VII COMMISSIONE
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE
(Seduta di mercoledì 19 gennaio 2000)

INDAGINE CONOSCITIVA
sul problema della dispersione scolastica

INDICE

  1. Indagine sulla dispersione scolastica
  2. Principali dati statistici di riferimento
  3. Le cause della dispersione
  4. Le strategie possibili
  5. Proposte e suggerimenti
  6. Conclusioni

 

1) INDAGINE SULLA DISPERSIONE SCOLASTICA

Nel dicembre del 1998 è stato istituito nell'ambito della VII Commissione della Camera dei deputati un Comitato di indagine sulla dispersione scolastica. La proposta di dar vita a questo organismo era nata nei mesi precedenti, stimolata dal dibattito in cui la stessa VII Commissione era da tempo impegnata. Innalzamento dell'obbligo scolastico, riforma dei cicli, formazione professionale, erano stati a lungo oggetto di confronto e di discussione serrata. In particolare si era enucleato gradualmente un interrogativo di grande rilievo: se le riforme che il Parlamento si apprestava a varare fossero utili a spingere effettivamente verso l'alto i livelli di partecipazione al sistema formativo-scolastico o potessero contenere controindicazioni rispetto a bisogni e attese degli studenti e delle loro famiglie.

Ci si chiedeva in particolare su quale situazione di abbandoni e di insuccessi le riforme si sarebbero innestate, proprio al fine di meglio valutarne l'impatto e le implicazioni concrete. Di più: si voleva comprendere come altre riforme (ad esempio, soprattutto, l'autonomia scolastica) potessero contribuire a offrire nuove opportunità proprio per contenere insuccessi e abbandoni.

Il Parlamento disponeva già di una relazione svolta sull'argomento nel 1991 da un’analoga Commissione del Senato. Ma si trattava di una relazione in gran parte quantitativa, non corredata - stando almeno agli atti - da visite "sul campo", e comunque precedente al pieno manifestarsi di forme qualitativamente nuove di abbandono, come quelle sperimentate in alcune delle zone più ricche del Paese (il nord-est soprattutto), a smentita della teoria consolidata che la dispersione scolastica fosse figlia esclusiva di povertà e di emarginazione dallo sviluppo.

Tutte le forze politiche presenti nella VII Commissione hanno sostenuto con convinzione l'idea che l'istituzione di un tale organismo di indagine avrebbe potuto fornire utili elementi al prosieguo dei lavori parlamentari. E in tutte si è espressa anche, dall'inizio, la persuasione che, al di là della positiva interferenza con l'attività legislativa in corso, l'indagine avrebbe potuto aiutare a individuare terreni utili di intervento proprio per contrastare il fenomeno della dispersione.

Persuasione, questa, in linea con il ridimensionamento dell’identificazione - piena, automatica e necessitata - tra contesto esterno sfavorevole e tassi alti di insuccesso scolastico.
La Commissione ha dunque operato svolgendo audizioni con esponenti di istituzioni, enti, centri di ricerca, esperti. E ha compiuto cinque missioni per visitare, in base ai criteri di scelta precisati più avanti, altrettanti contesti locali ritenuti di interesse primario per le proprie finalità. Di durata inizialmente prevista di sei mesi, la Commissione ha chiesto due successive proroghe: una dalla fine di giugno alla fine di settembre a causa dell'accavallarsi di altre urgenze parlamentari che in primavera hanno rallentato l'iter previsto delle audizioni e delle missioni; e una seconda proroga dalla fine di settembre alla fine di novembre per la difficoltà logistica di organizzare convenientemente le due residue missioni nei giorni di apertura dell'anno scolastico (apertura prevista peraltro proprio per l'ultima decade di settembre in una delle due sedi da visitare, quella di Palermo).

La presente relazione ricapitola e riorganizza i rilievi raccolti dalla Commissione, connettendo tra loro i dati, le informazioni e le valutazioni raccolti nelle differenti sedi; tenta di inquadrarli nel complesso di informazioni statistiche disponibili e pertinenti con l'argomento affrontato; e produce infine alcune proposte che si ritengono utili per intervenire, anche per via legislativa, sul problema affrontato.

2) PRINCIPALI DATI STATISTICI DI RIFERIMENTO

Qual è lo sfondo storico, sociale, internazionale, che aiuta a dimensionare e anche a interpretare con più precisione il fenomeno che è stato oggetto dell'indagine parlamentare ?

Si presentano qui di seguito alcuni dati che aiutano a delineare un "sistema di informazioni di base". Si tratta di cifre che hanno fonti e ufficialità diverse. Talora provengono da rilevazioni riferite all'universo trattato (tutta la scuola dell'obbligo, quell'ordine di scuola specifico, ecc.). Altre volte provengono da rilevazioni operate su campioni statisticamente rappresentativi dello stesso universo. In qualche caso esse presentano anche divergenze, credibilmente dovute alle metodologie impiegate e ai consueti "effetti di complicazione" prodotti da variabili legislative, organizzative o comportamentali (si pensi ai cosiddetti "rientri"). Sostanzialmente esse però concordano in modo significativo nel fornire un consistente gruppo di informazioni primarie, a volte sottovalutate nei loro effetti o nel loro stesso significato per la ragione che ormai fanno parte a pieno titolo delle ovvietà culturali del sistema. Proviamo a riassumerne alcune:

la crescita impetuosa della scolarizzazione della società italiana nel secondo dopoguerra; va sempre ricordato che il rapporto tra i licenziati della scuola media inferiore e i tredicenni iscritti a scuola nell'anno precedente è passato, dal 1950-'51 a oggi, da valori appena superiori al 10 per cento a valori del 100 per cento (su cui influisce certo l'effetto "rientro");

la forte riduzione che si è parallelamente verificata nel grado di selettività della stessa scuola; da un rapporto licenziati/esaminati pari all'80 circa per cento nella scuola media inferiore nel 50-'51 si è passati, oggi, a un rapporto superiore al 99 per cento; mentre per la scuola superiore questa percentuale è passata, nello stesso periodo, dal 70 per cento circa al 94 per cento;

il permanere, nonostante questo, di una ragguardevole distanza tra il grado di scolarizzazione espresso dalle classi più giovani di età in Italia e quello espresso dalle classi omologhe nei più avanzati paesi occidentali, con l'eccezione, dopo il confine dei 16 anni, del Regno Unito;

la compressione dei tassi di dispersione nella scuola dell'obbligo, con la riduzione tendenziale a zero dell'evasione ufficiale in numerose aree del Paese, ma il perdurare, per contro, di tassi significativi in particolari aree regionali e metropolitane;

la fatica con cui vaste aree del Paese (specie le regioni meridionali) hanno aderito all'innalzamento dell'obbligo scolastico e soprattutto alle sue finalità; la percentuale della popolazione compresa tra i 15 e i 18 anni priva di licenza media era, in occasione dell'ultimo censimento, ancora vicina al 10 per cento, con punte superiori al 15 per cento in Campania, Calabria e in Sicilia;

il modesto livello qualitativo medio dei processi di apprendimento che si realizzano nella scuola media inferiore, testimoniato dal dato, ormai ben noto, di un 45 per cento circa di diplomati che ne escono con la qualifica minima di "sufficiente";

il permanere, comunque, di rilevanti tassi di dispersione nella scuola superiore, in particolare all'interno di alcuni indirizzi, fra cui soprattutto quello dell'istruzione professionale, che registra ancora oggi – con tutte le cautele statistiche adottabili e al netto dei diplomati del terzo anno – una dispersione complessiva superiore a un terzo di tutta la popolazione scolastica relativa;

il manifestarsi di un forte divario medio tra la dispersione che interessa la popolazione femminile e quella che interessa la popolazione maschile, essendo in molti casi quest'ultima di dimensioni quasi doppie della prima;

il ruolo preponderante giocato dal titolo di studio dei genitori nel determinare le disuguaglianze delle chances di successo degli alunni.

Tabelle [OMISSIS]

3) LE CAUSE DELLA DISPERSIONE

LE VARIABILI ESOGENE

La ricerca sulla dispersione scolastica ha consegnato al pubblico più attento una copiosa letteratura sul problema: trend storici, analisi delle cause, correlazioni statistiche, ipotesi interpretative teoriche più generali dei rapporti tra scuola e società, tra modelli di socializzazione o apprendimento e culture dominanti, tra disuguaglianze degli esiti scolastici e forme della stratificazione sociale.
Non è compito di questa relazione richiamare quel complesso e variegato materiale statistico e teorico. Esso sta sicuramente sullo sfondo delle riflessioni e anche delle scelte concrete dei responsabili, dei testimoni e degli operatori di vario grado con i quali la Commissione è entrata in contatto. E dunque può essere considerato come il grande background in buona parte condiviso a partire dal quale - passando per l'indispensabile arricchimento dell'esperienza diretta - si sviluppano le osservazioni, i suggerimenti, le valutazioni ai quali si farà riferimento in questa sede.
La variabile di fondo, quella che esercita una maggiore influenza sui fenomeni di cui ci stiamo occupando, è naturalmente quella che presenta una più spiccata dimensione "macro", ossia il grado dello sviluppo socio-economico delle aree interessate. Le possibilità di reddito, la disponibilità di infrastrutture (trasporti, biblioteche, comunicazioni), l'assenza di impellenze o bisogni economici, sono, insieme con altri strettamente correlati, i fattori che discriminano in modo più immediato. Anche le aree sviluppate presentano in realtà le loro sacche di emarginazione e di povertà. Nel corso di un'audizione è stato anzi autorevolmente ricordato come la linea di questa discriminazione non corra più automaticamente e linearmente - ad esempio - tra le regioni del nord e quelle del sud; e come in forma più tortuosa e complicata corra invece tra le varie aree di una regione, tra i territori delle metropoli. Tanto che le grandi metropoli del nord, pur inserite in contesti socio-economici più benestanti, presentano un loro rilevante potenziale di dispersione.

La combinazione sottosviluppo (o povertà) + degrado ambientale urbano (metropolitano) sembra essere in definitiva quella che in assoluto produce la maggiore spinta ad anticipare l'uscita dal sistema scolastico-formativo. Dovendo indicare il punto più debole del sistema, lo si può quindi cogliere nei quartieri emarginati e poveri delle metropoli del meridione. I dati di Napoli e Palermo, ma anche di Catania e Bari, testimoniano che è lì che la dispersione presenta le sue punte più alte e più difficilmente domabili. Sono queste le situazioni in cui la dispersione si presenta nella sua forma più grave di evasione di fatto, ossia come inadempienza dell'obbligo scolastico.

Rilevante è però anche, in questa direzione, il peso esercitato dalle culture familiari. Specialmente il ministro per le pari opportunità Laura Balbo, rimandando a importanti ricerche svolte in Italia e in Francia, ha voluto sottolineare il rilievo di questa causa, introducendo nei lavori e nelle riflessioni della Commissione il concetto di "patrimonio culturale". Quest'ultimo continuerebbe, nonostante tutte le politiche sociali realizzate, a operare da forte discrimine tra gli alunni, indirizzandone modelli di socializzazione e definendone le capacità effettive di apprendimento. Anzi, ha suggerito il ministro, vi è la possibilità concreta che, davanti ai mutamenti profondi indotti dalla diffusione delle nuove tecnologie, i patrimoni culturali a disposizione dei singoli bambini e ragazzi contribuiranno ad approfondire le disuguaglianze. Nella stessa direzione vanno i dati richiamati dal rappresentante dell'Isfol, che suggeriscono, ai fini della dispersione, un'importanza del titolo di studio dei genitori maggiore del reddito familiare.

