dal Rapporto CENSIS 1998
32° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese

Un’Italia in trincea

 

INDICE

1. CONSIDERAZIONI GENERALI

2. LA SOCIETÀ ITALIANA AL 1998

(...)

La riforma (senza risorse) della formazione

L’introduzione dell’autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche, la riforma dell’esame di maturità, il riordino delle competenze per la formazione professionale, hanno rappresentato solo i primi passaggi di un complessivo sviluppo delle politiche formative, ancora incerto ma in larga parte delineato. I disegni di legge presentati dal governo per il riordino dei cicli e per la parità scolastica, prefigurando la creazione di un sistema pubblico di istruzione e formazione, possono non essere condivisi, ma nella loro architettura generale ripropongono, sostanzialmente, principi e soluzioni ormai largamente utilizzati in contesto europeo. Tuttavia il processo di riforma sembra manifestare alcune difficoltà di fondo non tanto negli indirizzi, quanto piuttosto nel far corrispondere alle ambizioni di innovazione una altrettanto ambiziosa opera di riqualificazione della spesa, recuperando una nuova capacità di investimento necessaria a sostenere l’insieme dei processi di riforma. Sul piano fenomenologico si assiste infatti:

- ad una significativa diminuzione del rapporto tra spesa per istruzione e formazione sul PIL che passa dal 5,3% del 1990 al 4,7% del 1996 per attestarsi nel 1998 al 4,5%;

- al protrarsi di una condizione di sotto utilizzazione delle risorse del FSE con un volume di spesa da parte delle regioni meridionali (obiettivo 1), a quattro anni dall’avvio nel programma, pari al 35% del volume delle risorse disponibili ed al 50% del totale degli impegni di programmazione (tab. 12).

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Il nostro paese manifesta rispetto alla media OCSE:

- uno sbilanciamento degli investimenti destinati alle spese correnti rispetto a quelli in conto capitale;

- un’incidenza maggiore delle spese per il personale rispetto alle spese correnti (con un rapporto alunni docenti tra i più bassi d’Europa);

- con un’incidenza di trasferimenti alle famiglie per il diritto allo studio significativamente inferiore alla media OCSE;

- un volume di risorse pubbliche destinato ad istituzioni scolastiche non statali tra i più bassi dei paesi industrializzati;

- uno sbilanciamento degli investimenti verso i cicli primario e secondario a svantaggio dell’istruzione superiore.

Tali squilibri di natura strutturale difficilmente potranno essere recuperati senza lo sviluppo di un nuovo modello si spesa. Ma è difficile pensare che l’implementazione delle riforme possa realizzarsi senza aumentare la quota di spesa per istruzione e formazione sul PIL verso gli standard OCSE.

Il secondo fattore di incertezza è rappresentato dalla scarsa capacità di utilizzazione dei fondi strutturali per la formazione, risorse che come è noto rappresentano la fonte di finanziamento primaria per la formazione professionale. I dati relativi alla programmazione ed alla spesa del FSE, sia nelle regioni obiettivo 1 che per gli obiettivi 3 e 4 mostrano, nonostante gli indiscutibili miglioramenti, un rilevante deficit di utilizzazione. Nel secondo semestre del 1998, a quattro anni dall’avvio dei programmi ed a poco più di due anni dalla loro conclusione, il livello di spesa non supera il 40% del totale dei costi. Nelle regioni del Mezzogiorno sono state impegnate il 70% delle risorse FSE ma solo il 38% di queste è stato erogato a fronte di attività formative concluse. Un dato preoccupante, proprio alla luce delle difficoltà che incontra il processo di integrazione tra istruzione e formazione professionale, uno degli snodi più qualificanti del processo di riforma in atto.

Si pone allora l’esigenza di immaginare una nuova stagione delle politiche educative in cui una maggiore qualità degli investimenti si accompagni a nuovi investimenti sulla qualità, abbandonando definitivamente il miraggio delle riforme a costo zero.

(...)

3. PROCESSI FORMATIVI
(pp. 94-175 del volume)
La numerazione delle tabelle e delle tavole riproduce quella del testo a stampa

 

Vecchi squilibri, nuovi scenari

L’avventura formativa 1998-‘99 sembra essere iniziata con alcune certezze (dal nuovo esame di Stato al nuovo modello di reclutamento del personale docente dell’università) ed un altro anno di sperimentazioni a tutto campo. Ma al di là degli aspetti istituzionali, problemi e potenzialità del nuovo sistema formativo appaiono ormai interpretabili più sulla base delle spinte dal basso che delle dinamiche istituzionali. Va ricordato che il sistema formativo vive una stagione di riforme, fortemente condizionato da una pesante eredità del passato.

