti con periodi sabbatici, didattiche non frontali, compresenze, figure e funzioni di sistema, tutoring, ecc.) necessaria per far funzionare al più alto livello possibile il sistema scolastico.

Un po’ di ottimismo dunque, perché il "nuovo" obbligo ci costringe ad agire concretamente (darà un senso nuovo all’autonomia), senza farci smettere di pensare "in grande".