Le culture familiari valgono peraltro anche per meglio comprendere le forme nuove di dispersione considerate dalla Commissione, ossia quelle registrate nel nord-est di fronte alla vitalità dei locali sistemi e subsistemi economico-produttivi. Qui la dispersione dimostra di potersi radicare in un contesto ad alto sviluppo economico. Va però notato che, diversamente che nelle metropoli meridionali, nel caso del nord-est essa non si configura come evasione, la quale ultima è anzi quasi inesistente. Avviene invece nelle scuole superiori, esprimendo quindi una tipologia di dispersione da crescita economica. E tuttavia vi è una particolarità di questo contesto che va sottolineata. Ed è la natura attuale e recente di questa crescita, la quale si trascrive in una sorta di incongruenza di status collettiva: ossia in una distanza tra il livello del reddito mediamente acquisito sull'onda di una crescita poderosa e il livello della cultura posseduto mediamente dalle generazioni adulte. Le aree alle quali ci riferiamo sono state totalmente all'interno dei processi di trasformazione del Paese (da cui un'evasione tendente a zero); ma hanno elaborato una cultura del lavoro - legata anche alla dimensione familiare e che è fra l'altro all'origine dei successi economici ottenuti - che non di rado respinge l'idea dell'utilità del titolo di studio superiore per affermarsi nella vita lavorativa o la sua irrilevanza rispetto ai propri progetti occupazionali. Sicché non si è diffuso, come nelle aree di più lungo sviluppo, il convincimento che l'alto livello della formazione sia la prima risorsa, individuale e collettiva, dell'economia moderna.
È stato dunque riferito in audizione, ma è anche stato osservato direttamente sul campo, come le culture familiari informate a questo atteggiamento pesino nell'incoraggiare un fenomeno che non è certo esclusivo di queste aree ma che in queste aree si esprime in forme e condizioni sicuramente atipiche e che desta qualche preoccupata riflessione. Diverso è in proposito il caso del Trentino, dove l'uscita anticipata dal sistema scolastico pare correlabile anche con il funzionamento di un efficiente (e credibile) canale di formazione professionale regionale.
Accanto a questi grandi fattori esterni al sistema scolastico ve ne sono altri, spesso a loro collegati. La Commissione ha, per esempio, avuto modo di apprezzare il ruolo giocato dalla presenza e dalla qualità delle infrastrutture. In particolare il problema, con riferimento alle difficoltà incontrate dai ragazzi pendolari, è stato sollevato in Sardegna, dove è visibilmente correlato con le condizioni di precarietà economica delle province interessate. Ma è stato sollevato anche in una provincia come Belluno, che ricade appunto nel paradigma del nord-est ma che presenta anche una zona montuosa caratterizzata da una pluralità di piccoli insediamenti dispersi. Vi sono poi i problemi legati alle biografie degli alunni, specie a quelle familiari, su cui però continuano a pesare in misura decisiva i fattori socio-economici-culturali già ricordati. Si pensi ai casi (citati anche in provincia di Milano) di bambini o ragazzi le cui famiglie siano emigrate o abbiano tentato per qualche mese l'emigrazione. Si pensi anche alle situazioni di divisione familiare, sempre e comunque più difficili e penose negli ambienti più poveri (è stato citato a Napoli il caso di una madre impossibilitata a uscire di casa per ragioni economiche, con tutto il carico di conflittualità domestica conseguente).

E vi sono infine i grandi orientamenti culturali dominanti, i quali assegnano valori mutevoli ai diversi obiettivi che un ragazzo può darsi, e che interagiscono con le culture familiari: in una fase storica sancendo il valore dell'istruzione o della lotta all'analfabetismo, in un'altra quello del denaro. Ed è sicuro (come ha osservato una esponente sindacale) che in una fase storica caratterizzata dal manifestarsi delle cosiddette forme di "povertà immateriale", lo stimolo a innalzare i livelli di educazione e istruzione si scontri con forti condizionamenti negativi.

L'istituzione scolastica si trova insomma situata in un crocevia mobile, ed è costretta a fronteggiare spinte e dinamiche, talora ostili, che hanno in gran parte radici al suo esterno, nella stessa società che essa è deputata a educare e istruire.

LE VARIABILI ENDOGENE

Rigettare solo verso l'esterno le responsabilità della dispersione sarebbe tuttavia assolutamente improprio. La stessa indagine conoscitiva ha preso d'altronde le mosse da un convincimento contrario. Vi sono cioè disfunzioni, vischiosità e fattori ostili che operano all'interno del sistema scolastico-formativo e che in misura relativamente autonoma producono le condizioni della dispersione. In proposito appare anzi opportuno riprendere in questa sede una considerazione proposta alla Commissione dal professor Giuseppe Magno, responsabile dell'Ufficio centrale per la giustizia minorile del Ministero di Grazia e giustizia. Riflettendo sulla devianza giovanile e sui suoi collegamenti con l'area della dispersione, il professor Magno ha citato i risultati di estremo interesse di una ricerca condotta su un campione di minori sottoposti a procedimento penale nella Puglia meridionale. E ha spiegato che all'origine della devianza non vi è mai una sola causa, mentre invece occorre, perché essa si manifesti, una combinazione di cause (statisticamente: una media di 1,95 cause). Ebbene, sembra di potere sostenere, in base a quanto appreso nell'ambito dell'indagine, che questo principio valga anche per spiegare la dispersione presa a sé stante. Ed è in questa luce che acquistano un'importanza tanto maggiore le cause endogene, sulle quali occorre lavorare, dunque, proprio per ridurre al minimo - nelle situazioni date - il rischio che scatti la combinazione decisiva.

Ci si è soffermati, nel corso delle audizioni, sul rapporto scuola-famiglia; sulla necessità che l'istituzione sappia anche acquisire una mentalità che potremmo definire "pro-attiva" verso le famiglie più lontane ed estranee, per creare già nella famiglia un clima più favorevole alla frequenza scolastica dell'alunno.

Si è fatto riferimento alla qualità dei percorsi didattici, troppo rigidi rispetto agli interessi e agli stimoli più spontanei dei bambini e dei ragazzi; alla necessità di aprirli di più anche alle realizzazioni pratiche (il "saper fare") e a metodologie di apprendimento cooperativo; di arricchirli in strumentazioni tecnologiche o di potenziarli in vista dei problemi di comunicazione linguistica prodotti dalla nuova realtà degli scolari immigrati.

Si è sottolineato, e numerose volte, il problema della complessiva organizzazione e articolazione degli studi superiori e della opportunità di rafforzare la famosa "seconda gamba" della formazione, ossia la formazione professionale. In questo quadro è stato osservato che un'elevata affidabilità della formazione professionale ridurrebbe le cifre generali della dispersione, se si intende con questo termine la fuoriuscita dal complessivo sistema formativo. E in proposito è stato pure fatto notare come - oggi - la stessa formazione professionale, specie (e in apparenza paradossalmente) nei suoi percorsi più brevi, presenti tassi alti e patologici di abbandono.
Si è insistito unanimemente (e se ne è trovata conferma chiarissima nel corso delle missioni) sull'importanza di offrire agli alunni un quadro di stabilità e di continuità. Il che ha riflessi sia sulla struttura dei cicli formativi (imputata: soprattutto la discontinuità tra scuola elementare e scuola media) sia sui criteri di reclutamento, mobilità e assegnazione del personale docente, troppo instabile nel suo rapporto con la popolazione scolastica.

L'indagine ha riscontrato anche un punto di discussione forse inaspettato allorché si è misurata con la rilevanza dei modelli di leadership offerti dall'istituzione scolastica. È stato cioè sollevato il problema delle possibili implicazioni della femminilizzazione del corpo docente. La questione - non pacifica ma stimolante -può essere posta così: è possibile che la maggiore dispersione maschile possa derivare anche dal fatto che i modelli di leadership più attrattivi per gli alunni "marginali" sono - per ragioni culturali e psicologiche - i modelli maschili, ossia quelli meno facilmente reperibili all'interno dell'istituzione scuola ?

Qualche riflessione in più è stata resa possibile soprattutto dalla visita napoletana.

Il ruolo dell'insegnante di educazione fisica nella creazione dello spirito di gruppo in grado di alzare (attraverso la competizione sportiva) l'identificazione con la scuola, la funzione supplente nei confronti della (inesistente) figura paterna svolta in alcuni casi dall'insegnante maschio, hanno indotto a tornare con curiosità sul problema, in genere non ricompreso negli schemi delle concause endogene.

Altri elementi di riflessione sono giunti dai riferimenti alle situazioni di "debolezza" interna in cui possono venirsi a trovare gli alunni. Che l'alunno più debole socialmente e culturalmente sia il più esposto alle spinte dispersive, questo è consolidato nelle analisi condotte nella più tipica letteratura. Vale però la pena indicare due casi che presentano una loro specificità. La prima è quella degli alunni disabili, rimarcata in particolare nell'incontro tenuto dai componenti della Commissione al Centro di formazione professionale di Pieve Emanuele, in provincia di Milano. Si tratta di una categoria di alunni che fondamentali conquiste sociali hanno fatto entrare in vasta misura all'interno del sistema scolastico. Ma che ha bisogno forse più di tutte, per non scontare un'elevata dispersione, dell'attivazione di un forte canale di formazione professionale alternativo a quello scolastico.

La seconda specificità, assolutamente nuova e carica di implicazioni, è quella degli alunni più deboli sotto il profilo della capacità di "auto-difesa" di fronte a quella che può essere chiamata l'intimidazione ambientale. Ci si riferisce a contesti nei quali si verifichi con continuità incontrastata la presenza di gruppi, di minori o no, interni o esterni alla scuola, dediti ad attività violente e dotati di un elevato potenziale di intimidazione (rapportato ovviamente all'età degli alunni). Qui si segnala il rischio che i bambini e ragazzi più timidi, e che per ragioni di varia natura possono meno contare sulla protezione e sull'aiuto dei propri familiari, siano costretti a vivere la scuola come un luogo "a rischio", dove si presenti alla fine la scelta tra la condivisione dei valori "di banda" e il ridimensionamento passivo della partecipazione o della motivazione scolastica. Il fenomeno del bullismo o del teppismo scolastico costituisce insomma un nuovo avversario, che si situa ai confini dell'istituzione. Non il "deviante" classico che esce gradualmente dalla scuola ma, in alternativa o insieme con lui, la vittima del deviante. Sul bullismo si trovano cenni, arricchiti di riferimenti internazionali, nella già citata audizione del professor Magno, ma dei suoi esiti imprevisti si trovano tracce concrete negli episodi giunti all'attenzione dei componenti della Commissione attraverso le cronache quotidiane, da Milano come da Napoli, da Bari come da Genova.

È dunque con l'occhio e l'attenzione rivolti a questo vasto, eterogeneo insieme di possibili cause di dispersione, che l'indagine parlamentare si è arricchita del confronto con le esperienze concrete di cinque province considerate significative. Per cercare di cogliere - di tali cause - la rilevanza empirica, le molteplici combinazioni, la differente dislocazione sul territorio nazionale; e anche e soprattutto per verificare quali siano le strategie utili e realisticamente possibili per rimuoverne o ridurne gli effetti.

4) LE STRATEGIE POSSIBILI. ANALISI DI CASO

Quali sono le condizioni che agevolano l'elaborazione e la realizzazione di efficaci strategie contro la dispersione scolastica ? Quali sono, cioè, i fattori di successo ? E quali i vincoli, i limiti, maggiormente ostativi ? Sono, queste, domande importanti per chi voglia o abbia - come la Commissione - anche il compito di fornire indicazioni o suggerimenti sia al legislatore sia all'azione di governo su questo piano cruciale del funzionamento del sistema scolastico-formativo.

La Commissione ha cercato risposte a queste domande anche attraverso l'osservazione di alcuni "casi" distribuiti sul territorio nazionale. I casi analizzati, necessariamente limitati per ragioni di tempo e di organizzazione dei lavori, sono stati cinque: l'area sud-est della provincia di Milano, Napoli, Cagliari, Palermo, Belluno. Si tratta di casi eterogenei, tutti di grande interesse per le finalità della Commissione. Si sono cioè individuate aree che per ragioni diverse presentano, anche in momenti diversi della carriera scolastica, alti fenomeni di dispersione e nelle quali sono state segnalate esperienze diversificate di contrasto dell'insuccesso. In particolare l'area sud-est del milanese (Pieve Emanuele, Rozzano) presenta i tipici aspetti di una vasta area periferica, di hinterland, cresciuta a ridosso di un forte polo di sviluppo, con fenomeni migratori recenti e in atto di cospicue dimensioni. Napoli e Palermo presentano invece le caratteristiche delle grandi metropoli meridionali, gonfie di marginalità urbana, di culture estranee o ostili alle istituzioni, di semianalfabetismo. Cagliari è stata scelta per la consapevolezza dell'esistenza di una specificità sarda che si fonde con gli aspetti sociali e urbani già ricordati. Belluno, infine, è stata prescelta come caso paradigmatico di quelle aree nord-orientali nelle quali le prospettive esterne del mercato del lavoro drenano con facilità dalla scuola superiore forza-lavoro minorile.
La diversità delle situazioni osservate ha fatto sì che l'attenzione diretta della Commissione, pur senza mai trascurare il quadro di insieme, si concentrasse su gradi diversi del sistema scolastico. Nei primi quattro casi essa si è concentrata infatti sulla scuola dell'obbligo, dove l'evasione dallo stesso tocca (o rischia continuamente di toccare) valori rilevanti; e dove dunque le strategie più interessanti sono pensate per essere rivolte agli alunni delle scuole elementari e medie inferiori. Nel quinto caso, dove quasi inesistente è l'evasione dall'obbligo, è stata invece l'istruzione superiore a rappresentare un particolare e nuovo teatro di strategie anti-dispersione e, ovviamente, a essere oggetto privilegiato di attenzione.

La pluralità delle situazioni osservate, ancora, fa sì che emergano fattori di successo e vincoli differenti, o almeno fattori e vincoli differentemente combinati o situabili in un mutevole ordine di importanza empirica. Sarà compito dell'ultima parte di questa relazione mettere a frutto le indicazioni emerse, componendole in un più generale schema di analisi e proposte.

