NOVA SPES E… VECCHI MERLETTI?

di Giancarlo CERINI e Giovanni VASUMINI

 

E’ stato presentato da un gruppo "trasversale" di esperti (operatori scolastici, ma soprattutto docenti universitari, oltre ad alcune associazioni professionali, tutti raccolti sotto la sigla di NOVA SPES) un ambizioso documento di studio sul futuro della scuola italiana, che si propone di "suggerire" alla nuova maggioranza parlamentare un’ipotesi complessiva di riforma della scuola, alternativa (almeno queste sono le intenzioni) a quella portata avanti dal tandem "ulivista" uscente dei ministri Berlinguer-De Mauro.

Vista la rilevanza degli estensori del progetto, la qualità degli sponsor e la notorietà dei partecipanti (o di coloro che "avevano assicurato" la loro presenza) alla convention pubblica di Nova Spes, tenutasi a Roma il 4 luglio 2001, cerchiamo di analizzare più in profondità la natura delle proposte che vengono ora alla luce. Curiosamente, una sintesi è stata pubblicata - a pagamento - sulle colonne del "Sole 24 ore" del 24 giugno 2001 ed in altri quotidiani, in quelle forme (illeggibili) tipiche dei bilanci aziendali, la cui lettura deve essere sorretta da forti motivazioni.

 

La critica alle riforme dell’Ulivo

Va certamente apprezzato il respiro del documento di lavoro, che spazia sull’intero sistema formativo (con qualche vistosa eccezione, come vedremo). Questa visione globale conferma che oggi i problemi dell’educazione non possono essere affrontati con ottiche riduttive, pensando alle proprie nicchie di sicurezza (io, nella "mia" scuola media; tu, nel "tuo" istituto tecnico, ecc.), ma solo allargando lo sguardo all’intero sistema, di istruzione (nella scuola) e di formazione (per la preparazione al lavoro), anzi verso una educazione "lungo tutto l’arco della vita".

In fondo, è ciò che è stato "tentato" nella legislatura 1996-2001 caratterizzata da una quantità incredibile di provvedimenti legislativi ed amministrativi, con la strategia berlingueriana del mosaico, cioè delle tante "tessere" che avrebbero dovuto delineare, alla fine del processo, un nuovo affresco per il sistema formativo italiano.

Ma è proprio su questo disegno complessivo che si appuntano le critiche corrosive del documento di "Nova spes". Quali sono i rilievi che vengono rivolti alle riforme scolastiche dell’Ulivo ?

Proviamo a riassumere quelli essenziali:

mancanza di un progetto culturale chiaro ed esplicito, con inevitabile prevalenza della cosiddetta "chiacchiera" pedagogica (ravvisabile nei vari concetti di competenza, abilità trasversali, percorsi modulari, valutazione formativa, ecc.) a scapito di un rigoroso recupero di saperi disciplinari, di alfabeti, di competenze logico-critico-formali;

spostamento dell’attenzione verso un’idea di autonomia e di innovazione giocata in termini quantitativi (di moltiplicazione di progetti formativi), di ampliamento dell’offerta formativa, di flessibilità gestionale ed organizzativa, piuttosto che di riconfigurazione del curricolo essenziale e di focalizzazione sulle competenze cognitive di base;

superficiale esaltazione del diritto al "successo formativo" degli studenti, con effetti di deresponsabilizzazione e di demotivazione dei migliori e conseguente riduzione della scuola ad una mera agenzia di socializzazione, ove diventa sempre più facile, ma illusorio, destreggiarsi tra debiti e crediti formativi.

Molte di queste critiche (come quella di aver appesantito con una ragnatela di adempimenti burocratici il "libero" dispiegarsi della professione docente), sono certamente fondate, perché occorre convenire che il compito della scuola non è tanto di inseguire tutte le possibili educazioni "civili" richieste ad ogni emergenza sociale (fenomeno che rivela una crisi di responsabilità educativa nelle famiglie e nella società), ma di orientare decisamente il proprio impegno sulla formazione culturale delle nuove generazioni, nel loro incontro – sempre più consapevole – con i segni, i linguaggi, i saperi della cultura di appartenenza, con l’obiettivo di "educare il pensiero a pensare" proprio attraverso l’incontro con i sistemi simbolico-culturali elaborati dalla società nel corso della sua storia.