C’è squilibrio: nel rapporto tra spese correnti ed in conto capitale, a causa della crescita abnorme del fattore personale; nel rapporto tra spese di funzionamento e risorse destinate al diritto allo studio, tra le più basse dei paesi europei; nella allocazione delle risorse tra i diversi cicli di istruzione; c’è squilibrio territoriale, con un mezzogiorno fortemente penalizzato sul piano delle infrastrutture educative e formative ed esposto ancora ai fenomeni di dispersione ed elusione dell’obbligo scolastico.

Ma se una eredità pesante non lascia spazio ad ottimismi sui tempi di una reale implementazione del complesso disegno di riforma, diverso atteggiamento meritano le nuove spinte dal basso che si manifestano all’interno ed all’esterno del sistema formativo.

Lo testimoniano: i segnali di vitalità del sistema nei confronti dell’autonomia, che sembra in grado di mobilitare e rimotivare il corpo docente e dirigente; la nuova domanda di diplomati universitari da parte delle imprese, a conferma di come, nel momento in cui si da’ corpo ad una reale integrazione tra sistema formativo e sistema produttivo, i risultati diventano visibili e concreti; la matura consapevolezza del corpo sociale, che sempre più attribuisce alla istruzione superiore il ruolo di strumento di emancipazione sociale e culturale; la propensione spontanea dei docenti alla utilizzazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; l’atteggiamento sempre più pragmatico e meno ideologico verso la parità scolastica.

Due diverse prospettive di lettura, dunque, legate tuttavia da un medesimo comune denominatore: l’urgenza di riportare al centro degli interessi sociali il tema della qualità della formazione nel nuovo scenario europeo.

Attese e incertezze della scuola dell’autonomia

Quasi il 70% delle scuole ha partecipato alla consultazione sull’autonomia promossa dal Mpi, la quale è diventata un’occasione per riflettere a tutto campo sul futuro del sistema scolastico (tab. 1).

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Il principio dell’autonomia sembra ormai essere ampiamente condiviso, nelle sue linee generali, da tutti i soggetti coinvolti nei processi scolastici, in quanto "naturale evoluzione positiva del sistema scolastico"; sulla scuola futura sono emerse forti attese, ma anche forti timori, nei riguardi delle nuove regole organizzative e gestionali: la redistribuzione delle responsabilità, il rapporto con l’utenza fondato su una maggiore definizione e corresponsabilità, il ripensamento della professionalità docente, la gestione delle risorse, il sistema di valutazione.

Vi sono però, tra i nodi critici individuati, dei fattori - che potrebbero influenzare in maniera significativa il successo dell’autonomia - determinati non tanto dalle caratteristiche e dai contenuti dell’articolazione regolamentativa quanto piuttosto dall’effettiva capacità e volontà da parte delle singole scuole di tradurre in pratica operativa ed in effettiva implementazione della qualità dell’offerta le nuove funzioni. E’ dal basso, e in primo luogo tra gli operatori scolastici, che devono essere rintracciate e implementate quelle forze, capacità, competenze che sole possono consentire la traduzione di un principio in una riforma culturale e professionale, in una modificazione profonda di comportamenti ed atteggiamenti.

In quest’ottica, presidi e direttori didattici sono chiamati ad assumere un ruolo fondamentale. E’ necessario, però, che la prevista attività formativa, loro rivolta, venga progettata tenendo in debito conto le distinzioni e le polarizzazioni che, allo stato attuale, contraddistinguono la categoria (tav.1), con l’obiettivo di raggiungere un modello di dirigenza scolastica omogeneo e condiviso. In particolare, è possibile distinguere:

1) gli "innovatori ad ampio raggio" (32,2%), che denotano una consapevolezza matura delle funzioni dirigenziali; E’ su questa tipologia di capi d’istituto che è necessario puntare per una disseminazione dei valori culturali propri dell’autonomia;

2) una vasta area, corrispondente ai moderati "a vocazionale gestionale" (25,4%) e a vocazione didattica (27,2%), rispetto alla quale appare necessario trovare una composizione armonica delle polarizzazioni verso la manageralizzazione estrema e verso l’esclusiva enfasi sulla didattica;

3) un nocciolo duro dei conservatori (15,2%) che dietro le perplessità nei confronti delle innovazioni derivanti dall’autonomia, celano forse il bisogno di una maggiore chiarezza delle modalità operative, di maggiori sicurezze, di una rete efficace di supporto.

