Non
è sufficiente dimostrare l'esistenza di una depressione da "mobbing"
Licenziabile
chi denuncia molestie senza prove
(Cassazione 143/2000)
Non è sufficiente una sanzione
disciplinare né il trasferimento ad altro reparto: la lavoratrice che ha mosso
accuse non provate di molestie sessuali e discriminazioni ad opera del suo capo
può essere licenziata poiché questo tipo di diffamazione, se privo di elementi
che la supportino, lede gravemente il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e
dipendente. E come prova delle persecuzioni subite – se non si indicano gli
specifici episodi – non vale esibire certificati medici che attestano una
sindrome depressiva da "mobbing".
Questo il principio stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte di
Cassazione, che ha respinto il ricorso di una impiegata della "Henkel
s.p.a." contro il licenziamento per giusta causa inflittole dalla società
che aveva ritenuto non concrete le accuse che la donna aveva rivolto al capo del
personale dello stabilimento di Ferentino. Il Pretore in primo grado aveva dato
ragione alla donna, reintegrandola per ben due volte nel posto di lavoro; il
Tribunale di Frosinone, invece, in qualità di giudice dell’appello, aveva
dato ragione alla società datrice di lavoro, sottolineando che le accuse al
caporeparto, accusato di avere bloccato la carriera della donna in seguito ai
"no" alle sue "richieste extraprofessionali", non essendo
risultate veritiere meritavano la perdita del posto di lavoro. La Suprema Corte
conferma la sentenza di appello, rilevando come la "sindrome da
mobbing" non lede la capacità di intendere e di volere ma altera solo gli
stati emotivi; ma il "mobbing" non è sufficiente da solo ad accusare
il capo: occorrono prove concrete, fatti luoghi, testimoni che – pur tenendo
conto delle inevitabili "sacche di omertà" degli ambienti di lavoro
– dimostrino le colpe e supportino le accuse: in mancanza, viene
inevitabilmente meno "l’elemento della fiducia".
Sentenza
della Sezione Lavoro n.143/2000
depositata l’8/1/2000
La Corte suprema di Cassazione sezione
lavoro
(…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul primo ricorso n. 12983/98 proposto da:
F. R., elettivamente domiciliata in Roma, Via Alberico
II, n. 8, presso lo studio de1l'avvocato ROBERTO MUGGIA, che la rappresenta e
difende, per procura speciale a margine del ricorso di cassazione;
ricorrente
contro
S.p.A. HENKEL, in persona del legale, rappresentante
pro tempore, già elettivamente domiciliata in Roma, Via Silla, n. 3, presso lo
studio dell'Avvocato Ferzi, e unitamente dall'Avv. Fabrizio Daverio, giusta
delega in atti;
contro ricorrente e ricorrente
incidentale
e sul secondo ricorso n. 14634/98
proposto da:
S.p.A. HENKEL, in persona del legale, rappresentante
pro tempore, già elettivamente domiciliata in Roma, Via Silla, n. 3, presso lo
studio dell'Avvocato Ferzi, e unitamente dall'Avv. Fabrizio Daverio, giusta
delega in atti;
ricorrente incidentale
contro
F. R.
intimata
per l'annullamento della sentenza n.678/98 del
Tribunale di Frosinone, R..N. 763/96;
udita nella pubblica udienza del 1.6.1998 la relazione
della causa svolta dal Consigliere Dott. Giovanni Prestipino;
Sentito il P.M., nella persona del Sostituto
Procuratore Generale Alberto Cinque, che ha concluso per il rigetto del ricorso
principale, con assorbimento del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo
Con ricorso del 17 gennaio 1995 R. F.
conveniva la S.p.A. Henkel (già Henkel Sud) davanti al pretore del lavoro di
Frosinone e chiedeva che fosse dichiarata l'inefficacia o la nullità o
l'illegittimità del licenziamento che il 27 dicembre 1994 le era stato intimato
dalla società, per giusta causa "e comunque per oggettiva incompatibilità
ambientale", per avere la lavoratrice (secondo gli addebiti formulati nella
contestazione), rivolto accuse diffamatorie nei confronti del capo del personale
dello stabilimento di Ferentino, successivamente divulgate a mezzo stampa. La
ricorrente, inquadrata nella categoria C prevista dal contratto collettivo
nazionale di categoria, chiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro, con la
condanna della società convenuta sia al risarcimento del danno per le
retribuzioni non percepite e per il danno biologico che gliene era derivato, sia
all'inquadramento nella categoria B prevista dal suddetto contratto, di cui pure
rivendicava l'appartenenza.