 

Per una difesa (non d’ufficio) delle riforme

Gli stessi principi (strano, ma vero!) stanno alla base del progetto di riforma della scuola di cui si è discusso in questi anni, a partire dalla elaborazione dei primi documenti sui "saperi essenziali" per la scuola del futuro e sui "contenuti fondamentali" da proporre alle giovani generazioni, ad opera delle Commissioni dei Saggi (1997 e 1998), di cui tutto si potrà dire fuorché di essere dominate da schiere di pedagogisti o di autoreferenziali addetti ai lavori. Semmai il problema è la coerenza tra i grandi disegni culturali e le proposte curricolari, le scelte sui percorsi didattici e le metodologie, la costruzione di concreti ambienti di apprendimento (tutte decisioni oggi spostate verso l’autonoma iniziativa delle scuole e dei docenti). E’ altresì evidente che autonomia delle scuole non significa abbandono di un sicuro ancoraggio nazionale al ruolo della scuola e della formazione (questi sono semmai i rischi di una "devolution" spinta alle estreme conseguenze, che si aggira piuttosto dalle parti dei liberisti di "nova spes"). Ed è proprio nell’assicurare alle scuole autonome un adeguato sostegno "pubblico" che si sono manifestati i limiti più evidenti della recente politica scolastica, sintetizzabili in:

scarsa affidabilità della macchina amministrativa in perenne affanno di fronte alla gestione del quotidiano;

deboli segnali sul fronte del riconoscimento della professionalità docente e delle necessarie strutture tecniche di supporto;

insufficiente investimento di risorse nell’ammodernamento delle strutture edilizie, degli ambienti, delle tecnologie, dei servizi, ecc.

Anche l’elaborazione degli indirizzi curricolari nazionali (operazione indispensabile per assicurare un quadro certo ai curricoli delle scuole, per non ridurli solo a variopinti POF) ha subito ritardi esiziali, giungendo in porto per la sola scuola di base e a tempi ormai abbondantemente scaduti, tra l’altro inquinati dalla competizione elettorale (maggio 2001). Il documento definitivo, allegato allo schema di Regolamento per la scuola di base, è stato poi "ritirato" dal nuovo Ministro dell’Istruzione (luglio 2001) e quindi non apparirà – per il momento – sulla Gazzetta Ufficiale. Rimane, però, una fonte culturale di primaria importanza, non solo per delineare i futuri curricoli, ma anche per orientare il lavoro di progettazione dei docenti alle prese con l’autonomia "curricolare" delle loro scuole (pensiamo agli istituti verticali).

Non si dica, inoltre, che le proposte di nuovi curricoli per la scuola di base (un corposo dossier di oltre 100 cartelle, articolato per discipline, per obiettivi di apprendimento, e con sobrie indicazioni di contenuti) sia anch’esso il frutto di quei medesimi cattivi consiglieri pedagogici evocati da "Nova spes" o da Mario Pirani, nei sulfurei articoli apparsi su Repubblica. Gruppi e sotto gruppi hanno visto una larga presenza di rappresentanti delle associazioni scientifiche e didattiche degli insegnanti, del mondo della ricerca universitaria e accademica, dei responsabili di istituzioni e movimenti professionali. La matrice dei testi è di forte rigore epistemologico, di riconoscimento del valore del sapere, come progressivo disciplinarsi dell’esperienza conoscitiva e del suo affrancamento dai contesti esperienziali e dai vissuti antropologici: "dai bastoncini ai segmenti", per riprendere la querelle di Lucio Russo, in un processo graduale di formalizzazione delle conoscenze che è l’esito autentico del processo di insegnamento. Ricordino, però, gli accademici di Nova Spes, che insegnare non può ridursi ad una semplice e scontata trasmissione di conoscenze dichiarative, ma implica il coinvolgimento (affettivo, emotivo, esistenziale) degli allievi nel percorso di studio e apprendimento e quindi sollecita scelte congruenti sul piano metodologico e didattico.

