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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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IL RUOLO DEI GENITORI NELLA GESTIONE DELLA SCUOLA

di Gian Carlo Sacchi

 

Il percorso partecipativo nato negli anni settanta del secolo scorso ha subito diversi cambiamenti sia sul piano potremmo dire sociologico, sia normativo.

Venivamo da richieste di democrazia educativa per contrastare la gestione centralistica e burocratica di stampo gentiliano. La cultura politica dominante in quel periodo aveva ispirato la difesa dei diritti costituzionali della famiglia nell’educazione dei figli e quindi spettava ad essa il primato negli organismi scolastici e non ad esempio ai comuni che si ritenevano portatori di ideologie espresse dalle loro maggioranze di governo, che poco si adattavano all’ambiente così detto educativo, anche se non sono mancati investimenti importanti di tipo pedagogico oltre che finanziario di cui si vedono i risultati ancora oggi ed anzi sono proprio questi modelli che si tendono a generalizzare, come accade ad esempio nella scuola dell’infanzia.

Il metodo per attuare tale partecipazione doveva essere quello democratico per eccellenza, attuato dalla nostra democrazia politica, l’elezione diretta dei rappresentanti, per contrastare il pericolo di assemblearismo postsessantottino, anche se vi erano insigni pedagogisti di varia estrazione che hanno sempre difeso le assemblee e nella stessa legislazione delegata ha trovato posto sia la logica dei rappresentanti sia quella dei comitati/forum di studenti e genitori.

Più di un canale era aperto fin da allora, anche se un certo pensiero, quello della scuola tra comunità e istituzione, ha prevalso in tutti questi anni.

La stessa presidenza del consiglio di istituto ad un genitore evocava un’idea un po’ aziendale di un cda presieduto dal “capitale”, in questo caso umano dei giovani e delle famiglie, e un dirigente scolastico nella veste dell’amministratore delegato. Peccato che il cda non avesse nessun potere di gestione in proprio e l’amministrazione scolastica governasse non solo attraverso i suoi funzionari ma anche i dirigenti scolastici, presidenti della giunta esecutiva, ne rappresentavano una componente.

Che c’era qualcosa che non andava lo si sapeva da tempo, ma la democrazia sulla carta metteva d’accordo un po’ tutti, chi si sentiva rappresentante e chi deteneva di fatto il potere. Questo modello fu esportato anche negli organi collegiali territoriali, il distretto ad esempio, al quale non fu consentito di fare l’unica cosa per la quale era veramente nato, cioè la programmazione territoriale del servizio, diventando un dispensatore di pareri ad accordi che avvenivano sopra la sua testa tra enti locali e amministrazione scolastica, cosa molto diversa dalle local educational autorities inglesi.

I primi a snobbare il distretto furono proprio i Comuni che non volevano rinunciare  alle loro prerogative, perché il distretto non aveva poteri cogenti e all’amministrazione scolastica interessava il rapporto con i singoli enti facendo lei da collettore delle istanze di programmazione per poi mandare tutto nel calderone della politica nazionale.

I genitori furono triturati da questa macchina e gradualmente persero potere di persuasione nei confronti degli altri genitori e la partecipazione al momento elettivo è andata scemando, anche se il ministero ha sempre emanato le annuali “grida”, che continuano anche adesso, se non altro per tamponare i fronti dell’autonomia delle scuole. I distretti sono dei fantasmi e pur con tutta la legislazione prodotta in questi anni  non sono mai stati considerati, né per abrogarli, nè per rilanciarli.

Allora sebbene convinti che in democrazia la forma è anche sostanza c’è da domandarsi non tanto se il metodo è ancora valido, ma se gli oggetti sono ancora quelli e perché la motivazione non c’è più.

Una preliminare osservazione va fatta sulla famiglia e sui genitori, pensando se il modello di quegli anni è ancora attuale: paradossalmente si parlava di famiglia al singolare, ma oggi sarebbe meglio parlarne al plurale e di genitori al plurale ed invece prende sempre più piede il single. A ciò aggiungasi che le nostre classi sono sempre più interetniche e quindi forse ci sarà da ripensare non solo ai meccanismi di rappresentanza, per essere capaci di interagire con tante e diverse culture, ma anche le modalità di esprimersi come associazioni.