1) IL CASO DELL'HINTERLAND MILANESE

L'area sud-est di Milano è area di immigrazione massiccia e relativamente recente, in cui è possibile cogliere, attraverso più indicatori, una stratificazione delle ondate migratorie susseguitesi dagli anni sessanta a oggi. Il processo di urbanizzazione del territorio è avanzato soprattutto negli ultimi tre decenni, inglobando migliaia di nuove famiglie giovani provenienti dalle regioni meridionali e, negli ultimi anni, anche una consistente immigrazione straniera. La vicinanza alla metropoli, la morfologia disordinata degli insediamenti abitativi - che porta i segni della velocità delle trasformazioni avvenute - la mescolanza dei retroterra sociali e culturali, la presenza di forme di marginalità e di devianza, tutto ciò contribuisce a creare per le istituzioni scolastiche primarie una situazione di "sofferenza" e l'identificazione di problemi e risposte di sicuro interesse per la Commissione.

I comuni osservati sono quelli di Pieve Emanuele e di Rozzano. La scuola elementare di Pieve Emanuele ha spiegato fra l'altro immediatamente, in una manciata di minuti, alcune ragioni aggiuntive di tali sofferenze. Dall'esterno l'edificio funereo, tetro, ha indicato il tipo di ambiente che i piccoli alunni devono abituarsi a identificare con l'esperienza scolastica già dal suo inizio. All'interno la notizia che la scuola è senza uno stabile direttore da venticinque anni, a causa di un turn-over senza fine di reggenti pronti a partire a fine anno, ha subito proiettato dal suo canto scenari di incertezza, di continuità impossibile, di assenza di punti di riferimento compatibili con il tempo di un progetto. La situazione non appare paragonabile a quella poi riscontrata in altre visite della Commissione. Anche se la direttrice ha raccontato della recente presenza di topi in mensa e perfino in direzione, il tessuto civile circostante è apparso vitale e partecipato. Lo dimostra il fatto che gli alunni riconoscevano il sindaco e il vicesindaco in visita, salutandoli spesso con proprietà. Viene data importanza in questo caso alla formazione degli insegnanti (si accede ad appositi finanziamenti) e allo sviluppo di attività che accompagnino l'apprendimento delle materie con il rafforzamento delle relazioni sociali. Si tratta di un obiettivo che viene reso ancor più necessario in un luogo dove può capitare che figli di detenuti si trovino in classe con figli di guardie carcerarie, essendo il carcere milanese di Opera (con la sua folla di addetti e operatori) a poca distanza dal comune di Pieve. Laboratorio artigianale, attività teatrali (sulla rivoluzione francese), vengono considerati modi di costruzione di identità, di senso del lavoro di gruppo e di ampliamento del linguaggio. Stessa strategia viene impiegata nella scuola media, dove decine di alunni vengono fatti lavorare anche alla redazione di un giornalino ("Il Birbantino"), pur se viene fatto ironicamente notare che a volte, nel fiorire di queste attività, resta sempre qualcuno a cui bisognerebbe insegnare anzitutto a fare la propria firma.

Alle elementari di Rozzano il primo dei problemi sollevati ha di nuovo riguardato l'organizzazione del servizio scolastico: nel caso in questione ben quindici insegnanti sono risultati mancanti all'inizio dell'anno. Si tratta di una manchevolezza che risulta particolarmente grave in un ambiente dove, come è stato spiegato ai componenti della Commissione, "il primo obiettivo nei primi tre mesi d'inferno è stato garantire la disciplina". La precarietà estrema del posto dei supplenti non li motiva certo a confrontarsi in una logica impegnativa con i problemi socio-culturali che gravano sugli alunni, alcuni dei quali subiscono fra l'altro il peso di situazioni familiari faticose: non solo i guai giudiziari (i figli dei detenuti si considerano "cugini"), ma anche la necessità di accudire fratellini più piccoli, il pendolarismo di entrambi i genitori ecc. Tra l'altro, data appunto la vicinanza di Milano, i genitori più motivati e socialmente più evoluti tendono a valutare negativamente il clima scolastico e sono tentati di trasferire i figli in altre scuole, con il rischio di imprimere per sempre lo stigma della ghettizzazione sulla scuola stessa.

Quest'ultima, pur nelle condizioni descritte, ha approntato un programma di intervento mirante (con successo) a costruire anzitutto un più forte senso di comunità; obiettivo tanto più importante quanto più l'unico luogo di auto-identificazione ideale e sociale è stata a lungo per molte famiglie la "casa propria" al sud. Ed è stato proprio per raggiungere questo obiettivo che un gruppo di docenti ha fatto la scelta di rimanere a Rozzano e garantire la necessaria stabilità.

Sempre a Rozzano la Commissione ha poi visitato la Scuola media "Luini", impegnata in un significativo "progetto autonomia", scelto tra i cento progetti più interessanti a livello nazionale da Legambiente. Nell'ambito di questo progetto si è affermato l'orientamento verso l'individualizzazione dell'offerta formativa come strada utile a contenere le forme di disaffezione e insuccesso. Orientamento che deve misurarsi, in realtà, con un diffuso atteggiamento di delega da parte delle famiglie, riflesso anche nel modo "strumentale" con cui viene spesso vissuto il tempo prolungato. Per consolidare il rapporto tra l'alunno, i suoi interessi e la scuola, sono stati varati anche i progetti "piscina" e "teatro". Negli ultimi quattro anni la scuola, per effetto di questi interventi e di questa nuova consapevolezza, ha visto scendere il tasso di dispersione e ha significativamente circoscritto gli episodi di vandalismo, letti come manifestazioni di ribellione fisica verso la scuola e verso le sue attrezzature.

I problemi delle scuole dell'obbligo in tutta l'area considerata sono peraltro destinati ad accentuarsi nei prossimi anni a causa dell'accesso delle nuove generazioni di immigrati.

Al di là del caso dei bambini nomadi, per i quali sono previste particolari modalità di integrazione, molta attenzione viene riservata alle forme in cui potranno interagire nella scuola futura bambini di etnie diverse. In tal senso è stata di grande utilità la visita alla scuola materna "Gulliver", che sta sviluppando un progetto multiculturale che è apparso ai componenti della Commissione di straordinario interesse. Dalla didattica più classica (un cartellone su "come parlano gli animali" preparato in tutte le lingue di origine dei piccoli alunni) alle forme di intrattenimento (una tombola interculturale), i bambini vengono integrati in un ambiente accogliente e ricco di relazioni, capace di affrontare i problemi posti dalle stesse specificità culturali delle singole etnie. Problemi che nascono anche dagli aspetti meno preventivati: ad esempio il rapporto corporeo con i coreani, l'iper-deferenza delle mamme giapponesi, ecc.

Proprio in considerazione dei fattori presenti e potenziali di disagio o di difficoltà, e anche delle positive esperienze acquisite, sono stati numerosi i riferimenti alla necessità di una più forte integrazione del lavoro delle singole istituzioni. È stata sottolineata la grande utilità delle attività e iniziative condotte in comune con Asl ed enti locali. E, soprattutto nel corso del convegno pomeridiano organizzato con gli operatori, è stato anche sottolineato il rischio della solitudine di un insegnante costretto a intervenire senza le giuste sponde istituzionali e professionali, dal medico allo psicologo al magistrato.

Nel complesso l'area sud-est di Milano si è dunque posta sia come rivelatrice dei problemi (generali e specifici) che si possono presentare in un polo metropolitano ad alto sviluppo, sia come anticipatrice delle risposte possibili in alcuni particolari, nuovi settori di intervento.

2) IL CASO DI NAPOLI

L'esperienza napoletana rappresenta in forma particolarmente acuta le patologie connesse alle grandi conurbazioni. Sicché essa si candida a importante pietra di paragone per lo studio delle condizioni esterne che vengono complessivamente a pesare non solo sul raggiungimento ma ancor prima sulla ridefinizione delle finalità della scuola in grandi contesti metropolitani segnati da diffuse sacche di arretratezza.

A Napoli, come poi anche a Palermo, la Commissione ha registrato l'emergenza prioritaria del problema della legalità. La popolazione delle scuole osservate e i quartieri di provenienza si pongono come vincolo a partire dal quale tutto o quasi viene ridefinito. La scuola svolge cioè una autentica funzione di supplenza e talora di contrasto rispetto alle culture di appartenenza dei ragazzi; fenomeno che in tutti i casi considerati è stato indicato esplicitamente da presidi e insegnanti o è apparso attraverso i segni quotidiani dell'attività scolastica.

Spesso sono stati ricordati gli ambienti familiari dei ragazzi più "difficili": "tre zii uccisi", "sorella di una ragazza ferita", "una quindicenne che ha partorito due mesi fa, la madre è in carcere, un fratello piccolo da accudire, un fratello ventunenne tossicodipendente", "cugino in carcere e zio alcolista", "figlio di un pluricondannato per omicidio". Si è aggiunto che i ragazzi hanno non di rado un figlio a sedici-diciassette anni, che nelle famiglie non conoscono il contraccettivo e che di fatto gli alunni "spesso non hanno il papà, il loro papà è l'insegnante maschio". Nella scuola media "Pasquale Scura" dei Quartieri spagnoli sono frequentanti i figli di tutti i boss locali. Un ragazzo ha tirato complessivamente trenta banchi giù dalla finestra, ma in questa situazione, è stato detto, "siamo felici che qui la violenza sia contro le cose". La sala computer è difesa da un'inferriata per paura di furti, ma la difesa non è ancora considerata sufficiente, tanto da chiedere al Comune un dispositivo d'allarme. Nella scuola "Vittorio Emanuele" si ricorda in bacheca "che offese o oltraggi al personale sono puniti dal codice penale". La scuola professionale di Ponticelli sorge accanto al Rio De Gasperi, dove la popolazione in massa ha impedito di recente l'ingresso della polizia.

In una situazione dove, come è stato detto, "serve l'etnologo" per misurarsi efficacemente con la struttura resistente dei pregiudizi e delle convenzioni culturali, la scuola punta a garantire i requisiti di base a partire dai quali è possibile costruire il processo di apprendimento. Guardando a questo obiettivo, il processo di apprendimento diventa dunque duplice; a volte distinguendo la fase propedeutica (il rispetto dei diritti, la consapevolezza dei bisogni) da quella successiva, altre volte intrecciandole. La situazione è sembrata particolarmente meritevole di attenzione nell'esperienza della media "Scura", dove l'evasione effettiva oscilla intorno al 35 per cento. La scuola ha approntato un complesso di iniziative che disegnano, nel loro insieme, proprio una strategia volta a costituire le precondizioni di base della attività scolastica. È stato così predisposto un intervento mirato sulle famiglie. Non sulle famiglie in generale, visto che il senso di estraneità verso la scuola appartiene alla loro maggioranza. Si lamenta infatti che i genitori non riescono in genere a reggere le richieste di coinvolgimento psicologico; e che anzi la reazione dominante alle richieste di giustificazione delle assenze è di fastidio e irritazione verso la scuola. O che gli stessi genitori evitano di dare alla scuola i numeri telefonici di casa, preferendo comunicare o i numeri dei vicini o quelli dei propri cellulari.

Sono state così coinvolte alcune decine di madri più sensibili, quasi tutte molto giovani, in un corso legato a un progetto europeo. Il coinvolgimento, che si sostanzia anche nella collaborazione allo svolgimento di attività estive (importanti per non interrompere il rapporto con la scuola), si conclude per alcune di loro anche con il conseguimento di un titolo di studio. Sono esse comunque che svolgono in gran parte l'attività di mediazione culturale con le famiglie.
Un'altra strada seguita è quella espressa dal "progetto Chance", che punta al recupero di alcune decine di evasori totali scelti tra i ragazzi di età fra i tredici e i quindici anni. Si interviene su di loro (con risultati importanti, più della metà riavviati alla formazione professionale) con l'obiettivo di costruire una significativa capacità di ascolto e di attenzione, con l'obiettivo di renderla superiore, almeno al mattino, alle due ore. Si tratta di un progetto al quale partecipano altre scuole (compresa la seconda scuola media visitata) attraverso la figura dei maestri di strada.
Infine la scuola partecipa al progetto "Fratello maggiore", che fa perno su un vicino istituto tecnico, il quale prevede una azione di tutoraggio da parte dei ragazzi più grandi della stessa scuola, che condividono con i propri compagni anche una parte delle ore extrascolastiche. Come nel primo caso con le madri, si tenta cioè di stabilire ponti culturali più larghi verso gli alunni (stavolta a partire dai "pari"). Si tratta però di uno strumento che presenta qualche problema in più rispetto al precedente. Le differenze di classe sociale possono infatti comunque ingenerare delle incongruenze proprio sul piano della "parità" (un tutor si è presentato alla Commissione dopo aver baciato la mano alla preside e dicendo dei suoi compagni "questi ragazzi sono la parte più bella del quartiere").