Da queste evidenze dovrà ripartire ogni ricerca sulla piattaforma culturale della nuova scuola, intensificando la partecipazione degli insegnanti alla elaborazione di idee, proposte, curricoli. Impresa quanto mai ardua, che ha rappresentato il vero tallone d’Achille della politica scolastica dell’Ulivo: troppi cambiamenti (resi certamente necessari dalle nuove domande della società e del mondo produttivo), ma percepiti dagli operatori scolastici come estranei alla propria cultura e "calati dall’alto".

 

Prove di nuova architettura di sistema

Entrando nel merito del progetto di "Nova spes" si devono rilevare alcune anomalie di cui è bene chiedere subito conto al gruppo promotore. Ci riferiamo ai silenzi sulla scuola dell’infanzia, alla visione pre-riforma sulla scuola di base, ai fraintendimenti possibili sul rapporto istruzione-formazione.

 

La scuola dell’infanzia

Manca completamente, nel telaio del nuovo ordinamento, la scuola dell’infanzia, tra i 3 ed i 6 anni, oggi frequentata dal 95 % dei bambini in età (un vero record europeo). Così, per mantenere l’uscita anticipata dal sistema a 18 anni (uno dei punti della legge 30/2000 che si vorrebbe confermare), non si esita a proporre l’anticipo della attuale scuola elementare a 5 anni oppure, in alternativa, a rendere obbligatorio l’ultimo anno della scuola dell’infanzia, una scelta scopertamente strumentale per compensare la riduzione a soli quattro anni della scuola elementare. Insomma, si individua il punto di minor resistenza (o di minor pregio?) del sistema (materna ed elementare) e si interviene su di esso, per mantenere inalterati gli altri punti (media e superiore) a prescindere da una valutazione sulla loro produttività culturale.

Ritorna una vecchia concezione "preparatoria" della scuola materna, già presente nel Testo Unico del 1928 (la "scuola del grado preparatorio") e si nega il valore autonomo e fondante di tale segmento scolastico. Ridotta ad un biennio per i bambini di 3-4 anni la scuola dell’infanzia sarebbe equiparata a tutti i restanti servizi educativi e sociali a domanda individuale, gestiti prevalentemente da privati ed enti locali. Si andrebbe verso la dismissione dello Stato da un settore che vede la presenza del 55% di scuole statali, del 15% di scuole comunali e del 30% di scuole private/paritarie. Si desidera questo? Lo si dica e lo si scriva con molta chiarezza.

 

Il ciclo di base

E’ nel segmento di base che si segnala una netta presa di distanze dai principi della legge 30/2000. Infatti, viene ripristinata la distinzione tra scuola elementare e scuola media e, pur convenendo sull’opportunità di delineare un ciclo di base (ma non è dato sapere se corredato da un curricolo verticale unitario), si mantengono nettamente separate le culture pedagogiche delle due scuole e le relative professionalità. Anzi, per quanto riguarda la scuola elementare si ritorna ad una situazione precedente la riforma del 1990 (legge 5-6-1990, n. 148), che aveva introdotto il principio della pluralità dei docenti, per rispondere agli obiettivi di alfabetizzazione funzionale e culturale proposti dagli innovativi programmi didattici del 1985. Per le prime due classi elementari viene riproposta la figura del docente unico, una soluzione che non si trova più nemmeno nella scuola dell’infanzia (ove vige il principio della contitolarità di due docenti per ogni sezione). Appare certamente opportuno rivedere certi squilibri nell’attuazione dell’organizzazione modulare del 1990 (che spesso ha determinato una eccessiva presenza di figure specialistiche fin dai primi anni di scuola primaria), in favore di un ambiente di apprendimento più semplice ed equilibrato (ad esempio, con la presenza di due figure di riferimento sull’area logico-linguistica-espressiva e sull’area logico-critico-esplorativa, come si suggeriva nelle nuove proposte curricolari): ma un conto è sviluppare la riforma riflettendo sui punti di criticità, un altro conto è riazzerare completamente le innovazioni degli ultimi 15 anni.