A sostegno del ricorso la lavoratrice esponeva che aveva svolto
l'attività lavorativa con piena soddisfazione, sua e dei suoi superiori, fin
dal giorno dell'assunzione in servizio avvenuta nell'anno 1974, ma che, a
partire dall'anno 1985, quando era stato sostituito il capo del personale, aveva
cominciato a subire un'opera di boicottaggio, con irrogazione di sanzioni
disciplinari e arresto della carriera, poi culminata nel licenziamento, a causa
del rifiuto che aveva opposto alle insistenti attenzioni di natura
extraprofessionale rivoltele dal suo superiore.
Costituitasi in giudizio, la società convenuta contestava la
fondatezza della pretesa avversaria, di cui chiedeva il rigetto.
Assunti il libero interrogatorio della ricorrente e la prova
testimoniale dedotta da entrambe le parti, il Pretore, con sentenza dell'8
febbraio 1996, pur osservando che dall'istruttoria espletata non erano emersi
elementi di prova a sostegno delle accuse mosse dalla lavoratrice al capo del
personale, tuttavia rilevava che non esisteva alcun giustificato motivo di
recesso per difetto, in relazione al comportamento posto in essere dalla
medesima lavoratrice, dell'elemento soggettivo - e, pertanto, - dichiarava
l'illegittimità del licenziamento, con la condanna della società Henkel a
reintegrare la F. nel posto di lavoro e a corrispondere alla medesima cinque
mensilità di retribuzione. Tutte le altre domande venivano, invece, rigettate.
A seguito della disposta reintegrazione nel posto di lavoro, la
società Henkel intimava alla lavoratrice un nuovo licenziamento, che veniva
impugnato davanti al medesimo Pretore di Frosinone con ricorso del 26 settembre
1996.
A conclusione di questo secondo giudizio, nel quale la società
convenuta si era costituita contestando la fondatezza delle pretese fatte valere
dalla ricorrente, il Pretore, con sentenza del 19 giugno 1997, rigettava il
ricorso.
Entrambe le sentenze venivano impugnate dalle parti, la prima con
appello principale della società Henkel e con appello incidentale della F., la
seconda con appello della sola F..
Riunite le due cause, il Tribunale di Frosinone, con sentenza del 9
febbraio 1998 emanava le seguenti decisioni: accoglieva il ricorso principale
proposto dalla società Henkel avverso la prima delle due sentenze,
"restando assorbito il ricorso incidentale" (che in realtà veniva
rigettato) e "rigettava" il ricorso proposto dalla F. avverso la
seconda sentenza (che in realtà veniva dichiarato assorbito).
Il giudice di appello, per quanto ancora interessa, osservava, in
primo luogo, che la F., dopo avere dato notizia delle accuse da lei mosse al
capo del personale (poi dedotte a contestazione dell'intimatole licenziamento)
con una lettera inviata alla S.p.A. Henkel Italia, capogruppo della datrice di
lavoro S.p.A. Henkel Sud, e dopo avere concorso con il proprio marito,
sindacalista della UIL, a darne diffusione a mezzo di un articolo pubblicato
dalla stampa cittadina, non aveva provato la fondatezza di tali accuse, alle
quali non era stata data specificità nelle lettere inviate alla società (di
risposta alle contestazioni mossele); e, in secondo luogo, che le suddette
accuse erano state smentite dall'istruttoria svolta dal primo giudice, dato che
non era stata dimostrata alcuna circostanza che attestasse la natura
asseritamente discriminatoria o persecutoria del comportamento tenuto dal capo
ufficio. Il Tribunale aggiungeva che, attesa la potenzialità denigratoria delle
accuse, poi risultate non veritiere, e pur tenuto conto della fragilità dello
stato emotivo della lavoratrice -non tale, peraltro, da limitarne la capacità
di intendere e di volere - tuttavia	 doveva ritenersi dimostrata la
consapevolezza da parte della F. dell'effetto denigratorio insito nelle
insinuazioni formulate, con la conseguenza che risultava parimenti provato il
comportamento doloso o, quantomeno, gravemente colposo posto in essere dalla
donna soprattutto in considerazione della mancata prova della veridicità delle
accuse), tale da integrare gli estremi di un fatto illecito e da legittimare il
recesso per giusta causa per essere venuto meno l'elemento della fiducia.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la F.,
che ha dedotto tre distinti motivi.