I risultati di questo articolato complesso di interventi appaiono di grande interesse, anche se allo stato essi riescono a contenere e non certo ad annullare una dispersione potenzialmente altissima.

In generale quello che sembra emergere dall'esperienza napoletana è la necessità di costruire una nuova personalità, un nuovo statuto deontologico, nell'alunno. E in tal senso sono utili tutte le attività (anche quelle sportive agonistiche) che rafforzino l'identità e il senso di appartenenza alla scuola. Ma soprattutto è importante che l'insegnante che svolge questa delicatissima opera di promozione umana-civile sia vissuto dall'alunno come riferimento stabile, perché solo la stabilità gli conferisce - agli occhi del ragazzo - affidabilità, forza affettiva, o anche il carisma che egli deve sapere esercitare svolgendo in più circostanze il ruolo del capo, del leader riconosciuto di un gruppo. Il tema della stabilità è stato sollevato in tutte le sedi, ricordando anche il carattere particolare del rapporto tra scuola e quartiere ("quando il loro professore va per i vicoli, i ragazzini formano dietro di lui un codazzo"). Così come è stata ripetutamente sottolineata l'esigenza che il lavoro della scuola venga inserito in una robusta rete inter-istituzionale. Tale rete, sembra di poter dire, nel caso di Napoli funziona in modo soddisfacente pur se con lacune rese comprensibili dallo stesso contesto (ad esempio i servizi sociali "super-intasati"). E anche questo aiuta a spiegare i risultati raggiunti in singoli istituti - come il professionale di Ponticelli - nei quali l'attività svolta sui ragazzi che hanno superato i meccanismi di esclusione della scuola dell'obbligo ha dato ottimi risultati. La qualità e la formazione del corpo docente, i finanziamenti del fondo sociale europeo e, appunto, il sostegno della rete inter-istituzionale hanno portato i tassi di abbandono del primo quadrimestre al 2 per cento partendo da percentuali quattro volte superiori. Anche qui, va detto però, è stato necessario abbandonare il programma curriculare (sul quale - si spiega - sarebbe impossibile andare avanti) ridisegnando programmi e metodologie.

3) IL CASO DI CAGLIARI

L'esperienza cagliaritana mette in luce alcune preoccupanti caratteristiche di fondo del rapporto tra scuola e società in Sardegna. L'isola presenta infatti tassi complessivi di dispersione e di insuccesso particolarmente elevati, sia in ragione di una più diffusa estraneità culturale verso la stessa istituzione scolastica sia in ragione di un complesso di vincoli logistici (distanze e collegamenti) in grado di pesare negativamente sulla partecipazione degli alunni, tanto più se residenti in contesti rurali emarginati.

La visita della Commissione ha consentito inoltre di verificare due dati generalizzabili alla situazione dell'intera provincia: l'assenza di un tessuto di imprese al quale guardare per promuovere positivi rapporti tra scuola e mercato del lavoro e l'insufficiente livello di collaborazione tra le varie istituzioni sul tema specifico della dispersione.

La missione ha portato a contatto diretto con tre differenti realtà: due scuole medie e un istituto professionale alberghiero. La prima, in particolare, si riferisce a Uta, piccolo comune rurale caratterizzato da elevata disoccupazione e da un basso grado di istruzione, tra i più svantaggiati di tutta l'area. In questa situazione è stata lamentata l'assoluta episodicità dei riferimenti istituzionali: cinque assessori all'istruzione in sei anni fino alla mancanza dello stesso assessore, instabilità degli interlocutori, condizioni ripetute di emergenza anche di fronte ai piccoli problemi quotidiani (la serranda rotta o il prato da falciare), rapporti episodici anche con altre agenzie (Centro polivalente, ora privo anche del pedagogista), collegamento positivo solo con la Comunità montana. Se a ciò si somma l'atteggiamento di piena delega coltivato dalle famiglie, si comprende bene come la scuola si trovi assolutamente sola di fronte a tassi di dispersione oscillanti tra il 12 e il 25 per cento e che non riguardano solo gli alunni non frequentanti.

Quali strategie ha elaborato il corpo docente in una situazione tanto precaria? Si tratta di strategie "povere", centrate in gran parte sull'autovalorizzazione dei docenti: aggiornamento (anche sulla devianza); sviluppo di nuove metodologie, favorite dalla realizzazione dell'autonomia; promozione della didattica di laboratorio (pur senza il bancone da laboratorio, sostituito dai normali banchi), agevolata dall'istituto della copresenza. Nei confronti degli alunni si è invece puntato a privilegiare un "apprendimento cooperativo" attraverso il lavoro per piccoli gruppi e a valorizzare la "diversità delle intelligenze", ossia a definire percorsi di crescita degli alunni di tipo personale. Quest'ultima strategia naturalmente non può essere totalmente realizzata a scapito dell'acquisizione di uno standard di conoscenze di base. E proprio per trovare il punto di equilibrio tra le due esigenze è stato posto il problema della definizione dei "saperi minimi". I risultati sono talvolta di interesse, come ad esempio la costruzione di un ipertesto. Ma lo scontro con le condizioni esterne viene ritenuto molto difficile. A questo proposito è stato fra l'altro segnalato come la dispersione sia un fatto prevalentemente correlato alla identità socio-culturale degli alunni, verso i quali non viene svolta alcuna attività di attrazione da parte del lavoro minorile ("qui non lavorano neanche gli adulti"). Al massimo, viene rilevato, i ragazzi vengono impiegati in attività agricole nell'orto o nei campi, secondo le usanze della società contadina (significativamente, nell'atrio della scuola si viene accolti da una statua dedicata al portatore di carciofi, realizzata dai ragazzi con l'insegnante di educazione artistica).

La seconda scuola media visitata si trova invece nel centro storico di Cagliari e risente della eterogeneità degli insediamenti abitativi gravitanti su di essa. Ha una popolazione scolastica composta in parte da figli di impiegati e commercianti in parte da figli di pescatori, disoccupati e immigrati. I livelli di dispersione sono elevati, nella sede centrale più che nella succursale: 13 per cento nelle prime classi (con un decremento di cinque punti circa negli ultimi anni) e 24 per cento nelle terze (sostanzialmente stabile). In una terza i componenti della Commissione hanno rilevato la presenza di sei alunni su quattordici non ammessi agli esami di licenza media.

In questo caso la composizione a due facce della popolazione scolastica produce per riflesso quasi una scuola bifronte. Da un lato vengono realizzate iniziative di avanguardia: dai lavori di legno ad attività o progetti sulla droga e sull'ambiente (sviluppo sostenibile) o sulla cittadinanza europea; dai collegamenti via satellite alla formazione a distanza; dalla seconda lingua all'informatica, al teatro, alla gastronomia o all'educazione sanitaria. Dall'altro lato pesa l'esistenza di un sostrato di famiglie disagiate, l'analfabetismo di ritorno del centro storico, la scarsa collaborazione delle famiglie, propense a non credere ai comportamenti asociali o turbolenti dei propri ragazzi. È significativo in proposito che da un anno sia stata adottata una équipe medica per mediare i conflitti tra corpo docente e alunni.

È in questo quadro che si realizza una divaricazione dei modelli di partecipazione scolastica, che alla Commissione non è apparsa oggetto di adeguata valutazione in sede di scenari di intervento. I pluriripetenti di prima diventano difficilmente recuperabili anche per via dell'imbarazzo che essi provano nei confronti di bambini più piccoli. Eppure il lavoro compiuto per rimediare a precedenti esperienze precarie ha dato i suoi frutti appunto nell'anno del passaggio da un grado di istruzione a quello superiore. Si deve ritenere dunque che vi sia un trascinamento della precarietà che si manifesta con le cifre (ragguardevoli e stabili) della dispersione dell'ultimo anno.

Gli ostacoli maggiori all'elaborazione e alla realizzazione di efficaci strategie anti-dispersione sono stati indicati dalla preside in un deficit di formazione degli insegnanti, poco dotati di una preparazione non curriculare e poco abituati a misurarsi con le cosiddette classi difficili. Da questo discenderebbe anche la insufficiente predisposizione di percorsi individualizzati segnalati come risposta necessaria alla situazione ambientale.

La visita all'istituto professionale alberghiero ha dal suo canto consentito di rilevare le potenzialità di motivazione insite in un indirizzo dotato di buone opportunità di sbocco (essendo esso l'unico istituto della provincia di Cagliari). Ha altresì proposto l'importanza del fattore pendolarismo, il quale costituisce comunque un limite alla partecipazione anche nei contesti mediamente più motivati. Diversa la situazione di altri istituti professionali, con ripetenze-insuccessi oscillanti tra il 30 e il 50 per cento nel primo biennio; cifre, queste, che risultano fra l'altro contenute grazie al fenomeno cosiddetto delle "promozioni per disperazione" cui ricorrono, extrema ratio, gli insegnanti. Proprio in questo caso è stato segnalato come gravino sulle possibilità di successo numerosi fattori: non solo i retroterra familiari difficili ma anche la scarsa utilità percepita del titolo di studio, accentuata dal fatto che la realtà economica circostante non consente agli allievi di questi istituti i "tirocinii professionali", rendendo davvero labile o addirittura invisibile ogni prospettiva lavorativa futura.

Di grande interesse è stato comunque il dibattito che si è aperto davanti alla Commissione nel corso di un incontro pubblico con gli operatori scolastici. Più interventi (il preside di un istituto tecnico, il coordinatore d'area di Carbonia, la coordinatrice d'area del Campidano) hanno sottolineato come i tassi di ripetenza non cambino sensibilmente passando da istituti ben serviti in collegamenti e strutture (turno unico, mense, spazi aperti) a istituti per definizione disagiati. Si è cioè affermata nell'ambito della discussione una forte corrente interpretativa volta a privilegiare, nella gerarchia delle responsabilità, i fattori socio-economici, quelli culturali (il disagio esistenziale), l'instabilità del corpo docente (qualcuno ha parlato perfino di "turismo scolastico"), e la mancanza di una rete inter-istituzionale - dalla sovrintendenza ai servizi sociali del comune al Tribunale dei minori - capace di operare come "sistema" proprio sul piano della dispersione.

In tal senso è sembrata anche andare la riflessione autocritica degli assessori comunale e provinciale, i quali hanno ammesso, in un successivo incontro con le autorità cagliaritane, sia la concentrazione quasi esclusiva degli sforzi della pubblica amministrazione sul terreno delle strutture e dell'edilizia scolastica sia la mancanza di un coordinamento delle azioni rivolte ad aumentare il successo scolastico (come è stato causticamente rilevato, una "dispersione degli interventi anti-dispersione").

4) IL CASO DI PALERMO

L'esperienza di Palermo presenta le caratteristiche tipiche di una situazione tipica di avversità ambientale. Marginalità urbana, sottosviluppo economico e sociale, precarietà estrema dei redditi di gran parte delle famiglie, basso grado di istruzione e basse motivazioni verso la carriera scolastica dei figli, pressione della criminalità organizzata sia sul piano culturale sia sul piano delle prospettive economiche: tutto questo si condensa negli ambienti nei quali operano le scuole visitate dalla Commissione, entrambe ricomprese nel ciclo dell'obbligo. Si tratta, più precisamente, della scuola elementare di Borgo Nuovo, nella nuova periferia, e della scuola media "Antonio Ugo" del centro storico.

Data la diversità dei problemi evidenziati nei due ordini di scuola, conviene indicare separatamente le difficoltà e le strategie anti-abbandono enunciate dal corpo docente nei casi osservati. Nella scuola elementare sono stati isolati due problemi in particolare: quello della qualità dell'apprendimento e quello della saltuarietà delle frequenze. In tutti e due - fra l'altro collegati - si esprime il retroterra sociale degli alunni. L'apprendimento si dimostra fragile, superficiale, carico delle tare culturali familiari, se promosso con i criteri tradizionali di insegnamento e di socializzazione. La saltuarietà delle frequenze si dimostra a sua volta un ostacolo strutturale alla riuscita di strategie innovative, data l'interruzione che provoca nella "catena dell'apprendimento" comunque ripensata. La scuola punta dunque a creare le precondizioni di un apprendimento di qualità, prefiggendosi di ovviare alle lacune di motivazione, di identità, di organizzazione mentale esistenti nella famiglia di origine. Il complesso delle sue finalità viene così riformulato a partire dalla situazione che essa deve concretamente affrontare. Si cerca di sviluppare ogni aspetto positivo della personalità dell'alunno, dalla capacità di espressione alla disposizione a lavorare in gruppo, dallo sviluppo della sensibilità alla percezione della propria identità urbana e di quartiere.
In una classe terza si è assistito alla creazione del clima musicale idoneo a fare esprimere l'autonomia e la creatività dei movimenti degli alunni (anche dei portatori di handicap) e a farli avvicinare a una definizione appropriata di alcuni concetti, in particolare nel campo delle emozioni. In una classe quarta gli alunni erano impegnati invece nell'immaginazione di un loro cammino nella città attraverso l'uso di una mappa stradale. Lavoro utile a dare loro le coordinate della loro esistenza in città, non solo perché, è stato spiegato, una parte di loro, pur abitando in una città di mare, non ha mai visto il mare, ma anche perché lo stesso quartiere di Borgo Nuovo in cui vivono non risulta nello stradario di Palermo, quasi sancendo la loro esclusione dal tessuto urbano. In una classe quinta infine si è potuto assistere allo svolgimento di una prova collettiva di espressione artistico-musicale, attraverso la quale si perseguono insieme gli obiettivi (concettualmente distanti) del rafforzamento delle precondizioni e dell'affinamento dell'apprendimento. Se dunque i componenti della Commissione hanno appreso con una certa curiosità che i fondi europei antidispersione sono stati anche impiegati per comprare tamburi, essi hanno però constatato che l'esperienza musicale diventa il veicolo per promuovere l'autoproduzione di testi. E che il rapporto tra musica e immaginazione viene utilizzato, nelle prove pratiche, per introdurre l'alunno a una comprensione sofisticata del linguaggio (ad esempio la differenza tra "metafora" e "similitudine"). L'identificazione con la scuola viene cercata anche promuovendo progetti di lavoro estivo dentro la scuola, come la pittura dei muri interni.