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Dalla parità al diritto

La questione della parità divide profondamente l’opinione pubblica: infatti, mentre il 39,8% si mostra favorevole, un altro 39,5% è contrario ed il restante 20,7% si divide equamente tra atteggiamenti di incertezza o indifferenza sulla materia (tab. 3). Un paese diviso dunque su un tema che per decenni ha rappresentato un terreno di aspro confronto ideologico, politico ed istituzionale, ma con una sostanziale eterogeneità sociale delle opinioni (tab. 5).

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La quota di occupati, indipendenti e non occupati è sostanzialmente la stessa tra i favorevoli ed i contrari e analoga distribuzione assume il livello di istruzione. Tra gli incerti invece prevalgono i non occupati e i titoli di studio più bassi. Le differenziazioni appaiono più marcate rispetto al sesso (tra i maschi prevalgono i favorevoli, mentre tra le femmine l’orientamento si inverte), all’età (tra gli adulti 45-64 anni prevalgono i favorevoli, tra i 15-24enni i contrari sono il 47,7%), alla posizione familiare (tra i capofamiglia prevalgono i favorevoli, tra figli e coniugi sono più accentuati i giudizi negativi). Nel complesso, è possibile inoltre individuare due fattori discriminanti: la prossimità, che porta coloro che hanno vissuto o vivono più da vicino il rapporto con la scuola ad assumere un atteggiamento di difesa della scuola statale, ribadendo così i timori di chi ritiene che le scarse risorse disponibili vadano investite nel finanziamento dell’offerta educativa statale o comunque pubblica; i costi della scuola, che porta coloro che ritengono eccessivi gli attuali costi diretti ed indiretti dell’istruzione a preferire un modello in cui siano previsti finanziamenti alla scuola non statale, ribadendo cosi la funzione di tutela del diritto allo studio che il sistema non statale può garantire.

Sembrerebbe dunque che prevalgano nella pubblica opinione atteggiamenti pragmatici sul finanziamento della scuola privata, legati a valutazioni contingenti e funzionali alle caratteristiche dell’offerta educativa. Si pone quindi l’esigenza di affrontare il tema della parità in una prospettiva nuova, molto più legata ai fabbisogni educativi della società, ripensando anche il dibattito giuridico nella prospettiva di una estensione delle forme del diritto allo studio.

Il volontarismo tecnologico degli insegnanti

La scuola italiana cambia volto. Personal computer, postazioni multimediali, reti intranet, connessioni telematiche, linee di trasmissione dati veloci, si diffondono in ogni ordine e grado scolastico, conquistano spazi, creano nuovi ambienti.

La trasformazione dell’ambiente scolastico e del modo di fare didattica non appare però frutto di una programmazione organizzata, quanto piuttosto di un processo spontaneo, sul cui sviluppo pesa soprattutto un deficit di investimenti sia sul piano delle dotazioni tecnologiche che su quello della formazione delle risorse umane.

Nonostante il deficit di risorse pubbliche, il sistema scuola presenta comunque, nel suo complesso, un grado di diffusione e utilizzazione delle tecnologie multimediali nell’attività didattica non irrilevante: il 79,2% dei docenti (tab. 8) dispone a scuola di un laboratorio di informatica dotato di computer, il 31,9% segnala che la scuola è connessa ad Internet, mentre il 22,7% indica l’esistenza di un sito web di istituto. I computer si affacciano anche all’interno delle classi, come rivela il 6,2% dei docenti.

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C’è, però, ancora, molta strada da fare, in particolare nella scuola dell’obbligo, per dotare ogni istituto di un parco computer adeguato alle necessità. Il 35,6 % di docenti considera, infatti, ancora insufficiente la dotazione di Pc, mentre il 9,7% (23,5% alle elementari) segnala addirittura l’assenza nel proprio istituto di computer (tab. 9).

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Il ritardo del sistema scolastico rispetto all’introduzione delle nuove tecnologie e con esse delle nuove metodologie didattiche si misura dal numero di docenti che utilizza usualmente il computer nell’attività didattica (27%) mentre solo il 10% sfrutta regolarmente le potenzialità educative delle tecnologie multimediali (tab. 10). Questi valori sono nettamente inferiori rispetto alla percentuale di docenti che ha a disposizione un computer nell’aula informatica della propria scuola.

