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Il Piano nazionale di formazione degli insegnanti alle TIC – CM 55/2002

di Stefano Tommaso Donati (*)

Non è ancora partito ed ha già una storia. È una storia molto tormentata ed emblematica, e conoscerla può solo aiutare a capire in che tempi viviamo. Non è anche questo un fine della Storia? Ed allora, in ordine cronologico, prima ne ripercorriamo i momenti salienti e dopo vediamo di riflettere sugli eventi.

L’idea di un Piano nazionale di formazione degli insegnanti alle TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) emerge imperioso non appena le scuole cominciano a pullulare di computer. Un migliaio di miliardi di lire spesi in hardware non possono che portare a tale necessità.

Parallelamente l’intero consorzio sociale sta percependo – giocoforza – che chiunque svolga un lavoro nella società contemporanea non possa non saper utilizzare i nuovi strumenti della comunicazione e dell’informazione. Unendo l’evoluzione del clima culturale – dall’allergia all’entusiasmo – allo stato di fatto delle dotazioni scolastiche – dai videoregistratori ai computer – l’idea del Piano nazionale di formazione per i docenti diviene una priorità del governo.

Data però la poco rosea situazione economica, e che il migliaio di miliardi del PSTD (Programma di sviluppo delle tecnologie didattiche 1997/2000) è stato quasi tutto speso in acquisti di ferramenta (hardware), era necessario trovare nuovi fondi. Un’impresa non semplice in clima di rigore per l’introduzione della nuova moneta, l’euro, ma giustificabile in un contesto generale di e-government che prendeva corpo proprio alla fine degli anni ’90.

"Se la tecnologia crea problemi di governo, sia la tecnologia a procurare i fondi per affrontarli" sembra aver pensato qualcuno, ed in effetti non appena si profila un nuovo grande business nel campo delle TIC, l’UMTS, un nuovo standard di comunicazione che promette un bis dell’inatteso boom del telefono cellulare, i governi di mezza Europa iniziano a mettere all’asta le concessioni alle ditte che vogliono utilizzare la nuova tecnologia nel loro paese.

Anche in Italia con l’asta per le concessioni UMTS si ricavano un bel po’ di migliaia di miliardi di lire, con cui il Governo si può permettere di dare corpo al piano di e-government senza gravare sulle entrate ordinarie del bilancio. Per il nostro Piano di formazione vengono destinati centocinquanta miliardi di lire. Siamo alla fine del 2000, e veramente non si poteva sperare di meglio. C’è finalmente la convinzione che non basta mettere i computer a scuola perché questa migliori, ci sono anche i fondi per una vasta azione di formazione. Le prospettive sono rosee.

Il Piano di formazione prende forma pubblica nel febbraio 2001, al primo salone delle Tecnologie didattiche (TED) di Genova. Nella giornata d’apertura, alla presenza del Ministro alla pubblica istruzione, il Direttore generale competente spiega – col supporto di chiare slide – come si intendono impiegare quei fondi. Vengono presentate le linee formative, un po’ generali ma già ben indirizzate. Sui contenuti, e sui concetti di formazione alle TIC, non è il caso di commentare qui. Ne parlerò più avanti. Qui ci interessa sapere che il piano già prevede tre percorsi formativi che coinvolgeranno quasi 180.000 docenti per una spesa – appunto – di 150 miliardi di lire.

Dire 180.000 docenti vuol dire uno su cinque, una quota decisamente significativa che vale certo la spesa prevista che è, comunque, solo un settimo delle spese per le dotazioni di computer alle scuole (PSTD) in fase di conclusione.

Alla fine del 2001 giungono nelle sedi periferiche dell’Amministrazione scolastica i fondi ripartiti secondi i soliti criteri di proporzionalità in funzione del personale in servizio in ogni regione. Nello stesso tempo vengono sottoscritte con due Uffici scolastici regionali – Veneto e Basilicata – convenzioni per lo sviluppo dei materiali dei corsi. Viene coinvolto l’INDIRE di Firenze per curare la messa on-line di detti materiali formativi che – al passo coi tempi – rientreranno in un modello di formazione a distanza. Viene coinvolto l’INVALSI perché proceda all’attento monitoraggio della formazione che si andrà ad erogare.

