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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Direttore responsabile: Dario Cillo


 

GIOVANI E OCCUPAZIONE

di Gian Carlo Sacchi

 

In piena crisi dell’occupazione, soprattutto giovanile, con un tasso di dispersione scolastica in crescita che non viene recuperata in altri segmenti formativi, tanto che alcune indagini rappresentano consistenti quantità di giovani scomparsi sia al controllo della formazione che a quello del lavoro, le indicazioni congiunte dei ministri dell’istruzione e del welfare (piano di azione per l’occupabilità 2010) possono sembrare da un lato un libro dei sogni e, dall’altro, fanno ritornare forme di selezione sociale tra chi ha davanti a se lunghi percorsi di studio, sostenuti da condizioni economiche e culturali familiari favorevoli e chi deve cercarsi il più presto possibile un’occupazione, magari anche con una preparazione ridotta. Questi ultimi costituiscono un vantaggio immediato per tante imprese, le quali pur avendo bisogno di migliori performance preferiscono pagare meno ed evitare premature rivendicazioni salariali e di posizioni.

Un forte progetto di coesione sociale e di orientamento delle politiche pubbliche fa si che si investa nella formazione prima di tutto, come un importante momento di crescita della persona e della comunità e lascia sullo sfondo il tipo di mansione e la percezione del ruolo sociale, posto in una logica di competizione a livello economico e di carriera.

E’ paradossale che un governo spinga da un lato alla frammentazione delle opportunità formative e dall’altro poi si trovi in situazioni di empasse a livello occupazionale, creando frustrazioni e reali difficoltà, sia che si tratti di persone in possesso di elevate qualificazioni, sia di situazioni fragili sul piano degli apprendimenti, che incidono negativamente sulla motivazione, aumentando così ancora di più il rischio di disagio personale e di esclusione sociale.

I ragazzi sono male orientati, infatti vediamo che la disoccupazione giovanile aumenta, ma alcune professionalità continuano ad avere bisogno di addetti. Quindi c’è un problema di corrispondenza tra domanda e offerta, perché è difficile che un liceale a spasso si trovi improvvisamente in grado di fare l’installatore di infissi; è indubbiamente necessaria in una maggiore flessibilità del sistema formativo, ma ci vuole anche un patto sociale che privilegia il valore della formazione non solo in relazione al tipo di occupazione.

E’ noto infatti che sono gli adulti ad avere un atteggiamento ostile nei confronti del lavoro manuale, e che le scelte dei giovani dipendono in gran parte dal titolo di studio della madre. In questo modo l’apprendistato nell’assolvimento dell’obbligo di istruzione non servirà dal versante delle persone, bensì soltanto da quello delle imprese per i vantaggi che tale tipo di contratto consente. E a ciò aggiungasi che la riforma del secondo ciclo recentemente varata allontana i vari segmenti, soprattutto i licei e vede gli altri, tecnici e professionali, sempre in calo di preferenze da parte delle famiglie.

E’ infatti contraddittorio affermare, dopo quanto si è detto, nel citato piano di azione, che sia necessario un “efficiente raccordo e integrazione tra i percorsi di istruzione e formazione rinnovati e il mercato del lavoro”, quando tutta la politica del centro – destra, dalla Moratti ai giorni nostri è tesa a separare tali segmenti causando un’inevitabile gerarchizzazione, oggi non più nemmeno raccordabile con l’occupazione, causa appunto la crisi economica, riducendo così la formazione professionale a un ghetto sociale, anche con le migliori strumentazioni formative.

Erano altre le strade, purtroppo interrotte, che volevano condurre all’integrazione, sostenute da adeguate politiche orientative e non , come dice il nostro documento, trattarsi di “responsabilità personali”se non si arriva al successo formativo.

Possiamo concordare con l’affermazione che in Italia manchi un’educazione al lavoro; tale limite viene da lontano, dalla scuola dell’otium contrapposta a quella del negotium, convalidata da Gentile ed anche dalla Gelmini.

Per avvicinare questi mondi sono stati però messi in campo interessanti strumenti di “alternanza”, sia tra periodi didattici, sia tra sistemi, ma oggi rimangono senza finanziamenti pubblici (si veda ad esempio nella riforma degli istituti professionali, la terza area che aveva circa 300 ore di lavoro all’anno è stata ridotta a circa 66 ore di tirocinio). Anche le imprese possono svolgere una funzione formativa, ma attraverso politiche di ampio coinvolgimento assieme alle scuole, agli enti di formazione, allo stato e alle regioni, e non scaricando i problemi formativi dei giovani su precoci avviamenti al lavoro, attraverso l’anticipazione dell’apprendistato che, si sa, manifesta a tutt’oggi evidenti deficit a questo riguardo.

