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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

LE PROVINCE DEL NORD OVEST SU ISTRUZIONE E FORMAZIONE

di Gian Carlo Sacchi

 

Sarà costituita la “Fondazione delle Province del Nord Ovest”; è la prima volta che nel nostro Paese  un’aggregazione di province si dà un’organizzazione formale, per intraprendere politiche di “area vasta”, che consentono di intercettare esigenze che vanno ben oltre gli attuali confini amministrativi, ma che allo stesso tempo pongono questioni urgenti circa l’applicazione della riforma del titolo quinto della Costituzione, che è già passato positivamente al vaglio dei cittadini, ma che nessuno governo, dopo di ciò, si è impegnato a realizzare, puntando la destra su un federalismo autarchico, peraltro respinto da un altro referendum, e la sinistra restando attaccata al centralismo burocratico.

L’iniziativa pone un’altra importante questione di cui si discute in un periodo caldo per i risparmi nella pubblica amministrazione, circa il ruolo delle province e la loro eventuale abolizione, e si candida a far riflettere sulla funzione dei livelli intermedi capaci di sostenere lo sviluppo attraverso la programmazione territoriale in una realtà quale quella italiana nella quale i veri problemi di competitività li pongono i piccoli comuni.

Qui non si tratta di aprire una polemica tra globale e locale, ma di notare come si vadano impostando diversamente dal passato alcune domande di governo del territorio e cioè rispettando le differenze per “identità”ma nello stesso tempo sollecitando le aggregazioni per “funzione”. E’ ciò che poneva il predetto titolo quinto circa la riorganizzazione appunto di dette funzioni sulle quali ci si è esercitati poco e solo a livello di dissertazione accademica, ma, si sa: dum romae consulitur….., i cambiamenti che si producono nelle relazioni sociali, economiche, soprattutto la dove più veloci sono le trasformazioni, non possono aspettare.

Siamo agli inizi di una nuova legislatura e questa configurazione di enti intermedi potrebbe riaprire con forza il problema generale del federalismo, in quanto partecipano alla fondazione regioni diverse che fin qui hanno legiferato ciascuna guardando alle necessità ed alle convinzioni presenti sul proprio territorio, in assenza di una cornice costituzionale e istituzionale (si sa che dal 2001 ad oggi questo ruolo sia stato ricoperto dalla Corte Costituzionale), e nello stesso tempo far capire la necessità di intervenire sulle competenze e le relative procedure gestionali, la così detta governance, per evitare, come accade ora, che siano gli intoppi burocratico – amministrativi a frenare l’efficacia di queste aggregazioni, sia per quanto riguarda la diversità dei comportamenti, sia come realizzare una presenza “leggera” dell’ente pubblico. Si tratta dunque di assegnare all’ente locale la funzione di promozione, programmazione, verifica, di funzioni, governando in modo flessibile le reti interne al proprio territorio ed esterne, aumentando la sussidiarietà circa i soggetti che forniscono i servizi, ma garantendo i cittadini il pieno godimento dei loro diritti.

Non poteva mancare l’attenzione all’istruzione e formazione, non tanto come aspetti delegati, nell’ottica del sistema nazionale, quanto il ruolo da ricoprire a partire dagli obiettivi di crescita e di sviluppo delle persone e delle comunità, per il territorio e per il sistema. E’ noto che attualmente convivono e configgono, soprattutto nelle regioni che qui vengono considerate, due tendenze che per lo più paralizzano sia la gestione che la ricerca, quella del decentramento, anch’essa non pienamente realizzata e quella dell’autonomia, che non deve cercare omogeneità di comportamenti quanto piuttosto convergenza sui risultati: ma anche qui siamo ancora indietro.

L’idea dunque di una fondazione di province, alla quale aderiscono Milano, Torino, Genova, oltre ad altre anche dell’Emilia Romagna (Piacenza e Parma), potrebbe essere un’occasione per spingere da un lato per una nuova cultura federalista, e, dall’altro, per porre nella giusta dimensione ipotesi di regionalismi spinti, a loro volta inadatti a porre in essere politiche efficaci perché non collegate fra di loro ed inserite in una dimensione internazionale, soprattutto europea.