È stata comunque sottolineata alla Commissione l'importanza che un lavoro così delicato possa contare sulla stabilità degli apporti più pregiati espressi dalla funzione docente. Nella scuola visitata tale importanza è accentuata dalla forte presenza di bambini disabili (per una convenzione con l'ex istituto dei sordi), che esalta naturalmente il ruolo degli insegnanti di sostegno, lì considerati carismatici e capaci di produrre atmosfere particolari. Ma certo il quadro descritto, soprattutto se si pensa alla difficoltà di allacciare rapporti di fiducia con famiglie in partenza demotivate, spiega la necessità che il sistema formativo possa contare - più che mai in queste situazioni - sia su una apprezzabile certezza dei riferimenti umani e professionali sia su criteri di sostituzione e di reclutamento differenti da quelli burocratici delle graduatorie dei provveditorati.

La visita alla scuola media "Antonio Ugo" ha evidenziato un'altra serie di problemi. Anzitutto il concreto manifestarsi della tendenza all'abbandono, con radici nella formazione infantile, e che ancora nel '92-'93 si esprimeva in un tasso complessivo di dispersione scolastica pari al 24 per cento. Il secondo è la necessità di intervenire sul delicatissimo periodo adolescenziale per contrastare le forti tendenze, esistenti all'esterno della scuola, a promuovere culture conniventi con l'illegalità o addirittura aderenti alle organizzazioni criminali.

Ne discende un'impostazione del lavoro del tutto peculiare. Anche qui assume un'importanza centrale il riferimento al quartiere di appartenenza, per coltivare attraverso il suo simbolo monumentale-architettonico (la Zisa) un senso di identità culturale e un elementare gusto artistico. Questi due ultimi obiettivi vengono anche perseguiti con sperimentazioni teatrali, in particolare lavorando a spettacoli autoprodotti del teatrino dei pupi. Film inglesi con sottotitoli e laboratori di ceramica congiungono gli orizzonti europei con gli orizzonti più vicini dell'artigianato di quartiere. Gli strumenti tecnici e disciplinari vengono utilizzati in forma altamente integrata nel corpo di progetti che hanno spesso valenze immediatamente di educazione civile e alla legalità, garantendo così un uso non separato e astratto dei saperi e delle tecnologie (di notevole qualità è apparso un lavoro multimediale sulla storia della mafia).

A rafforzare l'identificazione con la scuola provvedono anche il suo uso pomeridiano (due volte a settimana l'aula magna, intitolata a una vittima della mafia, funge da discoteca) e la realizzazione di attività cooperative interne alla scuola (ad esempio il servizio di merenda), oltre che la partecipazione - come scuola - a diverse iniziative antimafia. Campeggiano nell'aula magna alcuni segni di questa attività: uno striscione "da Corleone portiamo i colori della speranza", un disegno con la piovra "difendiamo la Costituzione". Il clima educativo diventa al tempo stesso competitivo con le spinte esterne e attraente per il ragazzo. "Molti di loro", commenta un'insegnante, "solo qui sono guardati come persone".

Il risultato di questo lavoro è l'abbassamento drastico del tasso complessivo di dispersione: dal 24 al 2 per cento nel giro di sei anni.

All'origine di questo straordinario successo stanno alcuni fattori che è bene isolare concettualmente:

una elevata disponibilità alla progettazione e al lavoro di gruppo da parte degli insegnanti oltre che la loro qualità professionale;

una elevata disponibilità di mezzi economici, che ha consentito l'acquisizione di tutti gli strumenti utili a supportare le strategie di intervento del corpo docente, disponibilità dovuta a una scelta "politica" dell'amministrazione comunale e alla possibilità di avvalersi di fondi regionali stanziati ad hoc;

una forte rete interistituzionale, al cui successo concorrono sia la attiva presenza dell'amministrazione comunale su questo fronte, sia l'impegno del provveditorato attraverso un efficiente Osservatorio permanente, sia il complesso dei servizi psico-pedagogici.

Si tratta di una caratteristica che (grazie anche al coinvolgimento del Tribunale dei minori e di altre istituzioni) segna positivamente l'esperienza palermitana. I componenti della Commissione ritengono anzi che proprio questa caratteristica, questa visione "di sistema" dell'intervento stia all'origine dei risultati raggiunti, sia pur se in forma e misura diversa, dalla città nel suo insieme. Certo questi risultati, come è stato segnalato, aprono a loro volta nuovi problemi. Nel senso che, ad esempio, il mantenimento dentro la scuola di un 20 per cento circa di alunni che prima ne usciva, implica inevitabilmente un abbassamento medio del livello culturale della popolazione scolastica oltre che un sottodimensionamento del personale docente. Ma, al di là di questi pur rilevanti problemi, l'esperienza della città dimostra che cosa la scuola e le istituzioni possano fare (se motivate e dotate di mezzi e risorse professionali) anche di fronte a contesti socialmente e culturalmente assai impervii.

5) IL CASO DI BELLUNO

Il caso di Belluno è stato scelto dalla Commissione per le caratteristiche di novità che esso propone allo studio del fenomeno della dispersione. La provincia bellunese infatti si presta bene a rappresentare alcune delle principali dinamiche che hanno investito sul piano socio-economico l'area del nord-est: uno spiccato sviluppo della piccola impresa e della sua vocazione a uscire dal mercato interno, un sistema a rete di organizzazione della produzione, l'orientamento a una marcata specializzazione merceologica, una certa flessibilità della manodopera impiegata, la realizzazione di un benessere diffuso. In questo contesto le opportunità per i giovani e per i giovanissimi tendono naturalmente ad accentuarsi e a costituire un potente fattore di attrazione verso il mondo extrascolastico. Nel caso specifico della provincia, in cui spicca anche il centro di Feltre e che si distribuisce su un territorio in parte montuoso, le dinamiche socio-economiche su ricordate si esprimono in un forte sviluppo dell'industria dell'occhialeria e in una straordinaria diffusione dell'artigianato artistico e alimentare; come è stato ricordato alla Commissione, la sola provincia di Belluno conta più aziende artigianali impegnate nella gelateria di quante ne assommi l'intera Germania.

È in questo contesto che circa la metà dei ragazzi che si iscrivono alle elementari non raggiunge il diploma delle medie superiori. Il problema si presenta però con una duplice faccia. La prima è quella più tradizionalmente studiata. L'abbandono ha radici precoci, visto che il 48 per cento degli abbandoni risulta avere come precedente una bocciatura nella scuola dell'obbligo. La seconda è inedita: il fenomeno infatti non avviene solo perché il mercato del lavoro assorbe con più facilità i drop-out del sistema scolastico, ma - come è stato riferito dal preside dell'Istituto professionale - si registrano abbandoni anche tra i ragazzi promossi. Si ha qui insomma una tendenza (riscontrabile, è stato osservato, anche in province come Treviso e Vicenza) a uscire dalla scuola anche al di là dell'impatto con l'insuccesso scolastico. Lo stesso preside ha testimoniato infatti di ricevere dalle imprese della provincia, in certi periodi, una media di una richiesta di segnalazione di studente alla settimana.

Un docente dell'Istituto tecnico visitato ha parlato in proposito di "spinte centrifughe esercitate dal sistema" che obbliga a elaborare strategie anti-abbandono più complesse e comunque diverse da quelle elaborate in contesti economicamente sottosviluppati. In proposito si è segnalata la necessità di produrre ogni tipo di intervento volto a rafforzare lo status di studente, sia predisponendo ambiti di socializzazione più ampi e organici, sia aprendo la scuola "ai talenti dei ragazzi", ossia mettendoli in condizione di vivere la scuola come il luogo della realizzazione delle loro vocazioni più naturali (teatro, ecc.).

La personalizzazione del rapporto con lo studente da parte dell'insieme delle istituzioni è stato indicato come uno dei canali più utili al rafforzamento di tale status. L'idea proposta è che la scuola definisca un percorso trasparente del ragazzo, attraverso l'allestimento di una scheda personale dotata di ogni informazione sui suoi deficit formativi, che aiuti a superare le barriere tra i vari ordini di scuole ("i compartimenti stagni") e gli scarti pedagogici che si producono per effetto del cambiamento, definitivo o provvisorio, del docente. Piani di accoglienza e promozione del lavoro di gruppo tra docenti (anche in tensione con una esasperata accezione della "libertà d'insegnamento") sono stati indicati come fattori complementari di successo.

Certo non sono mancati i riferimenti al ruolo negativo che può essere esercitato dal cosiddetto "clima culturale" dominante nell'ambiente esterno. Gli stessi componenti della Commissione hanno avuto modo di percepirne alcune sfumature importanti nell'ambito della loro missione. È indubbio infatti che un'area di recente sviluppo sconti un grado di istruzione ancora mediamente basso nella generazione di appartenenza dei genitori degli attuali studenti di fine secolo. Ed è indubbio che questo fatto possa produrre una gerarchia di obiettivi e di valori in contraddizione con la spinta a completare il ciclo degli studi superiori. Sono state segnalate in proposito alcune cause di debolezza ambientale delle motivazioni allo studio. È stata citata l'insufficiente vitalità culturale della provincia, pur in presenza di biblioteche e stagioni teatrali; bassa vitalità legata anche al prosciugamento di larghe porzioni del territorio (nei comuni montani, proprio per effetto di questo fenomeno, i bambini hanno fra l'altro difficoltà a sperimentare il fondamentale concetto dei "pari"). È stato citato l'orientamento a ritenere che, in un contesto ad alta domanda di lavoro, la frequenza scolastica possa essere, al di là dell'obbligo, una forma di tempo perso; atteggiamento che nasce da una sottovalutazione delle qualità (polivalenza, cultura generale) richieste dall'economia contemporanea per consentire all'individuo di realizzare le proprie chances sull'intero arco della vita lavorativa.

La stessa scuola professionale, calata in questo clima culturale, sembra farsene condizionare. E questo curiosamente accade anche quando essa elabora interessanti strategie volte a "tenere" gli studenti a scuola attraverso una specializzazione degli indirizzi di studio più mirata, ossia più coerente con le richieste congiunturali del mercato del lavoro. È probabile che a favorire questa peculiarità culturale contribuisca comunque il fatto che agli indirizzi professionali pervenga mediamente una popolazione scolastica licenziata dalla scuola dell'obbligo con la qualifica di "sufficiente", e verso la quale può dunque essere ritenuto più difficile rivolgere messaggi centrati sul primato di una formazione generalistica.

Piuttosto è doveroso segnalare un fattore che gioca un ruolo in certa misura autonomo (e comunque non secondario in una prospettiva meramente utilitaristica) nel rendere appetibile lo spostamento dalla scuola alla fabbrica per gli allievi degli istituti professionali. I componenti della Commissione hanno dovuto trarre elementi di seria riflessione dalla valutazione corrente che per un ragazzo degli istituti professionali, specie se residente fuori città e soggetto al pendolarismo, la scuola possa risultare più pesante della fabbrica. La questione della pesantezza dell'esperienza scolastica è stata proposta anche da alcune rappresentanti degli studenti nell'incontro tenuto all'Istituto tecnico. Più precisamente essa è stata indicata come uno degli ostacoli principali proprio alla strategia della socializzazione ("ci sono troppe materie perché possa avere spazio") o come uno dei fattori di demotivazione ("mi alzo prima delle 6 e torno a casa alle 3 del pomeriggio con la corriera; a volte, poi c'è il ritorno al pomeriggio; quindi bisogna studiare; molti di noi vengono a scuola per forza, obbligati dai genitori, senza obiettivi").
In definitiva il caso bellunese propone alla scuola italiana un paradigma nuovo: quello secondo cui, in presenza di certe circostanze storiche e ambientali, il benessere diventa un limite anziché un impulso a un pieno sviluppo del grado di istruzione, con possibili ricadute future sulle stesse potenzialità economiche della zona.