C’è sicuramente un’accentuata autoreferenzialità del sistema scolastico, ma a questo non si pone rimedio se le riforme scolastiche continuano ad essere rigide e centralistiche e soprattutto la valutazione degli allievi avviene su modelli docimologici anziché sulle competenze e sui crediti. Mettere in relazione la carriera scolastica con quella lavorativa sarà possibile quanto vi sarà maggiore flessibilità e autonomia, una competenza statale che rinuncia a gestire i curricoli e si attesta sugli obiettivi e sui risultati, lasciando più possibilità di manovra ai territori ed alle loro capacità relazionali e di sviluppo.

Il problema quindi non è far competere le scuole tra di loro ma rendere competitivo il sistema formativo in quanto tale e questo può andare anche verso il superamento del valore legale dei titoli di studio, che non possono rimanere gli unici strumenti a garanzia dell’equità. E’il riconoscimento delle competenze e la loro capacità di circolazione tra le regioni italiane e all’estero l’elemento decisivo, inserito in un efficace rapporto tra formazione, economia e società e andando oltre l’eccessiva burocratizzazione delle certificazioni, compresa quella riferita ai corsi ed ai soggetti erogatori.

Tra rigidità e deregolazione c’è la buona amministrazione sui territori: standard nazionali, sia sul versante delle competenze generali che professionali, programmazione e controllo pubblico dell’offerta, sostegno alla qualità della didattica e delle professionalità che vi operano, monitoraggio dei risultati non solo sul versante cognitivo, ma mediante l’impiego di altri indicatori, tipo il disagio, la dispersione, l’arricchimento del capitale sociale, ecc. Cosa un po’ diversa dal semplice incontro tra domanda e offerta di lavoro, se si vuole, come indicato nel predetto documento, che “la responsabilità e lo spirito di iniziativa, siano incoraggiati e valorizzati da subito” nei nostri giovani. Peccato che poi oltre i sacrosanti principi non si dica nulla sulle scelte di merito e sui necessari investimenti. Quanto lontani sembrano essere gli accordi tra governo e parti sociali che avevano prodotto un masterplan (2000) che si poteva definire per l’integrazione, dal quale hanno tratto risorse tutte le diverse iniziative di carattere anche innovativo che si sono realizzate tra i suddetti ministeri e le diverse intese tra stato e regioni.

Senz’altro condivisibile la cornice che la proposta interministeriale proietta di questa visione integrata di collaborazione istituzionale come “strumenti imprescindibili per innalzare le competenze chiave di cittadinanza i ogni persona e favorirne la crescita umana, culturale e sociale per tutto il corso della vita”, ma per fare ciò occorre che siano le politiche formative a tenere il timone, a gestire l’orientamento, e non delegarle al mercato del lavoro. Già la legge Biagi dava alle scuole la possibilità di diventare agenzia di collocamento per i propri alunni, oggi bisogna evitare che la formazione diventi soltanto un ammortizzatore sociale.

E’ il governo di questo processo che cerca di ottimizzare le risorse e limitare i rischi, un governo partecipato che sa valorizzare le autonomie territoriali, cose che non vengono indicate nei pronunciamenti governativi, che si limitano ad ondeggiare tra la dimensione personalista e quella economicista.

Sarebbe davvero interessante assecondare l’idea di introdurre nuove figure di carattere educativo, “deputate al tutoraggio personalizzato, al counselling, …figure di docenti tali che assicurino anche un costante rapporto di co-progettazione formativa con i tutor aziendali dei ragazzi”, ma di tutto ciò non c’è traccia negli adempimenti relativi al personale scolastico e tutt’al più possono essere ricavati nei singoli progetti, ma senza carattere di stabilità.

Insomma questo “sistema educativo di istruzione e formazione”, peraltro introdotto dalla modifica del titolo quinto della Costituzione, non si sa ancora bene cosa sia, anche se è competenza esclusiva delle Regioni, di cui ad esempio il pronunciamento qui considerato, forse fin troppo correttamente, sembra non occuparsi.

Una didattica integrata è già stata sperimentata in diversi progetti regionali; si parla di allargare l’orizzonte dell’apprendimento agli aspetti non formali ed informali, oltre che a quelli così detti formali, aggiornare i saperi scolastici alla vita ed al lavoro, dove non si intende solo trasmissione di conoscenze, ma saper fare, relazioni nel mondo complesso, innovazione e creatività. E’ il piano politico che non consente di arrivare ad una tale sintesi, nonostante le lusinghiere affermazioni contenute nel documento di cui si parla, in quanto stato e regioni si combattono a colpi di legittimità costituzionale o ricercano intese più per affinità politica che per reale sensibilità istituzionale.