Sembra tutto pronto al via, dato che la consuetudine in iniziative simili è quella di veder giungere i fondi a processi già avviati. Una volta tanto i soldi sono già in cassa, manca solo l’atto formale – la circolare ministeriale – che dia il via all’operazione. Di certo è lì lì per uscire … ed invece nulla!

Si deve attendere la fine del maggio 2002 per vedere finalmente pubblicata la CM 55, una delle più voluminose circolari della storia del Ministero dell’istruzione. Oltre 180 pagine tra disposizioni e linee guida. L’editing non è dei più curati, alcune parti portano ancora la vecchia denominazione di "Ministero della Pubblica Istruzione". Anche i contenuti in alcune parti si contraddicono. Sembra una circolare emanata di fretta, eppure sono passati quindici mesi dal suo primo annuncio!

Soggetti chiamati in causa per primi, nella complessa macchina organizzativa, sono le Direzioni generali regionali. La mole dell’impresa coglie molti alla sprovvista, e di certo non è facile orientarsi nell’applicazione di tutte le linee guida. Comunque qualche realtà regionale, un po’ per le piccole dimensioni, un po’ per contesti particolarmente favorevoli, alla fine di giugno inizia a proporre al Ministero i piani attuativi per avviare il tutto col nuovo anno scolastico alle porte: il 2002/03.

Colpo di scena. Concitate consultazioni nell’afoso e piovoso luglio 2002. Le OO.SS. nazionali rivendicano il loro diritto ad essere consultate sul tema della formazione del personale, cosa che il Ministero non ha fatto - dicono - e quindi ora si deve fermare tutto per condurre la contrattazione necessaria.

Siamo all’ottobre 2002, qualcuno parla di un avvio a gennaio 2003 (gli ottimisti) qualcuno all’anno scolastico 2003/04 (i pessimisti). Intanto stanno giungendo in tutte le scuole italiane le password per accedere al sito dell’INVALSI per il monitoraggio di un Piano di formazione che non c’è. Qualcuno s’è dimenticato di dire loro che tutto è sospeso. Così l’INVALSI – ex CEDE - ligio e puntuale con gli impegni presi nel dicembre 2001 è pronto a seguire i 180.000 docenti che dovrebbero avviarsi su un percorso formativo di cui nessuno sembra sapere qualcosa di certo.

Una sola cosa al momento è sicura: i docenti iniziano un nuovo anno scolastico con tanti computer e nessuna formazione. Queste le dolenti cronache che, l’avevo detto in apertura, servono per poter comprendere quella che invece può essere la storia di questo Piano nazionale di formazione, evento significativo nella Storia delle TIC nella scuola italiana.

Quando leggerete queste pagine il Piano nazionale di formazione per docenti alle TIC sarà – spero veramente – partito. A voi seguire la cronaca, qui facciamo Storia, quindi è necessario entrare nel merito dei contenuti del Piano, quello storico che si è evoluto dalla prima veste pubblica (febbraio 2001) al testo della Circolare ministeriale n. 55 del maggio 2002. I contenuti sono importanti non tanto in sé, quanto perché mostrano in modo evidente che idea c’era relativamente a quello che deve saper fare un insegnante col computer.

Direte voi: "Certamente un insegnante non è un impiegato, quindi dovrà imparare ad usare il computer in modo adeguato al suo lavoro e non come viene fatto per i ragionieri in banca". Pensate di aver detto una banalità? Niente affatto: avete espresso quel sano senso comune che sembra sempre mancare nelle stanze dei bottoni! Infatti – credetemi – il Piano nazionale di formazione dei docenti è nato attorno al piano di studi della ECDL, quella "patente europea del computer" nata proprio pensando a chi doveva documentare un livello minimo di conoscenza dei programmi d’ufficio.

