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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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SCUOLA DELL’INFANZIA: NON SOLO ANTICIPO

di Giancarlo Cerini, Carlo Fiorentini, Simona Sacchini (*)

 

ANTICIPO & DINTORNI

Nel dibattito sulla riforma della scuola in Italia, la questione della scuola dell’infanzia ha sempre assunto un rilievo emblematico: è stato così nell’ormai lontano 1968, quando si decise –tra molti contrasti- l’istituzione della scuola materna statale, interrompendo una lunga tradizione di assenza di intervento pubblico; anche a metà degli anni ’90, dopo la felice stagione degli Orientamenti educativi del 1991, si pensò ad un ulteriore consolidamento "istituzionale" di questo settore, attraverso l’ipotesi di anticipare l’obbligo scolastico a partire dai 5 anni (contenuta nella bozza iniziale di riforma dei cicli, 1997); il dibattito risultò assai acceso, ma la proposta fu accantonata in favore di una più blanda "generalizzazione e qualificazione" del servizio educativo per i bambini dai 3 ai 6 anni.

Più recentemente è riapparso sulla scena il problema dell’anticipo dell’iscrizione alla scuola elementare (a 5 anni o 5 anni e qualche mese) o del parallelo ingresso alla scuola dell’infanzia per i bambini di 2 anni e qualche mese di età.

La questione dell’anticipo, così come oggi si viene delineando, appare di modeste proporzioni: in fondo –si dice- cosa sono pochi mesi di anticipo anagrafico "opzionale" (cioè affidato alle scelte dei genitori) di fronte ad un percorso lungo ed impegnativo, che va –ormai per tutti i ragazzi- dai 3 ai 18-19 anni ? Anzi, che ci accompagnerà sempre di più "lungo tutto l’arco della vita". E se fosse un segnale di maggiore libertà per i genitori ? In fondo, è la stessa legge sull’autonomia (L. 15-3-1997, n. 59) ad invocare esplicitamente i diritti di libertà di scelta delle famiglie. Inoltre, proseguono i favorevoli, l’anticipo viene incontro ad una doppia domanda sociale: sia verso il precoce ingresso nella dimensione dell’istruzione "scolastica" per i bambini di 5 anni (fenomeno diffuso soprattutto nelle regioni del Sud), sia verso una maggiore disponibilità di servizi educativi per la fascia di età di 2 anni che non trova oggi risposta (fenomeno diffuso soprattutto nelle aree urbane del Nord). E’ questa "spinta" sociale che viene spesso "agitata" per accreditare la positiva attenzione della riforma verso le nuove domande della società, di contro alla scarsa sensibilità che il mondo della scuola dimostrerebbe nel far fronte alle esigenze degli utenti del servizio.

Oltre tutto, la possibilità di anticipare l’iscrizione alla scuola materna ed elementare è contenuta nella parte non "delegata" della proposta di legge per la riforma della scuola (disegno di legge n. 1306 del 14-3-2002) ed è quindi passibile di immediata applicazione. Non entra dunque nella polemica sulla legittimità e sui limiti della delega al Governo in una materia così delicata come la riforma complessiva della scuola, alla luce –tra l’altro- delle modifiche alla Costituzione della Repubblica, che implicano un più esplicito coinvolgimento delle Regioni nelle scelte di politica scolastica. Ad esse, infatti, dopo l’approvazione della Legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, spettano competenze legislative "concorrenti" in materia di istruzione. Inoltre, molti esempi europei segnalano l’opportunità che sui grandi processi di riforma sia acquisito un consenso più vasto di quello che si riconosce nella sola maggioranza di governo. E’ vero che il sistema elettorale maggioritario invita ad una certa "nettezza" di comportamenti (c’è chi vince e c’è chi perde), ma le scelte di politica educativa dovrebbero qualificarsi per essere, più di altre, al di sopra delle parti, bipartisan. Questo è vero, a maggior ragione, per la scuola materna ed elementare, due beni comuni assai popolari, per la loro funzione universale, di accoglienza e di formazione alla cittadinanza: oggi, più che mai, rappresentano la nuova frontiera della cittadinanza e della convivenza multiculturale.