5) PROPOSTE E SUGGERIMENTI

OBIETTIVO 18 ANNI

La Camera dei deputati ha recentemente affermato, in occasione della riforma sui cicli scolastici, la natura strategica dell'obiettivo di portare a diciotto anni l'età del "diritto allo studio". Si è cioè fissato il principio che, attraverso i due canali della formazione scolastica e della formazione professionale, sia quella l'età fino alla quale è giusto promuovere l'esperienza di studio di base dei giovani italiani. Si tratta di un'innovazione negli orientamenti di grandissima rilevanza, che nasce dalla consapevolezza dei ritardi (già visti in altro capitolo) accumulati dal nostro sistema formativo rispetto ai Paesi più avanzati. Lo spostamento dell'obbligo scolastico a quindici anni - previsto separatamente in altra legge ma che ora trova coerenza con l'impianto del progetto di legge di riforma dei cicli scolastici, attualmente all'esame del Senato - è la prima, difficile tappa verso il soddisfacimento di tale più esteso diritto. La sua applicazione comporterà purtroppo una serie di difficoltà di cui la Commissione ha già raccolto qualche testimonianza. A maggior ragione, come già previsto legislativamente, non potrà dunque esprimersi sotto forma di obbligo l'innalzamento della partecipazione ai processi formativi fino ai diciotto anni, la quale dovrà essere piuttosto il frutto di una grande e concertata azione del Governo, delle pubbliche autorità e della società civile nel suo insieme verso una meta di progresso. Una meta che si pone come fondamento di una crescita dei singoli e del Paese, il quale potrà contare su una cittadinanza più qualificata e su risorse più elevate per il proprio sviluppo economico. In tal senso l'esperienza compiuta dalla Commissione diventa importante perché mette a fuoco - almeno nella consapevolezza del Parlamento - le ragioni che già oggi ostano al raggiungimento di quell'obiettivo ambizioso. E indica quali sono o possono essere i piani di intervento per rimuovere le condizioni e i fattori ostativi che si collocano prevalentemente all'interno del mondo scolastico e formativo nel suo complesso. Enucleeremo dunque qui di seguito alcuni di questi piani (quelli che appaiono come principali), distinguendo quelli sui quali è più pertinente o esclusivo l'intervento del Governo o del Parlamento e quelli sui quali ha invece competenza orientativa la "scuola delle autonomie".

PER IL PARLAMENTO E PER IL GOVERNO

Formazione dei dirigenti e del personale scolastico

Più volte, e ovviamente, è stato sottolineato il ruolo che giocano nella lotta alla dispersione le risorse umane su cui il sistema formativo nel suo complesso può contare. Il tema è stato sollevato nelle audizioni svolte, ma con forza molto maggiore, e con ricchezza di riferimenti empirici, nel corso delle visite "sul campo". Allargamento e affinamento delle prospettive disciplinari e delle metodologie, abitudine allo svolgimento di funzioni pedagogiche più complesse (a volte anche nella semplificazione dei contenuti didattici da trasmettere), promozione di attività di controllo e di recupero da concertare con uno spettro di interlocutori ad ampio raggio: tutto ciò necessita di un diffuso e regolare impegno formativo al quale deve provvedere in gran parte il Ministero, in termini di politiche dirette e indirette, sia sul piano della programmazione generale sia sul piano dell'allestimento di sedi, occasioni, stimoli professionali.

Un tale impegno formativo va pensato sia con riferimento agli insegnanti sia con riferimento al corpo della dirigenza scolastica, la quale - ad avviso della Commissione - può svolgere, come si è notato, un ruolo di spinta e di propulsione di primissimo piano. In più, occorre valutare seriamente in una nuova prospettiva l'apporto che può venire alla realizzazione di questi obiettivi anche da quote del personale non docente, che vanno anch'esse coinvolte nello sviluppo di una migliore offerta di quello che potremmo chiamare "il contesto formativo".

Reclutamento del personale e incentivi

Soprattutto, di nuovo, le missioni sul campo hanno posto in modo assolutamente ineludibile la questione delle modalità del reclutamento del personale docente nelle situazioni più difficili, si potrebbe dire nelle situazioni "di trincea" del nostro sistema scolastico e formativo (si pensi all'esempio dei Quartieri spagnoli di Napoli). Là dove il confronto tra scuola e ambiente sociale e urbano si fa più drammatico, là dove l'utenza del servizio pubblico presenta caratteri tali da richiedere nel docente più alte doti umane e professionali, non è possibile, ed è comunque compromettente, procedere alla sostituzione dei docenti secondo pure logiche burocratiche di graduatoria. Come si è visto, infatti, già la sostituzione genera, di per sé, problemi rilevanti nel rapporto con gli alunni o una parte di essi. Ma questi vengono indebitamente accentuati se il nuovo docente non possiede requisiti formativi, curricula professionali (o anche di impegno extrascolastico) che possano garantire per una sua elevata capacità di successo nei contesti in cui sarà inserito.

In proposito sembra anche opportuno muovere una considerazione con riferimento alla questione degli incentivi che vengono proposti ai docenti impegnati nelle situazioni più problematiche. Si raccomanda infatti di non commisurare strettamente il riconoscimento degli incentivi al tasso ufficiale della dispersione, assunto come indicatore univoco del disagio da affrontare. Una tale scelta, infatti, potrebbe penalizzare paradossalmente gli insegnanti migliori, ossia quelli che (come nel caso della scuola media visitata a Palermo), abbattuto il tasso di dispersione grazie al proprio lavoro, debbano però poi fronteggiare tutte le difficoltà nuove implicite nell'allargamento della frequenza e tutte le difficoltà comunque persistenti proposte loro quotidianamente dall'ambiente esterno.

Incentivi di piano e verifica degli standard di intervento

Al di là degli incentivi da definire per i singoli insegnanti o dirigenti scolastici, appare però opportuno che venga promosso dal Ministero un costante monitoraggio delle aree e delle scuole nelle quali la realizzazione delle finalità dell'istituzione scolastica si rivela patologicamente difficile. E appare opportuno che vengano promossi per queste situazioni interventi mirati, ai quali assegnare un funzione in sé ma anche una funzione di stimolo e di "tonificante" verso la complessiva realtà esterna. Senza che venga meno la autonoma capacità delle singole scuole di proporsi meritoriamente come casi-pilota, si tratta di predisporre progetti in cui, semmai, questa capacità autonoma possa esaltarsi (si ricordi l'importanza che in esperienze positive ha rivelato la disponibilità di risorse finanziarie straordinarie); e di predisporre piani generali là dove i tassi di dispersione richiedano sforzi di "area", con il coinvolgimento di più istituzioni e autorità, e dove si manifesti l'urgenza di offrire stimoli e incentivi in presenza di situazioni precarie anche sul fronte della docenza.

In questo quadro, che suppone un ruolo più attivo del Ministero, capace di andare oltre la funzione (spesso di qualità) degli Osservatori istituiti presso i Provveditorati, si colloca naturalmente il problema di fissare dei flessibili standard di intervento; e, più ancora, di istituire forme di sostegno e di verifica del lavoro svolto legando la corresponsione dei benefici alla qualità delle realizzazioni, qualità che - almeno nel breve periodo - non può essere fatta coincidere meccanicamente e univocamente con il tasso di dispersione.

Forme e livelli dei coordinamenti interistituzionali

Quello del coordinamento tra le istituzioni è apparso nel corso delle audizioni e nel corso delle missioni uno dei temi maggiormente cruciali da affrontare nell'ambito di una coerente strategia anti-dispersione. L'incontro e la collaborazione tra scuola, provveditorati e suoi Osservatori, enti locali, aziende sanitarie, Tribunale e Procura dei minori, articolazioni speciali delle forze dell'ordine, e soprattutto la collaborazione tra le scuole di vario ordine e grado, sono stati ripetutamente indicati come fattore decisivo di riuscita o di insuccesso. Soprattutto nel caso palermitano l'elevato livello di collaborazione inter-istituzionale è apparso in tutta la sua importanza di variabile discriminante.

È stato anche chiesto (ad esempio nel dibattito cagliaritano) di procedere a una "normazione" di tali forme di coordinamento. Sembra alla Commissione che in realtà il coordinamento debba essere incoraggiato sotto forma di atteggiamento culturale e di responsabilità istituzionale attraverso l'allestimento di adeguate forme di riconoscimento e di gratificazione morale (convegni, campagne di opinione cittadine), non essendo possibile prevedere le forme e i livelli migliori e più utili in cui esso può avvenire nelle singole situazioni concretamente date. Si suggerisce però, come possibile e conveniente, la definizione per via normativa della forma minima di collaborazione, ad esempio attraverso la creazione di reti provinciali, istituzionalmente riconosciute, per la promozione del successo formativo.

Struttura degli orari

Tra le ragioni di dispersione, e prima ancora di indebolimento della partecipazione, la Commissione segnala la struttura e la dimensione dell'orario scolastico. Il problema, sulla scorta delle valutazioni ed esperienze acquisite, si pone soprattutto per gli istituti professionali. Tali istituti sono infatti quelli che ospitano, per le ragioni già accennate, la popolazione scolastica superiore mediamente meno motivata e meno sostenuta da adeguati retroterra familiari e sociali. Si può anzi dire che si sia consolidato nel tempo un complesso di circostanze che ha portato questi istituti ad assorbire la popolazione maggiormente "votata" all'insuccesso. A essa va dunque rivolto, nella prospettiva dell'innalzamento effettivo del diritto allo studio ai diciotto anni, uno sforzo progettuale di grande respiro e impegno. Ebbene, più volte (a Cagliari, a Belluno) è stato fatto notare l'effetto prodotto da un orario troppo esteso e troppo gravato in termini di carichi di apprendimento. Finisce cioè per essere un paradosso del nostro sistema che proprio chi mostra meno propensioni allo studio sia costretto all'orario di studio più pesante.
Ferme restando le prerogative di scelta derivanti alle scuole dall'autonomia, appare però urgente un ripensamento profondo dell'argomento anche in sede ministeriale.

Questo importante segmento dell'apparato formativo mostra infatti un debole orientamento a fornire agli studenti il grado di cultura generale che dà senso allo stesso imparare e fa da base per la futura - necessaria - polivalenza professionale; ma mostra anche un debole orientamento a rendere lo specifico sapere professionale (come è ben stato ricordato a Belluno) aderente alle dinamiche del mercato del lavoro. In questo contesto gli orari e le discipline vanno rimodulati o gli stessi interventi anti-dispersione rischiano di perdere efficacia e incisività.

Le risorse materiali

Se è vero che (come è stato in buona misura dimostrato dall'esperienza osservata nella scuola elementare di Napoli o a Pieve Emanuele) un corpo insegnante di grande livello e dedizione può comunque svolgere una importante funzione nel ridurre l'insuccesso degli alunni più svantaggiati, è tuttavia altrettanto vero che quando alle risorse umane si aggiungano le risorse materiali si creano circuiti virtuosi in grado di produrre risultati eccezionali. Le esperienze osservate hanno confermato una convinzione che è assolutamente intuitiva. Il caso della scuola media "A. Ugo" di Palermo o il caso dell'Istituto professionale di Ponticelli a Napoli indicano come, messi in mano a docenti competenti e appassionati, i finanziamenti in mezzi e tecnologie diventino veicolo per moltiplicare le forme di coinvolgimento degli alunni, per diversificare le metodologie dell'apprendimento e renderle più coerenti con le personalità o gli interessi dei singoli. Laboratori di ceramica o artistici, laboratori linguistici, stock tecnologici (in proposito va ricordato come a Napoli si siano visti bambini inabili scrivere correttamente con la penna e cimentarsi meglio con l'italiano proprio passando per l'uso del computer); ma anche attrezzature sportive e disponibilità della stessa scuola per un orario più lungo: tutto questo arricchisce l'offerta formativa e consente più ampi processi di identificazione e più ampie vie di integrazione da parte degli alunni potenzialmente meno motivati. Ciò però significa, senza equivoci, che il conseguimento degli obiettivi espressi anche in sede legislativa di innalzamento dell'età scolare media implica forti investimenti in strutture e mezzi materiali, che si aggiungono a quelli, già auspicati, nella formazione dei docenti.