Dico "documentare" e non "apprendere" perché una patente – per l’appunto – è un documento e non attesta altro che il superamento di sette esami tramite lo svolgimento di sette test (sì, un po’ come quelli della patente automobilistica, solo che teoria e pratica sono compresi nello svolgimento del test). Se per affrontare questi test si abbia poi bisogno o meno di un corso è lasciato al soggetto in causa: io (noi) con un quotidiano uso di questo strumento in un pomeriggio possiamo sbrogliare la formalità dei test ed ecco acquisita la nuova patente! Bene, non dovrò più fare la lista delle tante esperienze d’uso del computer fatte, mi basterà dire "Conseguimento ECDL in data … presso …" e chiuso lì coi bisogni di documentare tramite curriculum vitae.

Sì, ma come si fa con quegli insegnanti che invece non hanno pratica quotidiana del computer? O quelli che lo usano per tutto ma non per ufficio? E già, perché come in ogni corso con più esami la "bestia nera" tra le discipline, quella che mette la tremarella anche a chi è preparato, c’è sempre. Ed allora come ritenete che si possa pensare all’insegnante di area umanistica messo di fronte a 30 quesiti sui data-base relazionali? Drag and drop e point and click non rendono più semplice l’approccio alla creazione e gestione di tali oggetti, che vivono di natura e regole proprie, ben lontani dai word-processor che - in fondo - non sono altro che macchine da scrivere virtuali.

Ve lo vedete un/una prof di lettere dare questo esame? Ed un’insegnante di scuola dell’infanzia? O elementare? Quale reazione da parte di quegli insegnanti che da soli o con l’aiuto del collega hanno preso confidenza con programmi di disegno, o musicali, e vanno a scoprire che nel corso di patente nessun esame permetterà loro di far valere le competenze acquisite? Insomma, "appiattimento impiegatizio" anche per gli insegnanti?

Ed infatti le polemiche tra "esperti" non mancarono, portando quasi ad una crociata in rete contro l’ECDL che - poverina - che colpa poteva avere se non prevedeva esami multimediali? In fondo era nata come certificazione di quell’uso tipico degli ambienti d’ufficio: un po’ di nozioni sulle norme relative all’uso degli strumenti informatici, come gestirsi i file sulla scrivania virtuale rappresentata dal computer, videoscrivere, fare i conti con tabelle elettroniche, preparare qualche diapositiva per le riunioni, farsi una rubrica col programma di database, usare un po’ di posta elettronica e navigare in Internet. Sette banali cose sette che qualunque impiegato è bene sappia fare, se dice di essere bravo col computer e di volerlo / doverlo usare per lavoro.

Ma anche - la povera ECDL - aveva la colpa (o forse il merito ?) di avere poche idee ma chiare. Sette cose sette ben definite e verificabili in un test teorico-pratico con 30 punti in ballo. Se lo passi bene, altrimenti torni un’altra volta. Avessi mai visto altrettanta brutale chiarezza quando si parla di multimedialità! Dai più alti livelli accademici agli insegnanti che razzolano nella stessa scuola uno scontro continuo su cosa è "multimedialità" e come vada usata per la didattica. E parlo solo dei favorevoli all’uso del computer a scuola.

Sostanzialmente si andarono creando tre posizioni distinte in merito: l’ECDL era fortemente sostenuta dal fatto che esisteva ed operava in tutto il territorio nazionale una rete di centri (test-center) riconosciuto dall’organismo (l’AICA) nato per la certificazione ECDL in Italia. Il fatto che la stragrande maggioranza di questi centri fossero scuole costituiva un ulteriore elemento di rinforzo a questa posizione: con poco impegno organizzativo si darebbe potuta svolgere la fase più complessa del piano che proprio negli aspetti quantitativi aveva l’elemento di maggior criticità.