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Occorre quindi moltiplicare gli sforzi sul piano dell’acquisizione di dotazioni e, al tempo stesso, potenziare anche gli interventi formativi sui docenti. Se si guarda, infatti, ai giudizi degli insegnanti riguardo ai principali ostacoli alla sperimentazione delle nuove tecnologie nella didattica, risulta che il 63% degli intervistati (con punte del 69% nelle elementari) indica l’assenza di aggiornamento come il problema principale (tab. 11).

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I docenti sembrano dunque aver compreso pienamente le potenzialità della rivoluzione tecnologica in campo educativo ma faticano a trovare gli strumenti necessari a tradurre professionalmente tale convinzione.

L’università lontana

La concezione puramente strumentale della laurea sembra essere oggi una realtà superata: il valore della laurea, per gli italiani, consiste principalmente nel fatto che essa fornisce una buona preparazione culturale e professionale (72,8%) e solo un italiano su 4 (27,2%) sottolinea l’importanza del titolo di studio in quanto tale. Più in generale, è opinione diffusa (77,7%) che l’arricchimento culturale costituisca uno strumento indispensabile per proporsi e muoversi nella società attuale (tab. 15).

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Ma a fronte di atteggiamenti tipici di una società "matura", che fa suo il concetto di redditività differita dell’investimento formativo e sottolinea il valore "sostanziale" e non "legale" del titolo di studio, il sistema universitario appare ancora per diversi aspetti lontano dal rispondere alle esigenze dei diversi soggetti che compongono la domanda sociale di istruzione superiore.

E’ in primo luogo una università lontana, per certi versi, dai suoi stessi studenti (tab. 17): se infatti gli studenti universitari non mettono in discussione la competenza professionale e l’aggiornamento dei docenti (73%), più critici appaiono rispetto a "capacità e metodi di insegnamento adeguati" (39,6%) e a "capacità di equa valutazione degli studenti" (27,3%). Pochi sono i casi in cui lo studente riscontra nel docente una adeguata disponibilità di tempo nei suoi confronti (19,9%), la capacità di stimolare interesse (17,3%) o attenzione e partecipazione ai problemi degli studenti (11,3%). Ne consegue che la frequenza delle lezioni è utile più per socializzare con i propri colleghi (82,1%) che per stabilire contatti con i professori (39,8%), più per apprendere "contenuti" piuttosto che una metodologia di studio (20,7%), più, in un ottica strumentale di corto respiro, per superare gli esami che per apprendere metodologie e tecniche di lavoro professionale (14,3%).

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D’altro canto, l’università non sembra neanche disporre di strutture adeguate ed efficaci strumenti di supporto alla didattica e al diritto allo studio. Orientamento e diritto allo studio evidenziano ancora, nonostante le innovazioni apportate, un carattere marginale nelle politiche universitarie (tab. 18): in particolare, l’istituto del tutorato sembra essere rimasto ancora sulla carta, considerato che l’88,4% degli universitari non l’ha mai utilizzato ed il 49% non è nemmeno a conoscenza della sua esistenza.

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L’integrazione come obiettivo strutturale

Lo sviluppo di iniziative di integrazione tra i sistemi formativi rappresenta un fattore di rafforzamento dell’offerta formativa soprattutto se tali esperienze vengono realizzate in accordo con i sistemi locali di impresa.

I diplomi universitari, facendo dello stage un punto qualificante del proprio curriculum, costruito spesso in accordo con le associazioni imprenditoriali vedono infatti premiato il loro orientamento alle esigenze delle imprese, con una forte crescita della domanda di lavoro: la rilevazione Excelsior, sottolinea come il diploma universitario, con un tasso di entrata previsto pari al 53%, costituisca uno dei titoli più appetibili dal mercato del lavoro (tab. 22).

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Fin ora la fonte principale di finanziamento delle esperienze di integrazione e di progettazione formativa concertata (sistemi formativi e sistema produttivo) è stato il Fondo sociale europeo ed anche il futuro assetto del sistema formativo integrato si baserà necessariamente sull’efficacia ed efficienza del Fse e sul suo effettivo riorientamento strategico all’integrazione, condiviso da tutti i soggetti istituzionali coinvolti.

In quest’ottica l’obiettivo dell’integrazione rappresenta un vero e proprio obiettivo strutturale, che deve indirizzare la nuova stagione di interventi.