Ogni persona che attraversa ambiti formativi e lavorativi dovrebbe costruire la propria storia, imparare a fare continuamente il “bilancio delle competenze”, disporre di certificazioni redatte con modalità e linguaggi diversificati, perché vi possa essere un’ampia gamma di soggetti in grado di comprendere e valorizzare le acquisizioni e le esperienze. La citata legge Biagi aveva introdotto il “libretto formativo del cittadino”, che la letteratura internazionale ha chiamato “portfolio” delle competenze. La nostra legislazione scolastica aveva cercato di introdurlo anche come strumento di informazione e di autovalutazione, oggi è rimasto solo come complemento descrittivo alla valutazione scolastica espressa in numeri, per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione o in alcune regioni per i corsi di formazione professionale. Anche qui un’altra occasione perduta, prima di tutto sul fronte dalla stessa valutazione, e poi perché viene utilizzato quasi esclusivamente ai confini tra i diversi sistemi, mentre in altri Paesi è valorizzato proprio come strumento di formazione continua.

Anche l’istruzione tecnica e professionale superiore rischia di rimanere al palo, per le stesse ragioni di immagine sociale che mettono i licei in cima alle preferenze delle famiglie, rispetto al canale accademico, entrambi triennali. L’integrazione nella diversificazione costituisce una delicata azione politica e pedagogica che deve avere, come si è detto, una efficace capacità di governo ai diversi livelli territoriali ed una qualificata didattica, che sappia raggiungere obiettivi formativi convergenti pur attraverso differenti percorsi. La storia dell’ultimo trentennio ha evidenziato una continua diatriba tra area comune e area di indirizzo, licei vocazionali e istituti professionali, istruzione e formazione, liceo scientifico – tecnologico e delle scienze applicate, ecc. Si sa che occorre evitare le sovrapposizioni, ma anche che la distinzione porta quasi inevitabilmente disparità. Tutto questo potrebbe essere mitigato da una reale autonomia e flessibilità dei percorsi che consentono una loro adattabilità alle esigenze locali, pur rimanendo legati all’ottenimento di standard di apprendimento, che attenuano l’importanza di profili altamente strutturati e perciò stesso di difficile correlazione. Si è visto infatti il fallimento delle “passerelle”, che anziché fornire un tanto evocato sistema di “pari opportunità” entro il quale praticare un reale orientamento, si è rivelato uno scivolo ad excludendum, il più delle volte sospinto dalle condizioni economiche e sociali esterne alla scuola.

Ed è per questo che non può funzionare nell’ottica dell’equità che della qualità formativa l’introduzione dell’apprendistato a fianco degli altri percorsi fin dalla giovane età. Non si tratta tanto di superare il conflitto tra formazione interna ed esterna all’azienda, quanto di indurre tutti a pensare alla formazione, a progettarla ed a realizzarla in modo congiunto, fino a che tutti possano riscontrare che i risultati ottenuti siano efficaci per il raggiungimento delle competenze e per lo sviluppo complessivo dello stesso sistema formativo.

E’ noto infatti che poco più del 20% degli apprendisti riceve una qualche forma di formazione pubblica e che con la crisi si è registrato un notevole calo dei contratti, soprattutto per quanto riguarda i minori in obbligo formativo, mentre qualcosa in più, anche se ancora in via di sperimentazione, c’è per quanto riguarda il conseguimento di un titolo di alta formazione. Esso offrirebbe in relazione all’attuale stato delle cose un’opportunità a quei due milioni di senza lavoro che non risultano inseriti in percorsi formativi, ma per questo da un lato occorre investire per prevenire un così consistente fenomeno di dispersione e le strategie di integrazione, come richiamate dal documento, si è dimostrato che possono farlo, e, dall’altro, si deve dar prova della sua valenza formativa che attualmente non è dato di verificare.

Una recente intesa tra governo, regioni e parti sociali proprio su questo tema vuole il rilancio del contratto di apprendistato, attraverso l’effettività e l’efficacia della formazione, impone una maggiore valorizzazione della componente della formazione aziendale e un più ampio coinvolgimento delle parti sociali. Sarà avviato un “tavolo tripartito” per realizzare, tra l’altro, delle linee guida condivise per la riforma dell’apprendistato professionalizzante, valorizzando la formazione aziendale di tipo formale, la risorsa della bilateralità, il ruolo dei fondi interprofessionali e la tracciabilità sul libretto formativo del cittadino.

Si sta riportando la situazione nel giusto alveo, staremo a vedere.


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