Ha resistito con controricorso la società Henkel, che ha proposto
ricorso incidentale condizionato, articolato in diversi motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi
della decisione
In primo luogo, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., va
disposta la riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la stessa sentenza.
In secondo luogo, prima di esaminare le singole censure contenute
nei due ricorsi, occorre brevemente soffermarsi su due distinte questioni, sulla
prima delle quali soprattutto i difensori delle parti hanno dissertato anche in
sede di discussione orale.
1. Non è dubbio che al lavoratore deve
essere riconosciuto nei confronti del proprio datore di lavoro il diritto di
critica, che può essere manifestato anche per mezzo di articoli su quotidiani o
di interviste apparse sulla stampa, quale espressione del bene primario sancito
dall'art. 21 della Costituzione. Come è stato più volte affermato da questa
Corte, infatti, il suddetto diritto, sempre ché sia rispettata la verità dei
fatti e siano poste in essere modalità e termini tali da non ledere
gratuitamente il decoro del datore di lavoro, deve essere sempre garantito al
prestatore d'opera subordinato, dovendo la critica, anche aspra, essere posta in
relazione alla libertà di manifestazione del pensiero tutelata dalla
Costituzione (v. fra le sentenze più recenti, Cass. 16 maggio 1998 n. 4952 e
Cass. 22 agosto 1997 n. 7884).
Nel caso in esame, peraltro, il richiamo di tali principi
giurisprudenziali non è del tutto pertinente.
Come è stato esposto in narrativa, l'articolo giornalistico
apparso su un quotidiano non è stato sottoscritto dalla F. né la giornalista
che lo aveva redatto aveva previamente affermato di avere intervistato la donna
e di riportare, quindi, il pensiero della medesima su comportamenti disdicevoli,
posti in essere dalla società datrice di lavoro nei confronti di terzi.
Nell'articolo di stampa viceversa, come è pacifico, è stato indicato, come
fonte della notizia, un comunicato della UIL a firma di un sindacalista (che poi
è risultato essere il marito della F.) e sono stati riferiti non già fatti di
carattere generale, ma comportamenti intimidatori e discriminatori attuati dal
capo ufficio, per rancori personali, nei confronti della medesima F., la quale
sarebbe stata sottoposta ad una vera e propria opera di persecuzione, di
boicottaggio e di deprezzamento professionale,
Tenuto conto di questi rilievi, contrariamente a quanto ritengono
le parti, non è necessario, nell'ambito del presente giudizio, disquisire sulla
natura e sui limiti del diritto di critica che compete al lavoratore, essendo
una siffatta discussione del tutto sterile in relazione all'oggetto della
controversia.
2. Nell'atto introduttivo del primo dei due giudizi promossi dalla
lavoratrice (quello di cui si discute) aveva formato oggetto di specifica
allegazione l'assunto secondo cui la medesima era stata oggetto di molestie
sessuali da parte del suo superiore gerarchico, in conseguenza delle quali,
atteso il rifiuto opposto dalla donna alle altrui attenzioni, sarebbe derivato
quel comportamento discriminatorio, intimidatorio e persecutorio che avrebbe, a
sua volta, emarginato la F., causandole una sindrome depressiva (v., riguardo a
quest'ultimo punto, le argomentazioni svolte dalla difesa della ricorrente
principale, soprattutto nella memoria difensiva, nella quale è stato fatto
riferimento a quel fenomeno che dalla più recente letteratura specialistica è
definito mobbing, con un termine, che indica l'aggredire la sfera psichica
altrui, mutuato dal linguaggio usato in altri Paesi in cui il fenomeno stesso da
tempo è oggetto di studi particolari).