Istruzione e formazione tra competenze concorrenti ed esclusive avevano iniziato a definirsi dalla legge Bassanini del 1997 e dal DL n. 112/1998 e poi sono assurte alla dignità costituzionale  con la legge n. 3/2001. Quanto c’è dell’una a livello nazionale: è un insieme di regole generali o sono pezzi di sistema, ad esempio l’istruzione liceale, e che ruolo rivestono gli attuali istituti tecnici, ma anche a livello locale e di autonomia scolastica: è solo un programma di distribuzione di servizi sul territorio o ci sono dei curricoli regionali e/ o di istituto; l’offerta formativa si modella sui saperi nazionali o sulle richieste degli utenti ? Quanto poi c’è dell’altra: che cosa significa in concreto istruzione e formazione professionale ? Gli attuali istituti professionali di stato passeranno alle regioni e come dovrà modellarsi l’attuale formazione professionale per essere un canale di pari dignità se pur di diversa strutturazione e organizzazione ? Domande che ricorrono da tempo, ma che ancora non hanno trovato risposta, dalle quali però dipendono le politiche territoriali.

Non c’è dubbio ad esempio che a livello provinciale le competenze nell’istruzione e formazione si colleghino con altre già presenti sul versante del lavoro, ambiti che oggi, si sa, pur rimanendo agganciati al proprio territorio richiedono una gestione ad ampio raggio e con politiche integrate, alle quali facilmente si collega la formazione continua e permanente.

La fondazione, ma non è l’unico segnale in questa direzione, va oltre le maggioranze politiche al governo nei rispettivi enti ed a loro volta non sono omogenee a quelle del governo nazionale; è un nuovo modo, alcuni lo chiamano bipartisan, di concepire le politiche dell’istruzione e formazione, in quanto fortemente legate allo sviluppo economico, alle politiche sociali ed all’internazionalizzazione, più che alle battaglie sui modelli antropologico – culturali sottesi alle diverse teorie del sistema scolastico e formativo.

I modelli educativi non si giocano più a livello di legislazione, anche se la stessa non ne deve essere necessariamente priva, ma compongono l’offerta formativa delle scuole, elaborata in autonomia, in accordo con i portatori di interesse. Sarà da evitare il localismo, la scuola che parla in dialetto è solo folcloristica e tutt’al più impegnata in ricerche etnografiche; sarà la qualità dell’aspettativa sociale in senso lato (standard) a richiederne la vocazione universalistica alla cultura, non più semplicemente però in senso trasmissivo, come avveniva in passato, ma come capacità di far crescere e di generare conoscenza e sviluppo. La separazione tra conoscenze e valori è impossibile sul piano educativo e formativo, la scuola però opera in modo laico, ha un campo autonomo di intervento che è quello dell’apprendimento e dei processi formativi.

 

Competenze e governance

Si è detto che non c’è solo il versante politico delle attribuzioni, ma anche quello funzionale degli strumenti, che però non sono secondari, rispetto all’organizzazione degli enti locali e regionali, delle deleghe interne e nei rapporti con il territorio. Si sa che quando ci sono in gioco equilibri di potere negli organi di governo si creano delle disarticolazioni, non solo tra i politici, ma anche ad esempio nei dirigenti e nella strutturazione degli uffici. Ancora non è passata l’inversione di tendenza di considerare, come si è detto, l’istruzione e la formazione come un potenziale del territorio e per lo sviluppo della comunità, il che chiamerebbe a raccolta tutti i settori che ad esse afferiscono, proprio per ricercare il massimo di efficacia attraverso una più completa autonomia. La formazione è rivolta soprattutto al lavoro, altro che canale paritario, l’infanzia è una prerogativa dei servizi sociali, si fatica a riconoscerne un’attività pienamente formativa, la scuola dipende  dall’amministrazione dello stato, e l’edilizia scolastica dai lavori pubblici. Si vede come incrociando in modi diversi tale frammentazione non sarà mai possibile ottenere una strategia coesa e soprattutto con risorse, procedure e linguaggi che confluiscano su obiettivi unitari.