All’estremo opposto chi rinnegava alla radice l’ECDL, demolendone ogni elemento: i programmi perché vertevano su temi alieni alla realtà docente trascurando invece elementi di forte potenzialità didattica come gli aspetti multimediali, la metodologia di somministrazione dei contenuti che appariva rigidamente scandita in moduli a sé stanti secondo antichi modelli didattici certamente inadeguati ad una formazione di adulti acculturati, i criteri di valutazione puramente quantitativi in barba ai più aggiornati orientamenti in tema di docimologia, ed infine metodi di erogazione da diplomificio. Sostanzialmente era contestato il modello addestrativo dell’ECDL rivendicando una vera formazione, cosa ben più complessa dell’addestramento all’uso di uno strumento.

In mezzo mille mediazioni. L’ECDL già nella prima versione del Piano ministeriale era "adattata" con l’aggiunta - oltre i sette moduli ECDL - di tre ulteriori moduli ad hoc sull’uso didattico delle TIC. Tali moduli avrebbero chiuso il percorso formativo complessivo di 120 ore. Alcuni proposero l’incremento dei moduli totali per dare maggiori scelte ai docenti nel disegnare il proprio percorso formativo. Nacque anche un progetto di EMCL - European Multimedial Computer Licence - che sul modello tradizionale innestava nuovi moduli su "Suono digitale e software di editing audio", "Computer grafica", "Video editing" e così via. Alla fine i moduli disponibili sarebbero stati molti più dei 10 necessari a completare il corso, quindi ognuno avrebbe potuto optare per ciò che più lo interessava o riteneva utile al proprio ruolo: via i database e impariamo ad usare uno scanner, ad esempio.

Certamente il naturale contrasto tra quantità e qualità, per cui all’aumentare dell’uno l’altro aspetto va in sofferenza, non poteva essere risolto. Tra il puntare sul maggior numero possibile di insegnanti e l’attivare una formazione di qualità le scelte possibili rientravano in una ristretta finestra di opzioni. Il fatto che il Piano nazionale dovesse coinvolgere una quota significativa del personale docente era un aspetto inderogabile: la quota di finanziamento concessa dal Governo non poteva non andare ad incidere sull’aspetto quantitativo. Fissata nel 20% del personale di ruolo questa quota, attorno a tale dato non appare semplice garantire in modo forte l’aspetto qualitativo dell’azione formativa.

Quando parlo di "qualità" della formazione io penso sempre ai colleghi che la formazione coinvolge. Al di là delle tante metodologie di misura scientificamente applicabili, il primo criterio di qualità di qualsiasi occasione formativa (corso, seminario, laboratorio ecc.) è il tasso di soddisfazione di chi ha partecipato. E conoscendo la classe docente (vi appartengo anch’io/noi) so quanto è difficile progettare percorsi formativi in grado di rispettare la molteplicità di posizioni, esperienze e competenze presenti a vario titolo anche in un piccolo gruppo di corsisti. Quando poi questo gruppo assomma a 160.000 unità non c’è scampo, qualcosa va sacrificato.

Ed allora, dato per scontato che un Piano nazionale sul tema delle TIC partiva con l’handicap sopra descritto, l’obiettivo qualitativo poteva essere perseguito solo minimizzando l’inevitabile inadeguatezza del piano rispetto alle esigenze sul campo. In tal senso l’evoluzione dal modello iniziale dimostra questo tentativo di minimizzare il rischio di insoddisfazione: dal modello originario 7+3 (i sette moduli ECDL più 3 sull’uso didattico) si è passati prima ad un 7+3(7), ovvero i moduli sull’uso didattico venivano portati a sette tra cui i corsisti avrebbero scelto i tre di proprio gradimento, ed infine nel testo della circolare finale in 10(7+7), quindi dando libertà ai corsisti di pescare tra i quattordici moduli offerti i dieci di proprio gradimento.