Ora non è dubbio che le molestie sessuali, poste in essere dal
datore di lavoro o dal suoi stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori
soggetti al rispettivo potere gerarchico, costituiscono uno dei comportamenti più
detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come
conseguenza l'integrità psicofisica dei prestatori d'opera subordinati. Non per
nulla da parte di questa Carte, in una controversia in cui era stata dedotta da
parte di una lavoratrice un siffatto atteggiamento del datore di lavoro, è
stato ritenuto che fosse sorta nei confronti di quest'ultimo una vera e propria
responsabilità contrattuale, con conseguente devoluzione della controversia
stessa al giudice del lavoro, essendo stato sostenuto che l'obbligo previsto
dalla disposizione contenuta nell'art. 2087 c.c. "non è limitato al
rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma - come si evince da una
interpretazione della norma in aderenza a principi costituzionali e comunitari
implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità
psicofisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l'oggetto e, quindi,
anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali
nei confronti dei lavoratori (Cass. 17 luglio 1995 n. 7768, indicata nella
memoria della ricorrente principale). Pertanto, qualora da un siffatto
comportamento derivi un pregiudizio per il lavoratore, implicante la lesione del
bene primario della salute o integrante quel tipo di nocumento che dalla
dottrina e dalla giurisprudenza viene definito biologico, evidente è la
responsabilità del datore di lavoro purché sia accertata l'esistenza di un
nesso causale fra il suddetto comportamento, doloso o colposo, e il pregiudizio
che ne deriva.
La prova degli elementi essenziali della fattispecie indicata
(esclusa ovviamente la dimostrazione del dolo o della colpa, vertendosi in tema
di responsabilità contrattuale) deve peraltro essere fornita dal lavoratore. Di
tal che, pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di
prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche
di omertà, sempre presenti, o per altre ragioni, tuttavia non è chi non veda
che la mancata acquisizione della prova in questione, riguardo alle cause che
hanno determinato la lesione dedotta ed agli effetti asseritamente derivati,
impedisce al giudice l'accoglimento della domanda.
Ciò è avvenuto nel caso in esame, giacché la prova in questione,
a fronte delle allegazioni che erano state formulate dalla lavoratrice, è stata
ritenuta carente dal giudice di appello. Vero è che ora la F. con il terzo
motivo del ricorso per cassazione (con il quale vengono dedotte la violazione e
la falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. L. 15 luglio 1966 n. 604 e 414
c.p.c. e che deve essere preso immediatamente in esame), sostiene che il
Tribunale avrebbe errato nell'avallare il comportamento del primo giudice - il
quale, secondo quanto si afferma nel ricorso, aveva ammesso solo una parte dei
capitoli di prova che erano stati articolati nell'atto introduttivo del giudizio
e, altresì, aveva ridotto la lista dei testimoni - ma è altrettanto vero che
la ricorrente né indica che avverso la decisione del Pretore era stato da essa
proposta uno specifico mezzo di gravame né precisa il contenuto dei capitoli di
prova che non sarebbero stati ammessi nel giudizio di primo grado. Sotto questo
profilo, quindi, la censura, ora formulata davanti a questa Corte, si rivela del
tutto generica (e il motivo, per conseguenza, deve essere disatteso), ove si
consideri, oltre tutto, che il Tribunale, su questo punto della causa, ha
asserito - senza essere smentito dalle argomentazioni svolte nel ricorso per
cassazione - che nel giudizio di appello dalla F. era stato chiesto che fossero
assunti "testimoni non escussi dal Pretore soltanto a riprova dello stretto
collegamento eziologico tra la condotta umiliante e mortificante per la
lavoratrice, prolungata negli anni e culminata con il licenziamento, e la
patologia riscontrata"; prova, codesta, che, in carenza della dimostrazione
dei fatti invocati dalla F. per giustificare il suo comportamento successivo (le
accuse rivolte al suo capo ufficio nella lettera di diffida e poi apparse
nell'articolo giornalistico), giustamente non è stata ammessa dal giudice di
appello in quanto ritenuta, a sua volta, generica e integrante una mera
valutazione.
