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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

PER RECUPERARE RISORSE OCCORRE RIFORMARE LA GOVERNANCE

di Gian Carlo Sacchi

 

I tagli concentrici al personale, ai finanziamenti delle scuole, alle regioni ed enti locali, rischiano di impoverire la qualità del servizio e di scaricarne i costi progressivamente sull’utenza, fino a mettere in pericolo l’equità sociale. Ma detti tagli hanno un’altra caratteristica non tengono conto dei bisogni dei territori e quindi anche volendo ridurre gli sprechi si finisce per penalizzare le realtà virtuose.

La stragrande maggioranza dei costi del nostro sistema è sempre stata a carico del bilancio dello Stato, se quest’ultimo si ritrae, soprattutto con una domanda in continua espansione come accade in diverse parti del Paese, ad altri tocca di supplire senza avere i mezzi necessari e le competenze istituzionali per farlo, il che crea un canale parallelo che in apparenza  mantiene la visione nazionale, ma in sostanza si arrangi chi può. Sono note infatti le difficoltà in cui si dibattono istituti di zone disagiate e le disponibilità che grandi scuole delle città possono avere grazie innanzitutto a famiglie benestanti o ad altri enti o privati che sostengono il prestigio della scuola stessa. Mentre per i primi lo Stato non fa abbastanza, le altre ne potrebbero fare anche a meno e tutto questo in un formale centralismo regolamentare che incide pesantemente sulle condizioni sociali di accesso e sui risultati.

I servizi educativi viaggiano nella prospettiva del multigoverno: accanto alle scuole che dipendono dallo Stato, ma che dovrebbero essere dotate di ampia autonomia “funzionale”, ci sono quelle paritarie, le attività per l’infanzia e quelle per la formazione professionale e permanente già di competenza regionale e degli enti locali e quindi il calcolo delle risorse non è più soltanto quello che viene dal livello nazionale, soprattutto se così decurtato, ma il risultato di un’azione concertata centro – periferia, che, riportando quando indicato dalla recente legge sul federalismo fiscale, è detta una compartecipazione alle entrate del fisco. Allora è impensabile che anche un recupero di denaro possa avvenire in un’ottica centralistica. 

Con la riforma del titolo quinto della Costituzione si era data una svolta nel governo del sistema che aveva spostato il baricentro dal livello nazionale a quello regionale: le “competenze concorrenti” tra stato e regioni vedevano l’iniziativa di queste ultime e l’intervento statale solo in maniera residuale o in un’ottica di “sussidiarietà verticale”. E’ a questo livello dunque che deve confluire la riorganizzazione delle risorse, mantenendo gli interventi  nazionali per quanto riguarda quello che deve fare lo Stato, chiaramente indicato dalla riforma costituzionale, e completando con quelli regionali e degli enti locali, che non possono sostituirsi al precedente, ma qualificare ulteriormente il servizio in base alle esigenze dei territori ed i loro livelli di sviluppo, attraverso, come si è detto, la compartecipazione al gettito fiscale. Dall’altra parte c’è l’autonomia didattica e organizzativa delle scuole con la già riconosciuta capacità di gestione e di autofinanziamento.

La cornice normativa è già stata delineata ma lo Stato non decentra le competenze (c’è ancora da completare il primo livello di decentramento previsto dalle leggi Bassanini del 1997) e non sottoscrive l’accordo con le Regioni per l’applicazione del predetto titolo quinto, ma toglie i soldi, il che anziché creare un equilibrio tra entrate e spese a livello territoriale, come previsto dai decreti varati dalla stessa maggioranza, vede il governo nazionale da un lato incassare tutto e dall’altro disinvestire impoverendo il settore.

Il caso della scuola dell’infanzia, tra obbligo di istruzione e opportunità educativa, è emblematico. Era prassi consolidata che ad ogni aumento di popolazione scolastica si consolidasse la spesa statale, soprattutto in termini di personale; eventuali interventi di regioni ed enti locali, anche in convenzione con i privati, venivano a compendio dei precedenti, al punto che in diverse regioni si era sancito per legge l’articolazione del sistema in statale, comunale e privato, al fine di procedere verso una generalizzazione del servizio auspicata anche da indicazioni normative nazionali. Il taglio degli organici ha fatto ricadere la spesa sulle spalle degli enti locali, i quali per le note diminuzioni di trasferimenti statali, ai quali si aggiungono anche i vincoli del così detto “patto di stabilità” finiranno per aumentare i contributi dei genitori, il che potrebbe configurarsi di fatto come una “tassa di scopo”, il che sarebbe legittimo ma non dovrebbe essere una necessità. Continuando il ragionamento in termini di federalismo fiscale la scuola dell’infanzia è considerata una “funzione fondamentale” e quindi da finanziare in toto, ricorrendo alla suddetta compartecipazione. Ma così facendo lo stato scarica sugli enti locali i costi del servizio senza aprire loro il fronte delle entrate. E’ evidente essere un’operazione autoritaria e non si sa fino a quando sostenibile, che mette in moto soluzioni organizzative discutibili sul piano pedagogico che si pensava di avere definitivamente superate, se si tiene peraltro conto del confronto europeo. Per cui in sostanza il cittadino paga le tasse ed anche i servizi.