Il rapporto con il mercato del lavoro

Si è già accennato, a proposito degli istituti professionali, al problema del rapporto tra scuola e mercato del lavoro. La Commissione ritiene che la scuola abbia una sua indubbia autonomia di finalità rispetto alle domande provenienti dal mercato del lavoro. E tuttavia è stato più volte segnalato come la percezione dell'utilità della frequenza scolastica ai fini del conseguimento di un posto di lavoro possa essere fondamentale o comunque rilevante ai fini della motivazione degli alunni e delle loro famiglie. Va precisato che questa segnalazione non è provenuta soltanto dagli istituti professionali (dove paradigmatico, in senso positivo, è stato il caso dell'alberghiero di Cagliari), ma ha una sua forza ricorrente, che diventa tanto più pesante quanto più deboli sono le motivazioni culturali degli alunni o quanto più debole è comunque la loro identificazione con il "mondo vitale" della scuola.

Si ritiene in questa prospettiva che sarebbe opportuno considerare l'utilità di sviluppare l'intervento su almeno tre direttrici:

a) promuovere una "offensiva di persuasione" nei confronti degli alunni e delle loro famiglie circa le qualità di polivalenza culturale richieste dalle trasformazioni del mercato del lavoro negli scenari futuri più attendibili;

b) promuovere comunque negli alunni il possesso di quelle competenze di base (relazionali, informatiche, grafiche, linguistiche, legislative) che, nella economia contemporanea, consentono meglio di esercitare i propri talenti in forme di auto-imprenditorialità;

c) promuovere forme più frequenti di incontro e di scambio tra il mondo della scuola e il mondo delle professioni e dell'impresa (di ogni tipo), finalizzate anche a fare meglio maturare la consapevolezza dell'utilità, nei contesti lavorativi e professionali, sia delle doti generali sia delle specifiche qualità o competenze acquisite o affinate nella scuola.

Il clima culturale extrascolastico

Il lavoro di ricognizione e riflessione della Commissione ha spesso messo in luce (e non poteva essere altrimenti) l'importanza rilevantissima che giocano comunque nell'orizzonte prospettato le variabili extrascolastiche. Si è già detto come gli effetti di queste ultime possano - grazie al funzionamento dei circuiti virtuosi - essere contenuti e temperati. Esse però sono ben operanti nel contesto sociale generale. E dunque un migliore intervento nei loro confronti richiede l'elaborazione di strategie centrali, coerenti e complementari a quelle studiate e realizzate in sede locale. In tal senso l'arco delle iniziative possibili è praticamente sterminato. Si può andare dall'occupazione alle politiche per la famiglia fino alle dotazioni infrastrutturali nel settore dei trasporti. Ma preme qui sottolineare come siano particolarmente opportuni tutti quegli interventi in grado di innalzare il valore socialmente assegnato all'istruzione, alla cultura e alle loro precondizioni, dalla capacità d'ascolto alla propensione alla lettura.

Si tratta in sostanza di accompagnare le strategie delineate con altre più ampie, in grado di incidere sui processi culturali generali, sulle gerarchie dei valori, sullo stesso senso comune. Questo esorbita probabilmente in buona parte dai compiti e dalle competenze del Ministero, ma non certo da quelli del Governo. Basti pensare alle leggi di sostegno all'editoria o di incoraggiamento alla lettura; oppure ai messaggi televisivi, che possono esprimersi nella forma di opportune campagne pubblicitarie, di qualità dei giochi e delle trasmissioni proposti. La scuola, cioè, ha bisogno, per migliorarsi, di trovare intorno un ambiente sensibile e che le offra le condizioni di base del suo funzionamento. Oggi deve ancora scontare la specificità italiana di uno sviluppo economico e dei consumi avvenuto troppo in fretta per contare su uno sviluppo culturale e civile di analogo livello (le famiglie che lasciano alla scuola solo i numeri dei cellulari ma che si risentono per i richiami della scuola ai figli assenti; le famiglie che ritengono che il figlio abbia sempre ragione davanti all'autorità costituita, ecc.). In queste condizioni il perseguimento degli obiettivi legislativi più recenti (i diciotto anni) è destinato a essere sicuramente molto più costoso e meno utile sia sul piano della formazione civile sia sul piano della fisionomia professionale.

PER LA SCUOLA DELL'AUTONOMIA

Il rapporto scuola-famiglia

Il lavoro della Commissione ha consentito di mettere in luce la crucialità dei rapporti che la scuola costruisce (ed è in grado di costruire) con le famiglie. Si tratta di un terreno di impegno spesso proibitivo. Proibitivo sicuramente nelle aree a più alto grado di emarginazione e precarietà, ma non solo in quelle. La scuola deve misurarsi infatti anche con una vasta gamma di atteggiamenti e situazioni che pesa sulla fecondità e sulla stessa esistenza di tali

rapporti: la sottovalutazione del ruolo dell'istruzione nel destino dei figli, l'allentamento delle responsabilità di ruolo interne alla famiglia, una marcata tendenza alla "delega" e insieme la presunzione e l'anti-istituzionalità tipiche di una precisa congiuntura storica.

In tale orizzonte la scuola può però promuovere, come a Napoli, come a Palermo, strutture di "collaborazione privilegiata", volte a legare a sé in modo più forte almeno le parti più sensibili della sua utenza, in un procedimento di coinvolgimento a cascata. E può proporsi in diverse forme e con diverse attività come riferimento diretto per le famiglie, in ciò sicuramente aiutata dalla continuità delle presenze significative che essa riesce a esprimere (si pensi al docente che ha avuto nella sua classe più fratelli o addirittura un genitore e il figlio). La capacità della scuola di aprirsi verso le famiglie e di non accontentarsi dei colloqui con i genitori o della presenza negli organi collegiali dei loro rappresentanti, appare cioè come una chiave di volta - senz'altro faticosa in certi contesti - per ridurre le spinte alla passività e alla dispersione che operano sugli alunni.

Il rapporto scuola-territorio

Il sistema di relazioni che la scuola costruisce con le famiglie è - specie nella scuola dell'obbligo - anche un sistema di relazioni con il quartiere circostante e, più in generale, con il territorio. Non va dimenticato che talora finisce per scaricarsi sulla scuola (si pensi al caso di Ponticelli a Napoli) un vero ruolo di supplenza o di "avamposto". Ciò succede quando essa finisce per essere l'unica istituzione presente su una porzione di territorio metropolitano. E se accade che essa debba "difendersi" dall'ambiente circostante, pronto a presentarsi non solo con la faccia della diffidenza ma anche con la faccia del vandalismo o del bullismo, è anche vero che essa ha numerosi strumenti per attivare a sua volta atteggiamenti di "attacco" verso il mondo che la circonda più direttamente.

È chiaro che un rapporto di identificazione anche affettivo con la scuola da parte del quartiere è una precondizione positiva della frequenza e della partecipazione degli alunni. L'apertura della scuola per iniziative non solo scolastiche, la sua apertura anzi in orari extrascolastici e durante l'estate per progetti mirati, il coinvolgimento degli alunni nella valorizzazione delle tradizioni e dei monumenti caratteristici del quartiere, l'offerta - da parte della scuola - di iniziative anche concordate con gli enti locali, come pure con categorie o associazioni operanti al suo esterno; tutto ciò si è dimostrato assai utile a prosciugare alcune delle aree e delle ragioni di indifferenza ed estraneità, soprattutto laddove scuole di diverso ordine e grado hanno cooperato al raggiungimento di questi obiettivi lavorando "in rete" tra loro. È significativo che proprio su questo rapporto collaborativo sul territorio hanno inteso tornare più volte, nel corso delle loro audizioni, i rappresentanti degli enti locali; i quali hanno anzi esplicitato il timore che in alcune situazioni l'autonomia scolastica possa generare, anziché una maggiore intraprendenza e flessibilità, una maggiore chiusura o pretesa di autosufficienza della scuola.

La qualità della didattica

I testimoni ascoltati hanno unanimemente indicato la necessità che la scuola provveda alla ridefinizione dei suoi curricula di studio. L'obiettivo di mantenere nei percorsi formativi quegli alunni e studenti che manifestano la tendenza a uscirne in vario modo anzitempo, richiede una didattica capace di offrire una pluralità di approcci, di occasioni, di stimoli intellettuali e disciplinari. Una didattica non uniforme, non pensata solo - come è stato osservato - con la mentalità e la cultura del ceto medio. È dunque necessario che il sistema scolastico parta dal presupposto della differente qualità e natura delle intelligenze, delle vocazioni e dei talenti che vi confluiscono; e della molteplicità delle vie attraverso le quali si può raggiungere il traguardo dell'apprendimento di un certo insieme di conoscenze standard.

Non solo. Si pone il problema, per chi vede la scuola come un passaggio il più breve possibile verso il lavoro, di raccordare la didattica con quel complesso di conoscenze e di esperienze che siano considerati utili in vista dello sbocco desiderato. La scuola, insomma, come un grande, multiforme cantiere di abilità dotate di un minimo comun denominatore.

Se è vero che le dotazioni finanziarie e strutturali che consentono di mettere in pratica questi orientamenti non dipendono dalla volontà della singola scuola, è però importante che il superamento delle rigidità, i modelli organizzativi idonei (vedi qui sotto), la stessa attenzione all'orientamento come parte integrante della didattica (laddove più volte ne è stata lamentata l'assoluta inconsistenza), vengano garantiti dallo spirito innovativo e dall'atteggiamento da "imprenditore culturale collettivo" dell'istituzione scolastica.

Modelli organizzativi e motivazionali

Se l'obiettivo di contenere la dispersione scolastica è un grande obiettivo del nostro sistema formativo, ne discende che esso abbia bisogno, per essere realizzato, di un elevato livello di mobilitazione. Ma la mobilitazione (intesa come concentrazione straordinaria di energie intorno a un traguardo) presuppone l'esistenza di un adeguato sistema di motivazioni da parte di tutta la scuola: del personale docente o di una sua quota rilevante ma anche del personale amministrativo e della stessa popolazione studentesca. E presuppone moduli organizzativi in grado di liberare e valorizzare tali motivazioni. Si tratta di un processo complesso, a circuito, in cui ogni fase o componente agisce e retroagisce sulle altre, così che - ad esempio - la stessa mobilitazione (che è formalmente l'esito finale del processo) favorisce in realtà un innalzamento medio delle motivazioni. La crescita di autonomia della scuola crea, con la sburocratizzazione, il terreno ideale per forme di mobilitazione.

Ma il sistema delle motivazioni nasce solo intorno a un "nucleo tecnico" in grado di fare massa critica e di esercitare la necessaria forza attrattiva nei confronti del resto dell'ambiente organizzativo.

È dunque opportuno che per un verso la scuola dia vita a forme flessibili di impiego e di interazione del proprio personale (ed eventualmente del personale esterno), in coerenza con i percorsi didattico-formativi definiti; per l'altro verso tenda a mantenere sempre elevato lo stock di motivazioni umane e professionali necessario a sviluppare progetti di intervento ad alta qualità. Il che significa evitare anzitutto l'incertezza di quello che a Cagliari è stato definito il "turismo scolastico" (l'eccesso di mobilità dei docenti) e incentivare anche sul piano delle soddisfazioni formative e simboliche il personale più impegnato. La storia dei successi analizzati dalla Commissione è in definitiva la storia di altrettante mobilitazioni collettive che hanno avuto il loro cuore in un gruppo di insegnanti capaci di darsi e di comunicare una serie continua di traguardi e di creare, attraverso gesti, simboli, progetti, il clima organizzativo necessario per raggiungerli.

Formazione e autoformazione

Si è già detto dei compiti spettanti al Ministero sul piano della formazione del personale docente. Per quel che riguarda la scuola dell'autonomia vale la pena ricordare però che vi sono opportunità formative di sua specifica competenza che si aggiungono alle prime. I casi empirici osservati, ma anche le audizioni effettuate, portano concordemente verso una conclusione: per combattere la dispersione occorre che la scuola predisponga strumenti e occasioni regolari di riflessione, valutazione e riprogettazione della propria attività. Il caso di Uta, il piccolo comune in provincia di Cagliari, è stato in proposito particolarmente eloquente: lì, in assenza di fondi adeguati, la lotta all'abbandono e all'insuccesso si è avvalsa di quella che abbiamo definito "una strategia povera", centrata cioè sulla formazione e sull'autoformazione dei docenti.

L'organizzazione di più continui collegamenti interni, di stabili osservatori sui fenomeni di insuccesso e di recupero, lo sviluppo di attività di autovalutazione come fondamentale complemento di una "formazione sul campo", il ricorso a competenze e presenze terze all'interno del complessivo progetto educativo della scuola, costituiscono tutti strumenti di importante integrazione del fabbisogno formativo del personale docente da pensare e realizzare su scala locale.

La partecipazione

Lo scenario che è stato succintamente prospettato come "ideale" in questa parte finale della relazione (scuola-famiglia, scuola-territorio, autoformazione ecc.) è in realtà uno scenario che presuppone l'incontro e la collaborazione continui di una pluralità di attori, interni ed esterni alla scuola. Quest'ultima si pone come il centro di una rete di sistema ma al tempo stesso proietta se stessa verso l'esterno con l'obiettivo di non chiudere le sue porte alle spalle o in faccia agli alunni in più grave condizione di disagio.