 

LE RIFORME SOSTENIBILI

Le scelte per la scuola dell’infanzia, nella legislatura 1996-2001, sono stato oggetto di larghi accordi bipartisan. Attorno ad esse si compirono gesti simbolici significativi:

l’approvazione della legge sulla parità (Legge n. 62 del 10-3-2000), come sfida difficile, impopolare (vista l’antica querelle tra scuola pubblica e privata), per garantire standard di qualità comuni, pubblicamente definiti e verificabili dalla Repubblica, ma anche per riconoscere il ruolo "sociale" della presenza di enti religiosi, comunità, cooperative, nella storia della scuola dell’infanzia (i diplomifici qui non valgono);

la rinuncia all’obbligo scolastico a 5 anni (all’interno della Legge n. 30 del 10-2-2000), anche per non irrigidire in un modello scolastico –adultistico- la plasticità dello sviluppo infantile dai 3 ai 6 anni. Era un no al precocismo, in favore dell’attenzione a tempi più "lenti", da distendere lungo un percorso di formazione dai 3 ai 18 anni.

La scuola dell’infanzia era dunque riconosciuta nel suo pluralismo pedagogico ed istituzionale, ma con l’attenta regia dello Stato, intervenuto tardi nel sistema pre-scolastico (solo nel 1968), ma ben presto con un ruolo trainante, di stimolo culturale e di attivazione di un servizio capillare in tutti i territori, anche quelli più disagiati.

La presenza dello Stato che offre il 55 % del servizio educativo, a fronte dell’area privata (35 %) e dei Comuni (15 %), è la testimonianza di un ruolo non certamente "intrusivo", ma di forte impulso alla generalizzazione ed alla qualificazione delle scuole. Oggi c’è ancora bisogno di espandere l’offerta formativa (perché il calo demografico si è arrestato e siamo in presenza di fenomeni immigratori intensi) e di migliorare la qualità (che è ancora troppo diversamente distribuita nel nostro Paese).

Queste, in particolare, erano le esigenze segnalate dai docenti, anzi, dalle insegnanti della scuola dell’infanzia italiana (al 99 % di sesso femminile, un segno distintivo del gioiello di famiglia della scuola italiana) in numerose iniziative di dibattito, consultazione, dialogo con le istituzioni. E’ stato così all’inizio degli anni ’90, quando l’elaborazione degli Orientamenti educativi –sotto l’attenta regia di Cesare Scurati- si avvalse della "sponda" corale di migliaia di docenti che parteciparono alla consultazione sulle prime bozze dei programmi, con ricchezza di indicazioni e di proposte, ma soprattutto in un successivo impegno condiviso di sviluppo e di crescita della professionalità docente. Così è stato a metà degli anni ’90 per il grande dibattito sulla "cultura della valutazione" nella scuola dell’infanzia (formativa, legata al contesto, regolativa, ecc.) con indicazioni utili anche per i "cugini" degli altri livelli scolastici, alla ricerca di una valida alternativa alle valutazioni "punitive". Così, infine, è avvenuto negli ultimi anni, con il grande dibattito sulle linee di sviluppo della scuola dell’infanzia, che ha prodotto non solo pregevoli Report di sintesi sullo stato di salute della scuola dai 3 ai 6 anni, ma ha accompagnata processi reali di ricerca e di formazione in centinaia di scuole (ci riferiamo, ovviamente ai progetti di sperimentazione "guidata" ASCANIO e ALICE), con un approccio alle innovazioni in grado di coinvolgere maggiormente gli operatori scolastici.

Desta, dunque, non poca meraviglia, il fatto che la sospensione –nel luglio 2001- del processo riformatore connesso all’applicazione della legge 30/2000 abbia riguardato anche la strategia di riforme dal basso, che la scuola materna stava attuando con un nuovo progetto sperimentale, mediante un apposito decreto autorizzativi, che prevedeva l’estensione di indicatori di qualità al funzionamento dell’intero sistema integrato delle scuole dell’infanzia (statali, comunali, paritarie).