La stessa riflessione va compiuta rispetto alla prospettiva, definita di "selezione orientativa", che sembra improntare la nuova (o vecchia?) scuola media triennale. Infatti, anche in questo caso ignorando le riflessioni e le innovazioni degli ultimi vent’anni, si ipotizza una distinzione dei percorsi degli allievi su tre livelli di rendimento scolastico, evidentemente in funzione propedeutica agli sbocchi estremamente selettivi che si presenteranno a 14 anni, età-limite per l’obbligo scolastico.

Si gioca ancora sul filo dell’ambiguità: i processi di individualizzazione, tutti da costruire nella scuola media di oggi (ma l’idea di "scuola di base" articolata in bienni verticali era una possibile risposta al problema della diversità/uguaglianza delle opportunità) non possono essere confusi con il ripristino di percorsi rigidamente differenziati (una sorta di classi di avviamento professionale precoce al lavoro) tipici della scuola media inferiore prima della riforma del 1962.

Ma che queste proposte siano ormai lontane dalla scuola di oggi lo dimostra il silenzio totale sulla nuova realtà degli istituti comprensivi, cioè le nuove forme di aggregazione in verticale delle scuole materne, elementari e medie di un medesimo territorio che, nate appena sei anni fa, hanno raggiunto il ragguardevole numero di 3.200 istituzioni (pari al 43% dell’intero parco-scuole dell’obbligo del nostro paese). Questo "successo" non può essere spiegato solo con la sollecitazione proveniente dagli enti locali, in sede di processi di dimensionamento, per una migliore organizzazione territoriale della scuola di base, ma va interpretata anche come propensione verso una organizzazione di scuola della comunità (che accompagni in termini unitari la prima formazione di tutti i bambini), che sta alla radice dell’idea di scuola di base emersa dal dibattito parlamentare sulla riforma. Anche questo dato di realtà (con oltre 200.000 insegnanti che già lavorano in verticale, programmano e si confrontano sui curricoli, si aprono ad esperienze didattiche integrate) dovrà essere considerato attentamente da chi si propone di introdurre correttivi all’attuale impianto della riforma.

Riteniamo infatti che l’istituto comprensivo (il grande dimenticato dagli analisti di "Nova spes") potrebbe diventare il possibile punto di mediazione e di incontro sul futuro del ciclo di base, perché in grado di offrire un terreno assai concreto per verificare sul campo i concetti di curricolo verticale, di collaborazione professionale, di organizzazione dell’ambiente di apprendimento, tutti elementi indispensabili per costruire "dal basso" l’identità della scuola di base e sciogliere le possibile divergenze che ancora restano aperte sulla durata del ciclo, di 7 o 8 anni, sulla articolazione organizzativa, unitaria o semplicemente integrata, sull’impiego del personale docente, per valorizzare (e non annullare) le diverse culture professionali dei maestri e dei professori.

 

Tra scuola secondaria e istruzione professionale: i valori in gioco

Una ulteriore anomalia del programma di "Nova spes" riguarda il versante terminale del percorso formativo, quello tra i 13 ed i 18 anni. Qui si ipotizza una decisa biforcazione delle scelte degli studenti: da una parte coloro che proseguiranno gli studi "teorici" (e quindi saranno destinati alle professioni "liberali" e "intellettuali"), dall’altra quelli che sceglieranno un indirizzo "tecnico-operativo" (e quindi saranno destinati ai lavori di tipo esecutivo e manuale). Certamente abbiamo esagerato gli effetti di questo doppio canale, ma non siamo lontani dal vero quando scorgiamo dietro la richiesta di distinguere i due percorsi un ritorno al principio delle due culture, alla separazione tra intelligenze, al rifiuto del concetto di sistema formativo integrato.

Sottovalutare (o peggio contrastare) la costruzione di un sistema formativo integrato motivandolo con il "principio di dualità applicato all’attività umana" (l’esistenza di due momenti distinti, uno teorico e l’altro operativo), non è un buon servizio né per i sistemi formativi né per i sistemi del lavoro e delle professioni. In realtà nulla di nuovo perché tale concezione è stata storicamente l’elemento fondativo del nostro sistema formativo.