Questa soluzione finale permetteva quindi le più ampie combinazioni del corso, che poteva incontrare maggiormente le specifiche esigenze di molti dei corsisti sia sul fronte tecnologico che metodologico. Le combinazioni possibili sono milleuno (dal che verrebbe la battuta del "Piano da Mille e una notte …") sufficienti a rispondere a chi contestava la "rigidità" del piano.

Ma non era solo questo il punto messo in discussione: vediamo dove invece i dubbi erano ben più fondati e le soluzioni possibili più aleatorie.

L’ECDL in sé, l’ho prima accennato, è una certificazione di competenze che assume concretezza in un attestato registrato con un codice univoco ed assume un valore perché garantito dall’AICA - per l’Italia - nel quadro generale europeo del CEPIS (Council of European Professional Informatics Societies). Conseguire questa attestazione non è la stessa cosa del frequentare un corso: chiunque può iscriversi acquistando la skill-card, un libretto su cui verranno registrati gli esami sostenuti, e con questa presentarsi in un test-center riconosciuto dall’AICA - tra cui un migliaio di scuole - per affrontare gli esami. Conclusi gli esami si riceve un certificato con i punteggi conseguiti e poco dopo l’attestato di conseguimento dell’ECDL.

Invece nel Piano ministeriale l’ECDL è sempre stata citata come corso, come riferimento al syllabus delle competenze informatiche che sta dietro l’ECDL, lasciando defilata la questione dell’attestazione dell’AICA che - per sua stessa natura - ha un costo che, per quanto contenibile in base a specifici accordi, verrebbe ad incidere in modo significativo sul Piano. Riferire la formazione all’ECDL e poi abbandonare il corsista alla scelta o meno di sostenere esami e relative spese per concretizzare gli obiettivi raggiunti in una attestazione registrata dall’AICA non è certo un aspetto secondario, ed infatti non è passato inosservato a chi ha esaminato prima le bozze e poi il testo della C.M. 55/2002.

Altro aspetto critico la metodologia proposta. Tutti i moduli riferiti sia al syllabus ECDL che all’impiego didattico delle TIC si sviluppano in un modello di formazione misto, parte a distanza parte in presenza. Primo elemento il tempo: dodici ore complessive appaiono ad alcuni estremamente limitate per una formazione che - per quanto mirata - vuole essere formazione e non addestramento. Se poi metà di questo arco orario - sei ore - sono destinate alla fruizione di materiali on-line - il minimo spazio destinato ad un rapporto in presenza coi colleghi corsisti ed il tutor elimina da subito ogni speranza di poter avere un contributo formativo paragonabile ad altri contesti che - sulle TIC e non - nella scuola hanno una fondata tradizione.

Tradizione nata sin dalle prime timide comparse dei computer tra i muri scolastici, quando azioni formative anche molto articolate ed efficaci sono state progettate ed attuate in diversi contesti locali. Ed anche tradizione articolata, dopo la prima urgenza di conoscenza "tecnologica", sempre più in considerazione da parte degli stessi docenti che più che le cose apprese dal corso restava lo scambio, il confronto, l’assistenza reciproca nel gruppo in formazione che veniva ad attuarsi e consolidarsi, elemento che restava anche oltre il tempo del corso di aggiornamento, e oltre il frenetico evolvere delle tecnologie e delle interfacce, divenendo una acquisizione in grado di tornare sempre valida nell’operare a scuola.

Il sempre crescente numero di insegnanti che sono entrati nei newsgroup o nelle mailing list per la scuola tra il 1998 ed il 2000 non giungeva in questi luoghi virtuali per propria spontanea scoperta, ma indirizzato da formatori o colleghi che, spesso durante corsi di aggiornamento, li avevano portati a scoprire queste risorse che la rete Internet metteva a loro disposizione. Io (noi) abituato a trovare in rete colleghi con un certo taglio comune, debbo sinceramente dire che questa calata di neofiti, con un ritmo in continua crescita, e con richieste in rete riferite proprio all’ABC dei temi oggetto delle varie liste, non ha certo fatto molto piacere.