 

SAPERE DI SCUOLA

C’è una storia alle radici della scuola dell’infanzia odierna. C’è un sapere fatto di riflessione pedagogica, di ricerca accademica, ma soprattutto di tanti sforzi quotidiani delle insegnanti, di coraggiosi amministratori locali che negli anni ’70 sfondavano i tetti di spesa pur di costruire nuove e buone scuole dell’infanzia. Così come c’è un sapere nella scuola elementare, messo in luce in quindici anni di applicazione della riforma. Sarà luce riflessa –come scrivono ingenerosamente gli estensori del Rapporto Bertagna (2001)- ma fa piacere trovare una conferma verso uno degli aspetti qualificanti della riforma, e cioè la pluralità dei docenti, nelle risposte dei genitori ai quesiti proposti maliziosamente dall’ISTAT per sondare l’idea di un ritorno al "maestro unico". Il 60 % degli interpellati si è detto nettamente contrario a questa inversione di rotta.

Si ha spesso l’impressione che coloro che sono chiamati ad elaborare proposte di riforma siano troppo lontani dalla comprensione dei bisogni espressi da chi quotidianamente vive nelle istituzioni educative che sarebbero da riformare.

La stessa idea di "credito formativo", che in un primo tempo era stata elaborata dal Gruppo di lavoro (Bertagna) per sancire il riconoscimento di un pieno valore formativo del triennio di frequenza della scuola dell’infanzia, è stata clamorosamente "bocciata" dall’opinione pubblica che non si capacitiva del perché un credito maturato all’interno della scuola dai 3 ai 6 anni avrebbe potuto essere fatto valere a 17 anni, per giustificare una uscita precoce dal sistema formativo (proprio per i ragazzi più bisognosi di restarvi).

La stessa proposta di anticipo, che sta alla base dell’attuale progetto (marzo 2002) di riordino del ciclo di base, non era stata minimamente presa in considerazione dai tecnici del Gruppo di lavoro ed è quindi apparsa come una forzatura dovuta a precari equilibri politici piuttosto che a solide convinzioni pedagogiche.

C’è dunque un evidente disagio nel mondo della scuola: il sintomo di uno scarto tra gli indirizzi politici "di vertice" e le domande della scuola "reale". Pareri espressi dal Consiglio Nazionale della Pubblica istruzione, prese di posizione dell’associazionismo degli insegnanti e dei genitori, mondo della ricerca e della pedagogia. Di fronte all’idea di anticipo l’orientamento è stato prevalentemente negativo. Non ha convinto l’insistenza sui tempi, il voler chiudere in fretta il dibattito, il dare per scontata la bontà della scelta (anche se oggi solo il 5 % della popolazione scolastica interessata è coinvolta in programmi di anticipo dell’iscrizione alla scuola elementare), l’assenza di motivazioni probanti.

Anticipare di pochi mesi l’ingresso a scuola: potrebbe essere un escamotage di tipo tecnico-giuridico, una mossa minimalista che non perturba più di tanto le regole attuali. O viceversa, sono in discussione idee diverse di società, di rapporto con le famiglie, di cultura pedagogica ? In fondo, differenziare l’età d’accesso alla scuola dell’infanzia potrebbe essere un segno di rispetto per i diversi ritmi di apprendimento, una scelta di personalizzazione dell’offerta formativa, impegnando la scuola ad adattarsi ai diversi gradi di sviluppo dei bambini. E’ un’ipotesi auspicabile, ma noi paventiamo uno scenario molto diverso: quello dell’incentivazione di scelte individuali da parte delle famiglie (un opzione liberista-familista), di un uso strumentale della scuola per "competere", separare i percorsi, al di là di un progetto educativo condiviso. Fino ad oggi il rapporto dei genitori con le istituzioni educative (almeno nella scuola dell’infanzia ed elementare) era finalizzato a costruire insieme un progetto educativo nello spazio pubblico della scuola (dove, non dimentichiamolo, ci si incontra –volutamente- per caso…). La proposta di personalizzare l’età di accesso alla scuola ricorda troppo da vicino l’idea di un servizio a domanda individuale, di un bene da acquisire quasi a titolo personale.

