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FEDERALISMO SCOLASTICO: AVANTI ADAGIO, QUASI INDIETRO

di Gian Carlo Sacchi

Ci sono tre fronti che ormai caratterizzano il dibattito sul così detto federalismo scolastico: uno di tipo giuridico sul quale è stato recentemente diffuso un interessante documento di un gruppo di esperti nominato dalle regioni, uno di tipo politico, che non vede in campo solo la Regione Lombardia con un ricorso alla Corte Costituzionale ed una recente legge passata con l’astensione dei due principali partiti dell’opposizione in quel consiglio regionale, ma anche da un pronunciamento di tutta la conferenza delle regioni non proprio in sintonia con le posizioni del governo presenti nella legge finanziaria dello scorso anno, e il terzo è quello sociale, legato alla richiesta di servizi, alle diverse esigenze dei territori, alle reazioni che si colgono nel teatro della scuola in merito all’efficacia del servizio.

Se da un lato c’è chi discute, con grande chiarezza, su cosa siano le norme generali, i principi fondamentali e i livelli essenziali delle prestazioni, sui quali, a norma del recente titolo quinto, si devono riorganizzare i poteri e le competenze sul sistema scolastico e formativo, facendo capire che la cosa più importante è stabilire chi e come si governa, dall’altro da diverse parti si interviene in modo unilaterale su diversi oggetti pensando a pezzi di sistema, e, dall’altro ancora, ci si accorge ad esempio che i dati finali dei promossi e degli eccellenti negli istituti professionali non sono certo esaltanti proprio perché risultano ai margini dei percorsi statali e che, forse, se fossero di competenza regionale avrebbero potuto essere curati meglio per dare quella formazione necessaria ad un rapido ingresso nel mondo del lavoro. Tale ultima eventualità può essere una provocazione rispetto all’unitarietà del quadro nazionale e rischia di penalizzare ulteriormente quelle realtà del nostro Paese che sono già in difficoltà, ma su questo crinale stato e regioni devono mettere in campo politiche di qualità, pena l’ulteriore compromissione delle competenze, sia generali che professionali.

C’è chi sostiene che il federalismo era cominciato ben prima della riforma costituzionale, ma, com’ è noto, il DL n. 112/98 non è mai stato compiutamente applicato e nemmeno il DPR n. 275/99, che riguardava i primi vagiti dell’autonomia scolastica. Il citato titolo quinto ha cercato di consolidare queste prerogative, ma anziché agire sugli oggetti da trasferire, ha indicato i principi da riconsiderare, e quindi non ha messo in modo la macchina operativa, ma quella interpretativa, il che ha impresso una frenata al processo.

Il principio della “legislazione concorrente” tra stato e regioni non viene visto nell’ottica dello sviluppo di azioni comuni, ma della separazione nelle rispettive potestà, in modo da accentuare gli aspetti che dividono piuttosto che quelli che uniscono. Se poi ci mettiamo il tentativo da parte dello stato di realizzare politiche di decentramento del servizio anzichè di passaggio di poteri il dibattito si aggroviglia ancora di più tra chi raccoglie effettivamente le domande sociali in questo settore e chi ha le risorse per rispondervi, a fronte della elevazione a dignità costituzionale dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, di cui nessuno sembra realmente preoccuparsi o quando non addirittura questa non diventi un’occasione di contesa.

Tutti condividono la necessità di coniugare il mantenimento del carattere unitario nazionale di alcune fondamentali funzioni con il dover tenere conto delle esigenze e delle prospettive dei diversi contesti, dei bisogni e delle attitudini individuali, ma sul come le parti sono ancora distanti.

Si incrociano cioè l’individuazione di grandi quadri di riferimento con la definizione di alcuni termini, tipo “istruzione e formazione professionale”, tra qualifiche e diplomi, che non saranno mai chiariti abbastanza se non da una condivisione politica sulla possibilità che tutta la gestione del sistema venga passato alle regioni, compreso l’utilizzo del personale di cui parla la Corte Costituzionale con la Sentenza 13/04.

 

Ripartire dal curricolo

Dagli atti del governo nazionale si coglie la volontà di continuare ad intervenire sui singoli aspetti che riguardano il sistema scolastico, quelli ritenuti di rilevanza nazionale, sui quali però non si è fatta ancora chiarezza rispetto ai poteri già trasferiti o da trasferire alle regioni; si sollecita l’autonomia scolastica ma in un’ottica, come si è detto, di decentramento e per così dire extracurricolare, mentre, d’altro canto, le regioni stesse lamentano la frammentazione della produzione normativa, pensando ad un organico quadro di riferimento, che non potrà mai essere sui singoli problemi ma sulle competenze istituzionali: oggi la legge statale chiede perlopiù pareri alle regioni, mentre la vera questione sta sui poteri, altrimenti si rischia la sovrapposizione, come ad esempio per gli accreditamenti degli enti di formazione professionale.