Alle prime ondate, pazientemente come è usuale in rete, si accettava di dare risposte cortesi a quesiti apparentemente (per me - noi) banali, ma quando nel giro di poco spuntava una nuova ondata che riproponeva le stesse questioni … ecco, l’esasperazione ha preso il sopravvento e le liste ormai dominate da messaggi di scarso interesse per me (noi) sono state abbandonate a queste nuove generazioni di docenti alle prese con le TIC. Un certo ruolo in questa "fuga" dalla rete era anche dovuto alla "ignoranza" da parte dei neofiti delle minime regole della netiquette, per cui anche le liste più tranquille cominciarono ad essere percorse da feroci bacchettate sulle dita a chi candidamente chiedeva "Che vuole dire OT?"

Debbo ammettere che un po’ di snobismo, meglio un po’ di malcelato orgoglio di appartenere ad un gruppo ristretto che condivide una forte passione, l’ho vissuto, e la reazione al vedere violato questo spazio quasi privato, questi ambienti virtuali dove potevi porre in discussione le teorie dell’apprendimento e le metodologie d’impiego di questo o quel software a fini didattici, vederli degradare verso il basso fronte dei quesiti tecnici o su qual è il miglior programma per … ecco proprio non faceva più per me (noi).

Eppure questa invasione era il riflesso del proliferare di corsi e corsetti nelle scuole, che davano il primo spunto a docenti che poi partivano entusiasti ad impiegare le TIC nelle loro classi, scontrandosi puntualmente nei tanti problemi tecnici che nessun corso può prevenire, e quindi a lanciare help on-line perché qualcuno (il formatore, il collega più "esperto") aveva detto che su Internet c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarti.

E se quindi l’aspetto più evidente di questa "formazione sparsa" era la ricaduta che - pur con tutte le difficoltà - portava nella scuola, nelle classi con gli allievi, questo accadeva perché i corsi mettevano in relazione persone con una certa esperienza (i formatori) con entusiasti neofiti. Su questo aspetto una "formazione di massa" cosa promette? Se alle trenta ore passate assieme in dieci, quindici incontri viene a sostituirsi il rigido modello proposto dalla CM 55, che ricadute potremo avere?

In particolare l’elemento evidenziato sul fronte metodologico è: ha senso che ad un corsista alle prime armi venga proposto prima di passare due ore on-line a consultare materiali generici sul modulo da svolgere, dopo di che incontra il proprio tutor e i compagni di corso nel primo incontro di tre ore, riceve alcune indicazioni e la consegna a passare altre quatto ore sul web per prepararsi all’incontro finale? Questa scansione attiva relazioni nel gruppo classe? Oltre a conoscenze (comunque precarie per l’innata obsolescenza delle TIC) permette di acquisire concetti? O anche più banalmente, per i moduli riferiti al syllabus dell’ECDL, prepara un insegnante comune ad affrontare il test?

Ed allora, superata la rigidità del percorso con la formuletta 10(7+7), restavano (e ad oggi restano) molti dubbi sulla qualità della formazione che la CM 55 propone, sempre intesa - come ho già detto - in termini di ricaduta nella vita quotidiana della scuola e nelle classi. Parimenti resta irrisolto il problema della certificazione AICA, la cui valenza di titolo valutabile nelle azioni di individuazione di personale docente a cui assegnare funzioni oltre a quelle d’insegnamento viene ora smentita, ora rilanciata.

Ed arriviamo allora al nodo gordiano che ha reso il lancio di questo Piano di formazione così simile all’Odissea: il valore della formazione dal punto di vista istituzionale e contrattuale. E sì, perché rammenterete che in avvio di questo capitolo vi ho spiegato come - emanata la CM 55/2002 - i tempi di attuazione sono stati protratti da una forte posizione in merito da parte delle Organizzazione Sindacali della scuola. Sostenevano infatti queste che un tale sforzo non poteva non avere garantiti anche degli esiti sul piano contrattuale per i docenti che - dopo ben centoventi ore di corso - avrebbero acquisito nuove competenze che dovevano in qualche modo essere riconosciute.