Esso infatti tende ad agire su due diverse aree di innovazione: quella relativa alla qualificazione dell’offerta formativa professionalizzante orientando sempre più il sistema a rispondere alle esigenze del mercato del lavoro; quella relativa allo sviluppo della domanda di lavoro qualificato stimolando le imprese ad un raccordo continuo e sistematico con il sistema formativo.

Inoltre, tanto più lo scenario futuro sarà caratterizzato da processi di integrazione di risorse e percorsi formativi, come pure da processi di compartecipazione decisionale e programmatica, quanto più è ipotizzabile il raggiungimento di livelli d’uso ottimale delle risorse, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi. Infatti, per quanto riguarda l’efficacia e l’efficienza del Fse è necessario sottolineare che, sebbene siano stati compiuti nell’ultimo anno sforzi notevoli per garantire una massima utilizzazione delle risorse disponibili, restano tuttavia numerose lacune (tab. 23).

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La lenta valorizzazione del capitale umano

Nei prossimi due anni, secondo i risultati della recente indagine Excelsior a cura dell’Unioncamere, sono previste, nel sistema produttivo (ad esclusione del settore primario, della pubblica amministrazione e delle organizzazioni associative), circa 739.000 assunzioni, con un saldo positivo netto, rispetto alle uscite, di circa 259.000 unità. Si tratta di un risultato incoraggiante, se si pensa che la precedente rilevazione ipotizzava una crescita di circa 56.000 addetti.

Tuttavia, è opportuno soffermarsi sugli aspetti qualitativi della domanda di lavoro e cioè sui processi di valorizzazione del capitale umano. Questi ultimi sembrano costituire, infatti, uno dei punti di maggiore debolezza del nostro paese, considerato che oltre la metà delle suddette assunzioni saranno riservate a profili professionali per i quali è sufficiente aver adempiuto all’obbligo scolastico (tab. 26). Si conferma, dunque, l’urgenza di sostenere politiche di incentivazione degli investimenti sul capitale umano.

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Una debolezza che emerge in modo inequivocabile, analizzando nello specifico la domanda di lavoro dei servizi. Una misura di quelli che dovrebbero essere i fabbisogni espressi da un settore terziario evoluto è fornita dal confronto con altri paesi europei in merito alla quota di occupati nei servizi, con titolo di istruzione secondaria superiore (tab. 28).

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Anche se in presenza di sistemi di istruzione e formazione non perfettamente omologabili, appare evidente che nel nostro paese la quota di diplomati è mediamente inferiore, in quasi tutti i comparti. L’equivalenza tra investimento in capitale umano e sviluppo settoriale propone l’ipotesi di una insufficiente propensione all’innovazione di processo e di prodotto, anche in un settore chiave nelle dinamiche economiche dei prossimi anni, che dovrebbe fungere da traino per tutto il sistema imprenditoriale.

Un’ultima riflessione merita la domanda di lavoro giovanile, pari al 30% del totale delle assunzioni, se si considerano i giovani al di sotto dei 25 anni, e che sale al 69% per coloro che hanno fino a 35 anni di età.

Indubbiamente, il dato quantitativo appare incoraggiante, ma è evidente il rischio di una sottoutilizzazione delle risorse umane giovanili disponibili.

Nel 1998, il tasso di diploma dei 19enni ha raggiunto quota 68%, con un incremento di circa 30 punti percentuali rispetto al 1975; le forze di lavoro giovanili, sia occupate che inoccupate, detengono oggi livelli di istruzione che mai nel nostro paese erano stati raggiunti. A fronte di ciò si scopre che l’interesse maggiore da parte delle imprese è rivolto proprio a quella componente dell’universo giovanile non scolarizzata. Infatti, circa il 46% delle nuove assunzioni di giovani al di sotto dei 35 anni riguarda profili per i quali è sufficiente l’aver frequentato la scuola dell’obbligo.

Senz’altro il processo avviato di riqualificazione dell’offerta formativa va rafforzato e portato a termine: il fatto che, per il 58% dei diplomati e per il 68% dei laureati, le aziende prevedano una ulteriore formazione (tab. 30) sottolinea l’urgenza di una maggiore attenzione alla qualità dell’output formativo.

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4. LAVORO, PROFESSIONALITÀ, RAPPRESENTANZE

5. IL SISTEMA DI WELFARE

6. TERRITORIO E RETI

7. I SOGGETTI ECONOMICI DELLO SVILUPPO "

8. GOVERNO PUBBLICO

9. COMUNICAZIONE E CULTURA