Una importante questione dunque riguarda le deleghe attribuite dalle regioni alle province: si va da tutto delegato, a specifiche attività, oppure frutto di negoziazione. Ma le province in che modo contribuiscono alle decisioni delle regioni ? Attraverso pareri e proposte obbligatori (ma non vincolanti), come partecipanti ad una conferenza di servizi (cioè dove si è già alla comunicazione di una decisione assunta, appena prima di essere formalizzata, con un atto dirigenziale, quindi nemmeno più a livello di confronto politico, ma solo da applicare), non vi partecipano per nulla, ma sono coinvolte dalle regioni a livello gestionale dei piani locali di intervento, oppure hanno un ruolo attivo nella definizione di un programma regionale pluriennale.

Questa sola citazione basterebbe a farsi un’idea che un conto è discutere di federalismo e un altro è vederlo realizzato. Qui si vedono non solo le tradizioni amministrative di diverse regioni, che spesso non sono nemmeno coerenti con le affermazioni dei loro stessi governanti, ma nemmeno chi è federalista tra stato e regioni lo è poi, coerentemente, tra regioni e province, mentre chi è additato come statalista nel governo del territorio dimostra una reale partecipazione dei diversi soggetti alle decisioni comuni.

Nel mondo della formazione professionale si nota come la relazione tra oggetti e funzioni metta in evidenza da un lato la diversificazione dei contesti, ma, dall’altro, come questi si accompagnino a scelte politiche più complessive. Si prenda ad esempio l’orientamento professionale: è scarsamente considerato una dimensione dello sviluppo della persona, ma più che altro fa da leva alla politica economica e questo porta con sé anche il ruolo che viene attribuito ai centri di formazione. Non c’è dubbio che una certa convergenza sia contenuta nelle leggi regionali emanate dopo il 2001, segno che il citato dispositivo costituzionale e le sentenze dell’alta Corte hanno tracciato un nuovo cammino, che va intrapreso, e questa nuova cultura può davvero animare il punto più delicato ma fondamentale dell’equilibrio dell’intero sistema, quello delle citate competenze concorrenti.

Un aspetto veramente carente è quello dell’istruzione degli adulti, non solo perché manca una legge quadro nazionale, ma perché nemmeno le regioni ed i territori si sono premurati di dare attuazione al citato DL 112 e là dove qualcosa esiste è orientato soprattutto al lavoro ed alla riconversione professionale. E’stata una direttiva ministeriale del 2000 a porre il problema dei luoghi di progettazione, delle modalità di rilevazione dei bisogni formativi per gli adulti, attualmente è scaduta, ma resta su un’interessante intesa stato regioni, competenza concorrente ante litteram, che andrebbe ripresa al più presto.

Anche da questo quadro si fa presto a vedere come le due anime, quella culturale e del lavoro siano ancora distanti, tra stato e regioni, tra cultura generale e professionale, programmazione del servizio scolastico e regolamentazione degli enti di formazione, a loro volta ancora divisi tra essere affidatari di percorsi decisi a livello regionale e soggetti progettuali capaci di concorrere a procedure di assegnazione ad evidenza pubblica.

All’appuntamento con il 112 mancano anche azioni rivolte alle utenze speciali, nonché il sostegno ad allievi a rischio di dispersione o presenti in altri comparti e pur sempre soggetti a percorsi formativi, come gli apprendisti.

 

Programmazione territoriale

La legislazione già operante prevede che l’offerta formativa venga programmata dalle Regioni, anche se l’organico del personale rimane nella mani dello stato (e questo resta tuttora oggetto di contenzioso di fronte alla CC) attraverso la definizione, ancora quasi completamente assente, di “ambiti territoriali”. L’unica idea chiara, anche se discutibile, al riguardo l’ha espressa Confindustria cercando “distretti formativi” accanto ai “distretti industriali”. Oggi tutto questo è sormontato da un pronunciamento delle Regioni che chiedono entro il 2009 di poter gestire l’intero settore, in ciò sostenute dalla suprema Corte che però ha fissato il vincolo di legislazioni ad hoc, per ora inesistenti. Non ci sono dunque procedure codificate per arrivare ai piani territoriali in modo da coinvolgere, come prevedeva il DPR n. 233 fin dal 1988, gli enti locali e le autonomie scolastiche, ed emerge l’esigenza di luoghi di programmazione partecipati e forme di coordinamento dei comuni e delle scuole: conferenze provinciali e regionali ?!