"Il nostro continua ad essere un paese in cui i saperi professionali si collocano molto in basso nella gerarchia del prestigio sociale e in cui tra le diverse culture continuano a sussistere robusti steccati. Ci sono barriere tra cultura umanistica e quella tecnico-scientifica, tra saperi teorici e quelli pratici, tra i procedimenti conoscitivi induttivi e quelli deduttivi, tra i diversi tipi di intelligenza, tra il sapere e il saper fare.

Integrare la formazione scolastica con la formazione professionale può voler dire, dunque, molte cose che si collocano a due estremi. Può voler dire: rompere alcuni di questi steccati; riconnettere la teoria alla pratica più di quanto le strutture scolastiche da sole sarebbero in grado di fare; far dialogare insegnanti della scuola e della formazione professionale interrogandosi gli uni e gli altri sui nessi che esistono tra i loro differenti saperi; dare agli studenti la possibilità di sperimentare le conoscenze teoriche apprese e ritornare alla teoria con le domande che l’operatività, con la sua cogenza a risolvere problemi empirici, suscita continuamente. E metterli nella condizione di sviluppare tutte le loro abilità, comprese quelle che mal si esprimono davanti a un libro, una penna un foglio.

Tutto all’opposto, integrare può voler dire: delegare agli insegnanti della formazione professionale il "modesto" compito di addestrare i giovani a usare macchine e attrezzi; separare, più nettamente di quanto già non avvenga, la teoria dalla pratica; aggiungere a curricola già faticosi per numero di materie, ore, libri, da studiare, altre ore, altre attività altre cose da imparare, nella smania di rincorrere tecniche e tecnologie in perpetuo cambiamento".

Non va sottovalutato il rapporto fra modelli di sviluppo socioeconomici e sistemi formativi. In rapida sintesi oggi ci troviamo di fronte a due modelli di sviluppo socioeconomici: il modello neoliberista e quello di economia solidale. Occorre quindi chiederci quali siano le caratteristiche del modello di un’economia liberista e quelle di un’economia solidale negli scenari oggi disegnati dall’economia globale in rete (sinteticamente indicata con il nome di New economy).

Il modello neoliberista, nelle sue forme più aggiornate, considera lo sviluppo dell’economia trainante dello sviluppo della società e lo sviluppo dell’impresa prioritario rispetto allo sviluppo delle persone che vi lavorano. L’istruzione è un investimento importante a patto però che la tecnologia informatica diventi il nucleo dell’esperienza didattica. L’insieme dei saperi umanistici e sociali è considerato inutile rispetto ai saperi tecnico scientifici immediatamente utilizzabili dalle imprese. I principi della competitività delle imprese nel libero mercato vengono proposti come "valori" da seguire nella vita quotidiana.

Nell’economia solidale si considera prioritario lo sviluppo della società sullo sviluppo dell’economia e lo sviluppo (professionale, culturale, sociale) delle persone sullo sviluppo delle imprese. Gli obiettivi da raggiungere sono principalmente la riduzione delle diseguaglianze economiche, sociali e culturali tra nazioni più industrializzate e meno industrializzate all’interno delle nazioni, la valorizzazione delle differenze, la tutela e la valorizzazione dell’ambiente come luogo di vita. Priorità dei sistemi formativi è l’intreccio di saperi umanistici e sociali insieme a saperi tecnico scientifici e adeguamento dei metodi di trasmissione delle conoscenze per portare avanti gli obiettivi del modello di un’economia solidale. In una disputa fra i due modelli diventa fondamentale l’apporto che la scuola può dare ripensando i contenuti delle materie che maggiormente esprimono i saperi umanistici.