Dalla legge Bassanini alla riforma Costituzionale il servizio scolastico diventa “policentrico” e sempre meno la dinamica degli organi collegiali è centrale nel processo di sviluppo del sistema; lo stato si decentra per non perdere prerogative nella gestione, alla quale, come in passato intende far partecipare genitori e studenti, ma altri soggetti, regioni ed enti locali, ed anche le autonomie scolastiche si pongono non più nell’ottica di cercare di attenuare il centralismo, ma rivendicano il trasferimento di poteri reali nel governo del sistema.

Al punto in cui siamo, anche se il ministero sembra non sentire la pressante richiesta delle regioni per l’applicazione del nuovo titolo quinto della Costituzione, ci vuole una separazione netta tra governo delle scuole e del sistema formativo, non più solo scolastico, ma dell’education, territoriale.

 

Gli organi collegiali della scuola

Riprendendo l’esempio dell’autorità locale inglese sembra che la motivazione alla partecipazione sia determinata da due aspetti: il potere di questi organi nei confronti del governo della scuola e il senso di appartenenza della scuola alla sua comunità e viceversa. Cose che in Italia non si sono mai realizzate; gli organi collegiali sono dello stato e poco o nulla della comunità. Entrambi questi caratteri potrebbero evidenziarsi per effetto dell’autonomia, per la quale siamo ancora molto indietro, che potrebbe portarci a livello nazionale partendo dal territorio e da decisioni che hanno una ricaduta immediata sulla comunità stessa; un sistema che riparte dal basso potrebbe avere, in primis i genitori, ma anche altre realtà locali, impegnati direttamente nella crescita dei giovani e nel miglioramento del servizio scolastico.

Può non essere solo una provocazione l’aumento delle così dette “scuole paterne” con le quali il sistema pubblico locale deve fare i conti, pena il rischio di vedere valorizzata la famiglia in un processo di privatizzazione della scuola: vedi la “dote individuale” che alcune regioni tendono a sostituire alle tradizionali politiche del diritto allo studio.

Autonomia vuol dire anche farsi su misura gli strumenti di gestione, all’interno di principi e livelli essenziali: è questo che dice il nuovo titolo quinto della Costituzione quanto ai poteri dello stato.

Essere autonomi significa fare sintesi tra il riconoscimento delle scelte familiari, che oggi nelle scuole vanno sempre più condivise, come si è detto, con culture molto diverse dalla nostra, il ruolo della scuola nello sviluppo del territorio, la qualità della sua vocazione universalistica alla cultura, più che aspettare che il ministero mandi puntualmente ogni anno la circolare per l’elezione dei vari consigli.

Se ad esempio le famiglie italiane si ritirano dalle scuole pubbliche, sempre più popolate di alunni stranieri, tutta la partecipazione non solo sarà compromessa, ma le stesse scuole rischieranno il ghetto, mentre nel privato, anche cattolico, vale la customer satisfaction, e altri saranno gli obiettivi delle scuole islamiche, ecc., senza tanti organi collegiali controllati da un potere più formale che reale.

Il ruolo delle famiglie, con il bagaglio di valori e di esperienze, non sarà più quello di contendere il primato allo stato, ma di contribuire alla coesione sociale, per far sì che resti il carattere di pubblicità al servizio, nel rispetto delle diversità, ma nel comune obiettivo di qualificare l’apprendimento e la formazione.

Un’altra questione importante è la rappresentanza delle scuole autonome. Esse, infatti, se vogliono recidere il cordone ombelicale con l’amministrazione scolastica, non possono nemmeno rimanere in una dimensione localistica, hanno bisogno di rafforzare la loro presenza nei territori proprio per continuare a sostenere la loro funzione pubblica. Si stanno associando (ASA…) e diventano progressivamente gli interlocutori di regioni ed enti locali; troppo spesso queste associazioni fungono da organismi di tutela dei dirigenti scolastici, mentre sarebbe opportuno che i consigli di istituto deliberassero su tali associazioni e qui i loro presidenti dovrebbero diventare protagonisti di queste nuove forme di rappresentanza.