La visione statalista continua a considerare l’autonomia scolastica come ai tempi dei decreti delegati, cioè di natura metodologica, relativa cioè al come fare, mentre sul cosa anche il decreto n. 275/99 è incerto e considera il curricolo ancora quello fatto di materie dalle quali promana tutta l’organizzazione scolastica attuale.

Il titolo quinto capovolge la prospettiva: alle scuole la progettazione formativa, quindi la responsabilità del curricolo, e non solo di quello così detto locale/regionale, alle regioni la programmazione e la gestione del servizio, allo stato le norme generali, i principi fondamentali e i livelli essenziali delle prestazioni.

Se si costruisse un curricolo per standard nazionali, nuclei fondanti dei saperi e del patrimonio culturale, competenze (certificazione) e lo si facesse a livello di conferenza stato – regioni, si eviterebbe il continuo rincorrersi dei due soggetti nell’intervenire sul sistema e verrebbe valorizzata veramente l’autonomia professionale, didattica e di ricerca delle scuole. Stato e Regioni concorderanno ancora sulle competenze professionali da assegnare alle scuole stesse, sulle modalità di reclutamento (stato) e di uso del personale (regioni), nell’ambito di organici di istituto, che garantirebbero l’effettivo esercizio della predetta autonomia pedagogico - didattica. Così dicasi per i finanziamenti che non potranno più essere soltanto in base al numero degli utenti e degli operatori, ma devono pensarsi in termini di qualità e di molteplicità dei servizi offerti.

Partire dal basso, dal curricolo, si può capire qualcosa di più anche dei principi enunciati dal nuovo art. 117 della Costituzione, altrimenti le così dette norme generali e i principi fondamentali saranno solo un problema di gerarchia delle fonti normative, ma ci sarà sempre il rischio che un’interpretazione troppo ampia faccia rimanere tutto come prima (statalista) ed una troppo restrittiva rischi di compromettere l’unità del sistema. Non sarà dunque prioritaria un’esegesi giuridica su questi concetti, ma una comune volontà politica di con – correre alla costruzione del sistema nazionale, ed oggi anche europeo, partendo dalle comunità territoriali e mettendo al centro il ruolo della scuola, altrimenti non ci meravigliamo che intanto che Roma discute proliferino le scuole familiari o di altra natura.

Lo stesso dicasi per i livelli essenziali, che restino “prestazionisti”, altrimenti è di nuovo in pericolo l’autonomia scolastica, come peraltro potrebbe accadere da una troppo stretta valutazione degli apprendimenti a livello nazionale.

Qualcosa si muove: le nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo e per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione affrontano il problema delle aree disciplinari, degli assi culturali, delle competenze (che oggi sono definite a livello europeo), anche se si dovrebbe lavorare più sui crediti che sui debiti, ma il negoziato tra stato e regioni su dette questioni di scenario non decolla, e questo rischia di complicare la vita di tutti, in primis delle scuole, che hanno difficoltà a relazionarsi con i poteri territoriali ai diversi livelli e men che meno possono esercitare compiutamente la loro autonomia.

Molto interessante tuttavia che sia dallo stato che dalle regioni non venga riportata la garanzia dei diritti attraverso l’omogeneità dei comportamenti, ma si parli di “eguaglianza sostanziale”: forse sarebbe questo un altro punto importante da declinare.

Sul fronte regionale l’esperienza dei percorsi sperimentali triennali, specialmente di quelli che hanno visto la stretta collaborazione tra il sistema scolastico e quello della formazione professionale, hanno dato un significativo contributo anche al chiarimento dei suddetti termini, soprattutto per quanto riguarda l’elaborazione dei curricoli, la certificazione delle competenze, la relazione tra titoli di studio a livello nazionale e qualifiche regionali.

Dette sperimentazioni potranno essere il terreno fertile per un’interpretazione moderna del termine istruzione e formazione professionale, anche in relazione al necessario rilancio della stessa istruzione tecnica e professionale, evitando che sia di nuovo la corte costituzionale a fare la politica scolastica.

 

La legislazione regionale

E qui nasce lo spazio e il senso della legislazione regionale in materia. Ad essa si deve riconoscere un importante ruolo nel governo del sistema regionale, ma non può agire in senso “devolutivo” (il referendum l’ha bocciata). Si pone il problema della capacità di tutte le regioni di adempiere a tale compito , soprattutto, come ha detto l’Alta Corte, se si vuole gestire il personale, ma qui entra in gioco il principio di sussidiarietà verticale, peraltro indicato dalla stessa riforma costituzionale. Che il Paese al riguardo non sia tutto uguale lo sappiamo da tempo, ma questo non può più giustificare operazioni gattopardesche da parte del potere centrale.