Anche qui è ancora presente il dualismo tra il governo diretto da parte delle regioni di quella parte del sistema presente sul proprio territorio o se le regioni debbano valorizzare le autonomie scolastiche attraverso misure di sostegno, a cominciare dall’affidare a queste ultime un eventuale curricolo regionale fino ad arrivare a spendersi per la qualificazione dei docenti. Di nuovo si deve registrare come coloro che si proclamano liberal di fatto tengono il curricolo strettamente nelle mani della regione stessa e più che valorizzare l’autonomia delle scuole considerano sussidiarietà la privatizzazione del sistema, portanto le risorse finanziarie verso agenzie esterne che forniscono servizi per la scuola e, a volte, vere e proprie attività alternative.

Insomma crediamo che il processo di decentramento e differenziazione debba andare avanti, ma non si può nemmeno sottacere come grossolane forme di spartizione delle competenze non possa mettere a repentaglio i diritti dei cittadini ed allora forse è necessario pensare che la sussidiarietà non può essere soltanto orizzontale, ma anche verticale, per quelle parti del Paese che rischiano la marginalizzazione, anche perché legate ad un debole sviluppo economico, senza tuttavia mercanteggiare tutto questo per un ritorno del centralismo ministeriale.

Tra scuole ed enti locali manca ancora un rapporto di partenariato, non c’è progettazione comune e la scuola è spesso percepita non come una risorsa per lo sviluppo del territorio, ma come un peso economico da sopportare o una cassa di risonanza per la ricerca del consenso; dal canto comuni e province sono viste come erogatori di finanziamenti e di fronte ad una loro iniziativa le scuole sentono minacciata la loro autonomia.

La recente legge finanziaria peraltro, proprio in materia di istruzione, con particolare riguardo alla programmazione del sistema, individua il territorio provinciale come “ambito ottimale per l’esercizio della funzione”.

Se istruzione e formazione professionale dovranno essere due gambe dello stesso sistema bisognerà che da entrambe le parti si pervenga ad una gestione più flessibile ed imprenditoriali delle strutture che erogano il servizio, continuando sulla strada della piena autonomia delle scuole e su quella della trasformazione dei centri in “agenzie formative”, già indicata dalla legge Treu nel 2006 e mai attuata, seguendo la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, approvati di recente dalla conferenza stato – regioni (2008).

E’ ormai assodato che il sistema pubblico non deve essere necessariamente statale o alle dipendenze degli enti locali; occorre liberalizzare l’iniziativa, chiedendo però al servizio di garantire tutti i cittadini, non solo quanto a certificazioni e riconoscimenti formali, ma relativamente alla qualità sostanziale dell’offerta formativa e delle competenze che realmente vengono acquisite. Allora resta da risolvere la questione nazionale per quanto riguarda la definizione di detti livelli e si ripropone quella degli accreditamenti, che da un lato coinvolgono le scuole per quanto riguarda le attività formative con qualifica regionale, e, dall’altro, gli enti di formazione da parte dello stato, qualora, come accaduto con la recente finanziaria, essi vogliano partecipare con “progetti e percorsi” all’innalzamento dell’obbligo di istruzione. Non sarebbe meglio un agente terzo che fornisca una certificazione di qualità ? Forse ciò che conta di più non è tanto la burocrazia della certificazione quanto l’efficacia dei riconoscimenti, ma qui torna il solito discorso, che di fatto vincola ogni riforma, tra i titoli e i crediti, tra il valore legale da porre come risultato finale di un percorso e quello funzionale, sempre da migliorare, lungo tutto l’arco della vita, per la persona, il cittadino e il lavoratore.


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