Le ASA…(Associazioni Scuole Autonome di….) sono come l’ ANCI per i Comuni, loro dovrebbero costituire, con il contributo di tutte le forze interne a ciascuna di esse, la spinta alla costituzione del sistema territoriale, regionale, nazionale e, oggi, europeo.

Al fondo di questo ci sta un organo di governo con le rappresentanze delle diverse componenti, presieduto da un genitore, ed il comitato dei genitori con un ruolo di animazione pedagogica dell’istituto.

Gli enti locali non sono un pezzo della scuola, ma un altro ente, autonomo, come la scuola stessa, sui quali è fondata la Repubblica, come dice la nuova Costituzione. E’ il territorio (comunale, provinciale, regionale, nazionale) il baricentro del confronto e della collaborazione.

E’ il sistema formativo territoriale che mantiene la pubblicità del servizio, in un’ottica partecipata, per contribuire allo sviluppo della stessa realtà locale, senza sconfinare in una sorta di scuola-fondazione che si distanzia da una prospettiva istituzionale per servire ad interessi particolari.

 

Gli organi collegiali territoriali

Già il DL n. 112/98 e il DPR n. 275/99 avevano introdotto profonde modifiche nell’organizzazione burocratico – partecipativa delle scuole, facendo crescere in modo determinante da un lato il ruolo di regioni ed enti locali, e, dall’altro, prevedendo un sistema formativo “integrato”, non più solo legato alle scuole, ma alla formazione professionale, alle imprese, ai percorsi non formali, tracciando un profilo da longlifelearning.

L’approvazione del nuovo Titolo Quinto della Costituzione, avvenuta nel 2001, ha dato un rinforzo costituzionale a quanto già avviato con la legge Bassanini, ma ha rivisitato i contenuti delle competenze affidate ai doversi soggetti, togliendo allo stato tutti i poteri gestionali e quindi facendo venir meno quella che era chiamata la “partecipazione alla gestione” prevista dai decreti delegati del 1974.

Si fece bene a fermare l’applicazione della nuova normativa sugli organi collegiali territoriali; dopo la modifica alla nostra carta fondamentale infatti il baricentro del governo del sistema sarà più facilmente la “conferenza stato – regioni” che il ministero/consiglio nazionale della pubblica istruzione. La strada è dunque segnata e la gestione passerà sempre più facilmente attraverso leggi regionali, le quali a loro volta avranno bisogno di strumenti (democratici, speriamo) per la costruzione della decisione politica e formativa. In diverse di queste leggi sono già presenti conferenze regionali, provinciali, intercomunali, ecc. E’ la volta buona per far ritornare il “distretto” delle origini, chiudendo questa larva ancora nelle mani del ministero, che in campo scolastico dovrà essere diverso da quello socio-sanitario o dell’impiego, dove i problemi sono affidati prevalentemente ai tecnici, prevedendo cioè rappresentanti dei diretti “portatori di interessi”, i genitori, i quali fanno soprattutto parte, come si è detto, della costruzione della comunità locale.

Al territorio si arriva attraverso le presenze nelle singole scuole: nei consigli e nei comitati. E qui un grosso ruolo potrebbero averlo le associazioni, come “corpi intermedi”, che andrebbero anch’esse riviste se si vuol aumentare la partecipazione. Magari si potrà pensare a strutture associative snelle, con adesioni, comunicazioni, decisioni on line: e – democracy ? I problemi associativi di oggi non devono essere più di tanto legati alle appartenenze, quanto alla costituzione di luoghi di incontro, forum, di documentazione, ecc., per l’elaborazione culturale e professionale, non solo per “categoria”, ma dove il fatto educativo e formativo sono visti e trattati a tutto tondo.

Le associazioni potrebbero esercitare un ruolo più politico in senso stretto nei confronti dei governanti, mentre i genitori – presidenti hanno davanti a loro questioni di carattere pedagogico – organizzativo. Non c’è conflitto comunque tra le due realtà, possono rinforzarsi a vicenda, se i genitori vogliono contare.

Di riforma degli organi collegiali si parla e per quanto riguarda la scuola diventa indispensabile per l’attuazione dell’autonomia. Ci sono diversi disegni di legge, di maggioranza e opposizione: si potrà arrivare ad un provvedimento bipartisan?


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