Le "nuove competenze" a cui le OOSS si riferivano non erano ovviamente quelle dell’ECDL, elemento che si può ben considerare parte del bagaglio culturale di base di un docente del terzo millennio, bensì agli altri due percorsi di formazione compresi nel Piano che ho volutamente evitato sinora di trattare per esigenze di chiarezza. La CM 55 non trattava solo della formazione più elementare (detta Azione A - Informatica di base), ma anche di altri due percorsi pensati per quei docenti che non erano certo all’ABC, anzi avevano autonomamente raggiunto gli obiettivi dell’Azione A.

Allora per gli "esperti" sui due fronti, quello didattico e quello tecnologico, erano programmati l’Azione B (Didattica e Tecnologie) e l’azione C (Gestione della infrastruttura tecnologica), azioni che miravano alla messa a punto di competenze professionali di profilo decisamente caratterizzato, tanto che l’Azione B era dichiaratamente progettata per preparare un docente in ogni Istituzione scolastica a svolgere il ruolo di counselor verso i colleghi, mentre l’Azione C intendeva preparare un docente ad assistere le infrastrutture tecnologiche di due o tre scuole.

Si può ben capire che se un insegnante, prima con la propria esperienza sul campo, poi con 120 ore di corso, inizia a svolgere funzioni di servizio aggiuntive al proprio ruolo, cambia il proprio profilo professionale. Tale cambiamento può essere interpretato come "aggiunta" all’attività docente, ma anche come mutazione / evoluzione della propria professionalità. Sono - è chiaro - temi di contrattazione sindacale. Non è marginale il fatto che proprio nell’estate 2002 aveva avvio la negoziazione del nuovo contratto collettivo di lavoro della scuola.

Il fatto poi che la CM 55 definisse un certo quadro di impiego del counselor a scuola, dotando le Istituzioni scolastiche di un fondo specifico per compensare l’attività aggiuntiva da questi svolta al termine della formazione, non bastava certo a considerare risolto il problema della nuova funzione. Ciò perché tale azione - inquadrata in modo aggiuntivo - si presentava episodica e precaria contro un’esigenza invece di sistema che la scuola ormai presentava sul tema dell’impiego didattico delle TIC. Ma anche perché per quanto riguardava l’altro profilo, quello tecnologico, che veniva a realizzarsi al termine del percorso C nulla era indicato nella circolare.

Insomma un bel pasticcio che trascendeva ogni polemica su ECDL sì o ECDL no. Restavano comunque aperti tre bei problemi:

· come proporre una sensata formazione di base su grandi numeri

· come selezionare e formare i docenti esperti d’impiego didattico delle TIC (counselor)

· come selezionare e formare docenti esperti di progettazione / manutenzione di infrastrutture tecnologiche nella scuola

e per gli ultimi due casi come riconoscere la nuova professionalità e funzione?

Problema nel problema: l’aspetto economico. Non tanto per il counselor, che occupandosi di didattica di certo non ha molte alternative sul mercato del lavoro oltre la scuola, ma di certo un esperto di progettazione e manutenzione di infrastrutture tecnologiche di rete non può non comparare il proprio lavoro a scuola con lo stesso impiego in contesto di piccole e medie aziende. Si punterà al solito sulla propensione alla missione da parte del docente? Probabile …


(*) Tratto da: Stefano Tommaso Donati - Computer a scuola: assente! Vent’anni di vani tentativi di introdurre le nuove tecnologie nella scuola italiana dedicato a Clifford Stoll, l’eretico high-tech – Lecce 2002, per gentile concessione dell’autore
Stefano Tommaso Donati modera un forum sulle TIC in Italia all'URL:
http://win.edscuola.eu/forums.asp?ForumId=6


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