Si può dire in generale che lo scenario rappresentato contempli un elevato livello di partecipazione. Una partecipazione, va precisato, superiore e in parte diversa da quella prevista dalla normativa scolastica. Si pensi alle mamme dei Quartieri spagnoli di Napoli o a quelle di Palermo. Si pensi al tutoraggio esercitato da gruppi di genitori o anche (come nel progetto Firenze richiamato durante un'audizione) da studenti universitari. Tutte forme di coinvolgimento e di arricchimento di responsabilità in grado di dare apprezzabili ritorni rispetto agli obiettivi della scuola; forme di coinvolgimento alle quali, nelle situazioni date, sarebbe insensato rinunciare.
L'insieme delle dinamiche attivate da questa rete di attori (istituzionali e non) va però governata con lungimiranza. Richiede cioè un coordinamento tra pochi centri decisionali ma in particolare richiede la costruzione di un maturo clima partecipativo. Il che significa che il carattere di forte apertura della scuola garantisce i risultati positivi attesi laddove la condivisione attiva degli obiettivi (ossia quella che abbiamo chiamato "mobilitazione") promuove non tanto o solo le forme della collaborazione - che, portate all'estremo, possono diventare ragione di intasamento operativo - quanto la sua sostanza quotidiana non rigorosamente riconducibile a una codificazione. Il che richiede a sua volta di sviluppare una precisa - e assolutamente cruciale - area di formazione e autoformazione dei docenti e degli altri attori coinvolti.

6) CONCLUSIONI

È possibile ora trarre alcune importanti conclusioni di massima dal lavoro svolto dalla Commissione e dalle note fin qui proposte.

La prima considerazione generale è che il fenomeno della dispersione esiste in misura ancora significativa. Si tratta di una considerazione forse perfino ovvia dati gli scopi della stessa Commissione, e che però non è affatto scontata né nel senso comune né negli indirizzi operativi effettivamente prevalenti all'interno del sistema scolastico. Occorre dire più precisamente che, su un piano generale, la dispersione è presente nella scuola dell'obbligo in forma estremamente contenuta mentre è presente nella scuola media superiore in forma ragguardevole. In tutti e due i gradi dell'istruzione i trend degli ultimi decenni, ma anche dello stesso ultimo decennio, mostrano un miglioramento della situazione. Si è cioè sensibilmente ridotta la quota della popolazione in età scolare che fuoriesce anzitempo dai processi formativo-scolastici.

Questo dato confortante va letto usando le seguenti cautele.

a) Il tasso di dispersione nella scuola dell'obbligo (che significa poi spesso tasso di evasione effettivo) tende a zero nelle realtà più evolute ma resta alto nelle realtà sociali più disagiate, che si configurano come vere e proprie zone di civilizzazione di base sulle quali la scuola italiana opera a tutt'oggi in funzione pionieristica.

b) L'insuccesso scolastico, sommandosi all'evasione formale e all'evasione di fatto (iscrizione senza frequenza) fa sì che il diploma dell'obbligo non venga comunque raggiunto da una quota di alunni non trascurabile sul piano nazionale, con progressivo innalzamento di tale percentuale passando dalle regioni settentrionali a quelle meridionali.

La seconda considerazione generale, che discende da quanto sopra, riguarda le differenze ancora rilevanti tra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Il divario medio tra le due realtà si presenta con evidenza sul piano statistico ma si è presentato con altrettanta evidenza (e anche con intensità emotiva) agli occhi della Commissione nel corso delle sue visite sul campo. Il fatto che nelle isole quasi un decimo della popolazione giovanile risulti non avere conseguito il diploma dell'obbligo segna tutte le difficoltà del rapporto che vi si realizza tra scuola e società. E informazioni analoghe giungono dai tassi di dispersione di fatto superiori al 20 per cento che sono stati verificati nelle medie inferiori nei quartieri urbani a più alto disagio sociale delle grandi città meridionali.

In particolare occorre rilevare - come sottolineato con forza nella sua audizione anche dal dottor Bruno Pagnani dell'Osservatorio per la dispersione scolastica - che se nel sud e nelle isole la dispersione si annida già nella scuola dell'obbligo, nel centro-nord il fenomeno si trasferisce nella scuola media superiore, dando vita a due tipologie orientative di dispersione (e di problemi correlati), con la scuola media inferiore a fare da zona critica in entrambi i casi.

La terza considerazione generale (che può essere considerata come cautela aggiuntiva nella lettura dei trend positivi di fine secolo) è che l'aumento indubbio della scolarità sembra comportare - e probabilmente nel breve termine non può non comportare - un abbassamento delle capacità medie della popolazione scolastica nel suo insieme. Il fenomeno è stato ben esplicitato su scala locale nella scuola "A. Ugo" di Palermo, dove il rilevante e anche veloce successo delle strategie antidispersione ha prodotto, come si è già notato, la nascita di altri problemi, legati al livello di apprendimento e di motivazione degli alunni "marginali" che la scuola è riuscita, con eccezionale profusione di impegno, a tenere al proprio interno. Su scala nazionale qualcosa può essere inferito in questa direzione dalla citatissima percentuale del 45 per cento di alunni diplomati nella scuola dell'obbligo con la qualifica di "sufficienti". Ed esattamente su questo problema è tornato il preside dell'istituto professionale visitato a Belluno, che ha prospettato le implicazioni in termini di sviluppi futuri della "carriera" scolastica di un livello di preparazione di base così generalmente modesto.

In definitiva la generalizzazione del giudizio positivo più basso (che teoricamente potrebbe anche esprimere un alto livello di severità del sistema scolastico) sembra potersi rappresentare in parte come un artificio istituzionale - certo inconscio e animato dalle migliori intenzioni - volto a posticipare la fuoriuscita dell'alunno dal sistema; qualcosa di paragonabile alla concessione di una "chance in più" che altri docenti dovranno mettere a frutto. Se ciò può avere una sua ragione nella logica del raggiungimento del diploma dell'obbligo, è però importante che la scuola abbia piena coscienza del fenomeno e adotti le sue strategie di intervento sul fronte sia della scuola media inferiore sia della scuola media superiore.

La quarta considerazione generale riguarda appunto la scuola media inferiore. È stato infatti possibile individuare in questa fase dell'esperienza scolastica il vero passaggio a rischio per gli alunni più deboli e meno motivati. Molti testimoni hanno in realtà insistito sulle "tracce precoci" dell'abbandono e dell'insuccesso, e dunque sulla necessità di intervenire con logiche mirate già dalle elementari. Ma la zona cruciale, dove verosimilmente si gettano le basi (precoci, appunto) anche degli abbandoni nelle superiori, è quella delle medie inferiori. La ragione sta nella forte discontinuità che essa produce nella crescita e nelle abitudini degli alunni. Discontinuità di ambiente, di clima umano, di compagni di scuola, di quantità e qualità dei docenti, di metodi di insegnamento e apprendimento, più ancora che di materie. In questa frattura starebbero, come è stato fatto osservare, le radici delle difficoltà, delle estraneità, del disagio, degli alunni maggiormente a rischio di insuccesso. Questi problemi, propri di un'età preadolescenziale, vengono peraltro aggravati dal fatto che è in questi anni che, specie in certi contesti, inizia a farsi sentire l'attrazione di interessi e di modelli di comportamento conflittuali con la partecipazione alla vita scolastica, fino all'attrazione dei gruppi devianti.

La riforma dei cicli scolastici, che evita formalmente tale discontinuità disegnando un'unica scuola di base della durata di sette anni, può (al di là dei giudizi possibili sul progetto di legge) avere in sé alcuni antidoti importanti a queste dinamiche. È comunque necessario che nella propria realizzazione essa si misuri pienamente con l'esistenza di questa delicatissima zona biografica e istituzionale, che può finire per costituire la linea di sabbie mobili in cui affondano le opportunità di istruzione degli alunni provenienti dalla società del disagio.

La quinta considerazione generale riguarda la scuola secondaria superiore professionale. Questa è sicuramente l'area del sistema scolastico a maggiore rischio di dispersione. I tassi di abbandono e di insuccesso che vi si registrano sono, come si è visto, elevatissimi, superiori mediamente al 30 per cento; il che vuol dire che ben un terzo di chi vi entra non raggiunge alcun titolo. E il fatto rilevantissimo (per quanto abbiamo detto) è che in questo caso non è dato riscontrare differenze particolarmente significative tra le cifre delle regioni settentrionali e quelle delle regioni meridionali.

La scuola italiana deve insomma fare i conti con l'esistenza di un ordine di studi che si è andato progressivamente costituendo come "valvola di sfogo" dell'intero sistema. Un ordine di studi che funziona da anticamera preferenziale dell'abbandono. In tal senso le testimonianze raccolte integrano con grande efficacia i dati nudi e crudi.

La qualità media degli studenti che accedono agli istituti professionali, le loro motivazioni, le condizioni sociali che esprimono, si armonizzano benissimo con la convenzione mentale (che più presidi hanno denunciato) secondo cui è opportuno che il ragazzo meno dotato o non dotato affatto imbocchi la via "delle professionali".

In realtà questa convenzione, come è stato ripetuto ai componenti della Commissione, opera già dentro la scuola, sicché è stata proprio la scuola ad attribuire di fatto, nel tempo, questa funzione assolutamente impropria a una sua branca specifica. Si è stabilita cioè una linea che potremmo definire "diagonale" che porta dalle zone a rischio della media inferiore agli istituti professionali e poi alla fuoriuscita dal sistema. Fuoriuscita contenuta fra l'altro dalle già ricordate "promozioni per disperazione".

Il fenomeno, oltre a rappresentare una preoccupante patologia del sistema, esprime un complesso di pregiudizi antichi, interni ed esterni alla scuola: la sottovalutazione dell'istruzione professionale, la visione "classista" della scuola e della popolazione scolastica, il ritardo nel comprendere le nuove abilità e dotazioni culturali necessarie per interpretare nuovi profili professionali (si pensi di nuovo agli studenti dell'indirizzo grafico dell'istituto di Belluno).

La sesta e ultima considerazione generale riguarda l'autonomia scolastica. Tutta l'attività di indagine svolta dalla Commissione ha infatti dato modo di cogliere il ruolo insostituibile dell'autonomia nello svolgimento di efficaci strategie anti-dispersione. La percezione della realtà esterna, la sensibilità nel coglierne in tempo reale trasformazioni e tendenze, la valutazione delle risorse umane e professionali interne, la consapevolezza delle opportunità e dei vincoli, la conoscenza diretta della popolazione scolastica e dei suoi bisogni, la fantasia nell'impostare le relazioni interistituzionali più utili e più coerenti con le concrete situazioni; tutto ciò è prerogativa naturale di chi opera nella scuola a contatto con i problemi che vi si manifestano.

Tutte le esperienze positive nelle quali la Commissione si è imbattuta nel corso del suo lavoro hanno potuto realizzarsi a partire dalla definizione di uno spazio di autonomia che a volte ha preceduto la stessa legge di riforma. È dunque doveroso chiudere queste note indicando l'esistenza di un doppio livello al quale si situano gli interventi da compiere. Uno che riguarda più la definizione di indirizzi generali, l'approntamento di condizioni strutturali e di incentivi, la promozione di orientamenti socio-culturali, l'elaborazione di una strumentazione (anche legislativa) di sostegno; l'altro che riguarda l'uso creativo in sede locale delle condizioni ausiliarie prodotte a livello centrale. E su quest'ultimo piano i suggerimenti non possono che essere molto cauti e generali. È semmai credibile che saranno le esperienze locali che, debitamente studiate e fatte circolare, offriranno motivo di riflessione sia agli attori istituzionali centrali sia agli altri protagonisti locali dell'impegno della scuola italiana contro la dispersione.

Ma in chiusura di queste conclusioni è utile soprattutto trasmettere quello che può essere colto come il vero, più autentico messaggio della presente relazione al Parlamento e al mondo della scuola. Un messaggio che conferma l'ipotesi di partenza da cui, in definitiva, ha preso le mosse la stessa Commissione: i fenomeni di abbandono, di insuccesso, di dispersione, possono essere combattuti dentro e attraverso la scuola; non vi è alcun rapporto di necessità, nessun nesso rigidamente meccanico tra il disagio e l'emarginazione sociale e l'insuccesso. Le condizioni, il contesto esterno, vanno visti cioè come variabili sfavorevoli con cui confrontarsi; non come alibi o giustificazione di alti tassi di dispersione. Le esperienze direttamente osservate, le esperienze riportate dai testimoni ascoltati hanno dato a quella ipotesi conferme convincenti, che hanno a loro fondamento un lavoro organizzato e promosso su scala nazionale da più di un decennio.