 

UN PROGETTO PEDAGOGICO

La scuola dell’infanzia desidera essere considerata per l’insieme del suo progetto educativo, senza le scorciatoie di un anticipo che, oltre tutto, appare improvvisato e senza condizioni minime per la sua esplicazione (ci riferiamo ai parametri numerici del rapporto alunni-insegnanti, alla disponibilità di ambienti adeguati, alla indispensabile preparazione dei docenti e delle altre figure educative). Viene il dubbio che l’anticipo a due anni e mezzo del servizio voglia rispondere ad una domanda di mercato, riducendo però i costi necessari per offrire risposte qualificate (come sono quelle dei "nidi" vincolati a rigorosi parametri di qualità, in merito a standard numerici, preparazione del personale, strutture di accoglienza).

E’ indispensabile, proprio a partire dalle vicende dell’anticipo, interrogarsi sul significato dell’esperienza della scuola dell’infanzia, sul modello culturale che si vuole proporre. Parlare di scuola dell’infanzia significa parlare di "identità, autonomia e competenza", tre parole-chiave, tre concetti nei quali sono sintetizzate le finalità e gli obiettivi di tutta la scuola nella sua accezione più ampia e generale.

E’ certamente decisivo ai fini della crescita di ogni bambino l’incontro con gli alfabeti (questo punto sta a cuore agli anticipazionisti), ma è necessario non "bruciarlo" nei pochi mesi di addestramento strumentale tipico della attuale classe prima elementare. L’incontro con i segni della scrittura deve essere più affascinante e coinvolgente (non è solo una questione tecnica), in gioco è il rapporto del bambino con i cento linguaggi della conoscenza (così si esprimeva Loris Malaguzzi, il fondatore delle scuole dell’infanzia di Reggio Emilia). L’incontro con i saperi (con le forme, le immagini, i suoni, i gesti, i simboli) avviene a partire dalle esperienze, dalle azioni, dalla realtà, ma per imparare a rappresentarla, rievocarla, ricostruirla.

Si tratta di un percorso che comincia –in modo intenzionale- a 3 anni e non certamente solo a 5 o 6 anni. La stessa esperienza dell’incontro con la lettura e la scrittura potrebbe opportunamente essere distesa tra scuola dell’infanzia e scuola elementare, per accompagnare i ritmi di sviluppo e di apprendimento dei bambini. Di nuovo, sarebbe l’istituzione che si adatta ai bambini e non viceversa.

Gli istituti comprensivi, che organizzano in una medesima struttura le scuole materne, elementari e medie, possono rappresentare un ambiente educativo ad alta professionalità, capace di far fronte alle nuove sfide della formazione di base, salvaguardando le specifiche identità (e vocazioni) della scuola primaria e secondaria. Si tratta di un oggetto pedagogico assai interessante, come ha ammesso lo stesso Gruppo di lavoro Bertagna, che ne propone la generalizzazione, mentre il disegno di legge (14-3-2002) sembra estraneo alla logica della continuità educativa.

Parlare di scuola dell’infanzia significa infatti parlare di continuità educativa, nei suoi aspetti più significativi. Negli Orientamenti del 1991 c’è un intero paragrafo dedicato alla continuità, vista come:

continuità con le esperienze del bambino;

continuità interistituzionale: raccordo con la famiglia, con il territorio, con gli enti locali, le associazioni , le comunità;

rapporti interattivi con le istituzioni scolastiche contigue e scambi di esperienze;

interazione con gli asili nido e raccordo con la scuola elementare, anche mediante curricoli per gli anni-ponte;

programmazioni coordinate: obiettivi, itinerari, strumenti di osservazione e di valutazione;

formazione comune tra gli insegnanti dei due gradi di scuola.

Ma non è solo un ambiente "cognitivo" quello che dovremo offrire ai bambini di 5-6 anni. La scuola non può inseguire tutti i saperi della contemporaneità, ha diritto alla sua lentezza, ai suoi gesti ricorsivi (parole e azioni, gesti e silenzi, che ritornano più volte nell’arco della giornata, per lasciare un segno). La scuola dovrebbe sempre più diventare –come scrive con saggezza melanconica il Cardinale Martini- un luogo istituzionalmente appartato dai clamori del mondo, in cui procedere ad un severo vaglio critico dei tanti messaggi ormai fuori controllo che piovono sui nostri ragazzi dalla società dell’"estasi della comunicazione".