Nel documento di "Nova spes" il tema della competenza e della sua certificazione, che ha caratterizzato la riflessione teorica nella Formazione Professionale di questi anni, viene sbrigativamente liquidato all’interno di una "nuova" dicotomia saperi – competenze. Invece, la competenza incorpora e situa i saperi introducendo l’attenzione alle condizioni ed al contesto; non c’è competenza che non sia in atto; la competenza è infatti la capacità di integrare saperi diversi ed eterogenei per finalizzarli ad un risultato.

Sembra così prevalere una visione della cultura, della tecnologia, del lavoro, ferma agli anni cinquanta, incapace di confrontarsi con le novità della società della conoscenza e dell’apprendimento, con gli inediti intrecci tra saperi, tecnologie, linguaggi, forme di conoscenza e nuove professioni. La sfida è difficile, quasi impossibile, ma non vorremmo che gli esperti di "Nova spes" avessero scelto la scorciatoia più semplice: tenere ben distinti i due saperi (quelli disinteressati e quelli pratici) rendendoli diversamente appetibili, per creare un accesso selezionato secondo i meriti, ma predeterminando in tal modo esiti sociali e professionali assai differenziati.

In estrema sintesi pare interessante (e per certi versi coraggiosa), la proposta "della confluenza in un’unica realtà di una parte dell’Istruzione tecnica, di quasi tutta l’Istruzione professionale e della Formazione Professionale regionale. Una realtà nuova, da rifondare e riprogettare per differenziarla dai percorsi scolastici".

Ma il percorso e l’argomentazione utilizzata per giungere a tale approdo pare non all’altezza, frutto di una visione stereotipata non corrispondente all’attuale assetto della formazione professionale. Teorizzare un principio di dualità applicato all’attività umana, quello teorico e quello operativo, significa riperpetuare un principio che per anni ha spaccato e allontanato (quantomeno non favorito), il rapporto con la realtà e con il lavoro nei sistemi formativi e contribuito a costruire l’immaginario sul quale si è strutturata l’identità della scuola e della Formazione professionale.

Il tema dell’integrazione fra i sistemi formativi non riesce ad andare oltre alla dissertazione su cos’è un Sistema (questioni di principio che delimitano il campo ma non lo connotano). Si evidenziano alcune distorsioni, si evoca un problema di regolazione e di governo, ma non si capisce per fare cosa.

 

Una proposta tecnica o un progetto politico?

Non ci si può scandalizzare per il solo fatto della "canalizzazione". Questa dualità dei percorsi si riscontra in tutti i sistemi scolastici del mondo, ma il punto è un altro: a che età (e in quali forme) è opportuno introdurre una differenziazione nelle esperienze formative dei ragazzi, senza che questa determini una irrimediabile e non più colmabile separazione dei destini sociali dei nostri giovani? Già l’analisi dell’OCSE sulla politica scolastica dell’Ulivo aveva "bacchettato" la scelta del ciclo secondario obbligatorio 13-15 anni per la presenza di precoci indirizzi differenziati (quando sarebbe stato opportuno – secondo gli esperti internazionali - prevedere "opzioni" largamente fungibili, come in molte esperienze "comprehensive" europee).

Non vorremmo che l’ipotesi di "nova spes" di separare le storie formative degli allievi a 14 anni (nel nome di una presunta serietà degli studi successivi) facesse compiere un salto all’indietro del nostro sistema scolastico, riportandolo agli albori della Repubblica, alle soglie della Costituzione, quella che garantisce la prosecuzione degli studi dopo i 14 anni solo ai "capaci e meritevoli". In questi cinquant’anni il dibattito culturale e pedagogico è andato avanti, le soluzioni didattiche si sono affinate, le scelte legislative sono state coraggiose (dalla riforma della scuola media del 1962 all’estensione dell’obbligo scolastico nel 1999 ad almeno 10 anni, fino all’obbligo formativo ai 18 anni).

Temiamo che la seducente scorciatoia di "Nova spes", oltre a non rispondere al mutato scenario culturale, tecnologico e produttivo del nostro paese, si stia colorando di una venatura da "Ancien Regime", di ripristino di vecchie gerarchie sociali e culturali, come non se ne vedevano dagli anni cinquanta, prima che si affacciassero sulle soglie delle nostre scuole i "ragazzi di Barbiana".