Lo stesso può dirsi del tempo scuola e più in generale del sostegno che era stato fin qui fornito al miglioramento dell’offerta formativa e con i fondi di istituto; all’integrazione dei soggetti disabili, stranieri, ecc. A questo punto regioni ed enti locali si vedono costretti ad intervenire sulla base di loro particolari possibilità e non attraverso un percorso costituzionalmente garantito, non solo a supplire lo stato di fronte alla domanda delle famiglie, facendo tornare il “doposcuola” gestito dalle cooperative sociali, ma anche a sostenere richieste in contrasto con le normative approvate dal governo nazionale, magari della stessa parte politica (vedi ad esempio il ripristino delle compresenza nella scuola elementare in Friuli).

Da quanto detto una politica per l’education, non più riferita dunque solo alla scuola, ha bisogno di riorganizzare la spesa nel senso di diversificare e integrare le risorse per cercare un equilibrio concertato tra le disponibilità finanziarie e le esigenze reali dei territori (va calcolata una “quota capitaria” sulla base di indicatori quanto – qualitativi), ma allo stesso tempo non si può più pensare che i risultati si ottengano solamente dalle riforme ordinamentali (soprattutto se sono a costo zero), quindi torniamo al riordino della governance come intervento non più rinviabile.

Tre le tappe fondamentali:

-          completare l’autonomia degli istituti scolastici e la revisione dei suoi organi di governo. Ad essi va attribuito un maggiore spazio nella gestione delle risorse umane e finanziarie ed una maggiore responsabilità nei confronti dei risultati. Lo Stato deve indirizzare (definizione degli standard) e controllare, le Regioni devono programmare il servizio nei rispettivi territori, le Scuole, alle quali è stata data rilevanza costituzionale, devono mettere in campo l’offerta formativa e provvedere, anche in rete tra di loro, alla sua continua qualificazione;

-          costruire una sistema delle autonomie sul territorio, per evitare che le singole realtà scolastiche rischino la polverizzazione (anche se questo è sempre meno possibile date le dimensioni sempre più grandi) e per inserirle a pieno titolo, quello della mission educativa, di istruzione e formazione, nell’ambito dei servizi che vengono organizzati a livello territoriale. Esse hanno bisogno di stare in collegamento tra di loro ed avere una propria rappresentanza riconosciuta per quanto riguarda la loro partecipazione alla politica scolastica ai diversi livelli, ma contemporaneamente devono poter partecipare allo sviluppo del territorio stesso;

-           politiche del personale, dove rivedere i diritti e i doveri, i percorsi formativi, l’organizzazione flessibile degli organici di istituto. Stato giuridico, assunzione e  contratto nazionali, “dipendenza funzionale” a livello regionale con contrattazione integrativa, gestione a livello di unità scolastica o di reti. Valorizzazione di luoghi professionali, previsti nella programmazione regionale, per il sostegno alla formazione in servizio, con compiti inerenti la documentazione e la ricerca, in collaborazione con università, agenzie specialistiche, associazioni professionali. Non si vuole qui entrare nei dettagli, ma certamente andranno regolamentate le modalità di ingresso, anche in base all’articolazione delle competenze, la mobilità, l’organizzazione del lavoro e la valorizzazione delle professionalità.

 

In questi ultimi anni si è cercato di introdurre ovunque nel nostro sistema elementi di competitività, ma se questo è accompagnato da una sottrazione di risorse lo si condanna alla dispersione, che non sarà certo arrestata da un utilizzo più diffuso dell’apprendistato, mentre in un sistema inclusivo le risorse vanno ottimizzate, non si esclude l’eccellenza ma si guarda all’equità. E’ necessario mettere mano al decentramento, ad un’organizzazione flessibile, a dare risposte reali alle esigenze del territorio per poter “collocare nel mondo”.  E’ forse quest’ultima strada quella in grado di coniugare la salvaguardia dei diritti con il raggiungimento dei risultati.


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