 

UN AMBIENTE EDUCATIVO

Parlare di scuola dell’infanzia significa parlare di spazi pensati, partecipati, organizzati, vissuti, in cui le pareti piene di cartelloni, pitture, disegni, manifesti, parlano di viaggi, di esplorazioni, di scoperte, di curiosità, di stupore, di sensi, di relazioni sociali, di desiderio di conoscere, di amare e farsi amare.

Sono ambienti in cui si respira un’aria di ben-essere che sfugge a chi non vi ha mai messo piede: in cui si possono provare grandi emozioni, una sensazione di accoglienza, il sentirsi abitanti di una comunità che pure non è la propria; allora ci capita di riflettere sul "senso di appartenenza a un luogo", e quindi sul valore educativo e formativo dell’allestimento e dell’organizzazione del luogo in cui si entra, si vive, si lavora e ci si incontra. Anche perché è sotto gli occhi di tutti il lento svuotarsi delle pareti di una scuola man mano che si procede nell’attraversamento dei suoi ordini e gradi...

Parlare di scuola dell’infanzia significa avere chiaro il senso e il valore della parola "documentare il proprio percorso": nessun docente è più capace e attento a raccogliere, aggiornare e integrare con elementi via via più complessi e articolati i diversi percorsi, le esperienze, i linguaggi appresi e incontrati. I bambini in uscita dalla scuola dell’infanzia portano con sé il loro personale album dei ricordi, o per dirla con terminologia più tecnica, il fascicolo personale che li accompagna nel loro percorso scolastico e che garantisce tangibilmente e in modo incontrovertibile la crescita e la maturazione di ciascuno.

Infine, parlare di scuola dell’infanzia significa sperimentare "la partecipazione e la gestione delle famiglie al processo educativo": partecipazione che non avviene solo attraverso organismi e momenti di incontro, ma che corrisponde a un vero e proprio progetto di corresponsabilità nel servizio e di autentico investimento educativo. In nessun altro grado di scuola i genitori intervengono con simili compiti consultivi e decisionali in merito all’organizzazione e alla programmazione della vita e dell’attività della scuola, si esprimono sul funzionamento didattico e sulla programmazione dell’azione educativa. Non si può certo pensare di adottare lo stesso "stile" nei successivi livelli scolastici, ma il punto è chiedersi perché dopo sia così difficile coinvolgere i genitori sui problemi dell’educazione, su bisogni certamente diversi ma pur sempre bisogni che i preadolescenti e gli adolescenti manifestano e per i quali, troppo spesso, non trovano ascolto e risposta.

 

I VALORI IN GIOCO

E’ importare, allora, parlare di scuola dell’infanzia e far parlare le esperienze migliori. Il Cidi (che è stato assieme ad altri organismi culturali ed associativi il promotore dell’iniziativa da cui è scaturita questa pubblicazione) crede nel confronto e favorisce e valorizza le esperienze portate avanti da insegnanti-ricercatori sperimentatori di una concezione democratica del fare scuola.

La scuola non dipende dalle stagioni politiche, ma può essere favorita o ostacolata dalla politica. Le scelte o le non-scelte politiche possono mortificare tante esperienze reali di innovazione e confinano i docenti in un clima di attesa e di demotivante sospensione. Si rischia di rallentare anche le prime forme di autonomia organizzativa e didattica e di bloccare l’indispensabile azione di ricerca sul curricolo.

Ecco perché la scuola dell’infanzia ci aiuta a parlare di grandi valori, di società, di cultura, di educazione. Al di là delle ingegnerie organizzative, che possono cambiare a seconda dei disegni di legge di volta in volta in discussione, la posta in gioco è assai più profonda. E’ la scuola che vuole darsi un progetto, un "pensiero", un’autonomia culturale, come contributo alla costruzione di senso sul ruolo della formazione e dell’educazione nella società democratica della conoscenza e dell’incontro tra generazioni e culture.


(*) L’intervento riprende l’introduzione di un volume di prossima pubblicazione, curato dai medesimi autori, dal titolo provvisorio "Infanzia: a scuola di qualità", UTET, Torino, 2002.


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