Se continuerà la divisione tra curricolo nazionale e locale ci potremmo trovare di fronte a due leggi regionali, nelle quali si prevede che la quota che la normativa del 2003 aveva riservato alle regioni venga utilizzata per gli aspetti caratterizzanti del sistema educativo lombardo (Lombardia 2007) o sia data alle autonomie scolastiche (Emilia Romagna 2003). E’ questa la discussione da fare, perché le proposte formative servono alla crescita delle persone e sono pervasive nel momento in cui entrano nell’ottica pedagogico – didattica, e non possono quindi soddisfare prerogative di carattere socio – politico se non per quello che è dato di permeare la proposta medesima.

Qui allora, come si è detto, o cambia la logica di intendere lo stesso curricolo nazionale o si accentueranno le differenze ed aumenteranno i conflitti nei passaggi da una regione all’altra. In sede di certificazione cosa si fa, si certifica solo la parte nazionale del curricolo ? Le regioni ad esempio nei predetti percorsi sperimentali hanno già condiviso standard sia per quanto riguarda le competenze di base che quelle tecnico – professionali in modo che il certificato abbia un valore nazionale, ormai di efficacia pari, nella sostanza, al diploma statale.

Il sistema formativo nazionale non può più ottenersi per somma dei pezzi o per attribuzione degli stessi a particolarismi localistici: una scuola che deve  “collocare nel mondo” non può pensare a qualcosa di più per le regioni e ancora per le scuole autonome, ma a qualcosa di diverso nella manovra complessiva per gestire l’offerta formativa del Paese.

Ad un passaggio di competenze dovrebbe essere affiancato quello delle entrate finanziarie, ed anche qui il federalismo fiscale è ancora oggetto di contesa, ma è inevitabile per la qualità e la distribuzione dei servizi.

La recente disputa tra governo centrale e regione Lombardia davanti alla Corte Costituzionale assomiglia molto a quella dell’Emilia Romagna nei confronti del ministro Moratti. Quest’ultima vicenda forza la mano da parte regionale rispetto all’attuale quadro ordinamentale, ma non vi è dubbio che tutto questo dipenda dalla mancata applicazione del predetto titolo quinto, ma anche da competenze statali in forte ritardo, come ad esempio l’albo nazionale delle qualifiche professionali. Ed anche dal punto di vista finanziario non si po’ non notare che le spese sostenute a livello regionale possono essere virtuose rispetto ai parametri nazionali: qui si che lo stato deve verificare !

La legge lombarda taglia corto sul passaggio degli istituti professionali alla regione, ma attribuisce le funzioni sull’istruzione e formazione professionale a tutte le scuole; essi, in verità, che cosa sono nella legge 40/07 rispetto a quelli tecnici ? Il “terzo” canale dell’istruzione ? E se “al fine di sostenere lo sviluppo della cultura tecnica, scientifica e professionale la Regione promuove l’integrazione tra istruzione e formazione professionale, attraverso interventi che ne valorizzino gli specifici apporti ed assicurino il raccordo con il sistema universitario”, allora non ci si stupisce che la legge sia stata approvata con l’astensione dei due principali partiti di opposizione.

 

Il problema del personale

Si sono già fatti alcuni cenni all’intreccio che tutta la nuova questione costituzionale ha con la politica per il personale scolastico. Ma il disagio che ogni anno si rinnova nel momento di assegnazione degli organici manda un segnale negativo sull’efficienza dell’interno sistema.

Si è già detto che requisiti e concorsi restano a livello nazionale, così come il contratto collettivo, ma l’uso e la contrattazione territoriale devono vedere una svolta negli interlocutori e nei margini di manovra, che oggi sono molto scarsi.

La sentenza 13/04 e il masterplan delle regioni aprono una nuova strada che va percorsa: un conto è prevedere le risorse, da negoziare in sede di legge finanziaria (organico di diritto), un altro è la distribuzione del personale (organico di fatto) e un altro ancora è il suo utilizzo per le autonomie scolastiche (organico di istituto).

Questo personale va messo in relazione con i servizi erogati ed i modelli di sviluppo dei territori, nonché alle azioni di coesione sociale, che sono tra le finalità del sistema scolastico stesso (attenzione ai disabili, agli stranieri, al disagio, ecc.).

Non vi è dubbio che un’amministrazione centralistica del personale oltre a risultare insufficiente è inefficiente e pone, ad esempio, gli enti locali in condizione di fare supplenza allo stato, mantenendo però la rigidità organizzativa di un unico modello, o va direttamente a gravare sulle famiglie per quanto riguarda la necessità di contribuire finanziariamente, o indirettamente su chi, soprattutto donne, non cercano nemmeno più il lavoro perché non ci sono i servizi necessari a sostenere l’organizzazione familiare.

Anche qui sono necessarie nuove prospettive non solo per la nomina dei supplenti, ma per favorire l’ampliamento dell’offerta formativa, con ricorso a soggetti esterni, alla riorganizzazione dell’orario di lavoro, all’intra moenia anche per i docenti.


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