Pertanto, nonostante la dovizia di argomenti - di altissimo pregio
sotto il profilo giuridico e, quindi, astrattamente condivisibili - svolti dalla
meritevole (nuova) difesa della F., la sentenza impugnata deve rimanere ferma,
essendo la motivazione che la sorregge, come fra breve si dirà, del tutto
esente da vizi logici (oltre che da errori di diritto).
3. Ciò premesso, prendendo in esame le
censure dedotte dalla ricorrente principale negli altri due motivi
dell'impugnazione, con il primo di tale motivi la F. denuncia la violazione e la
applicazione degli artt.7 L. 20 maggio 1970 n. 300 e 2119 c.c., oltre a vizi di.
motivazione, in relazione all'art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e, nel
lamentare che il Tribunale abbia ritenuto l'esistenza (e la gravità) dei fatti
che le erano stati contestati nel ricordare che tali fatti erano stati
individuati in una lettera diffida inviata alla società capogruppo dal proprio
legale e in un articolo apparso su un organo di stampa, sostiene:
a) che le espressioni usate dal legale nella suddetta missiva non
contenevano accuse diffamatorie nei confronti del capo ufficio, ma erano
limitate a rappresentare un comportamento persecutorio e ad ottenere la
soluzione dei problemi lavorativi esistenti;
b) che l'articolo apparso sul giornale cittadino era frutto non già
di una intervista rilasciata da essa F., ma di una iniziativa personale del
proprio marito, sindacalista della UIL, il quale aveva agito in difforme avviso
da essa F., non iscritta al suddetto sindacato;
c) che la società datrice di lavoro avrebbe dovuto, prima,
accertare l'esistenza dei fatti denunciati e poi appurarne (eventualmente) la
non veridicità - adottare possibili misure organizzative mediante spostamento
di reparto o trasferimento altrove della lavoratrice;
d) che le accuse contenute nella lettera di diffida erano rivolte
non già alla società datrice di lavoro nel suo complesso, ma al capo del
personale, che a quel tempo non aveva la qualifica di dirigente;
e) che la denuncia del comportamento vessatorio tenuto nei suoi
confronti dal superiore integrava il normale e legittimo esercizio di critica a
prescindere dalla veridicità dei fatti allegati;
f) che il Tribunale, per conseguenza, avrebbe errato nell'affermare
che essa F. aveva avuto piena consapevolezza dell'effetto denigratorio
risultante dalla lettera di diffida e, inoltre, nell'affermare che il
licenziamento era da ritenersi giustificato a causa della incompatibilità
ambientale.
Tutte queste censure sono prive di
fondamento.
3.1. In sede di merito è stato accertato
(ma ciò, oltre tutto, è pacifico in causa) che la c.d. lettera di diffida era
stata sottoscritta anche dalla F. e non solo dal di lei legale e da questa
circostanza è stata tratta la conseguenza che la lavoratrice non poteva
pretendere di non vedersi addebitati gli effetti della (poi ritenuta) natura
diffamatoria dello scritto. Il Tribunale, inoltre, previo apprezzamento del
contenuto della lettera - apprezzamento che in quanto riservato al giudice del
merito, sfugge al sindacato di legittimità, essendo stato congruamente motivato
- ha appurato il carattere diffamatorio delle accuse rivolte al capo ufficio,
avendo la F. attribuito a quest'ultimo, senza poi offrire alcuna concreta
dimostrazione del suo assunto, "rancori personali, atteggiamenti vessatori
e talora persecutori, determinanti uno stato di tensione ed ansia
continua", consistenti in una "continua opera di boicottaggio" e
tali da causare "ingiustificati deprezzamenti professionali".
3.2. Il Tribunale ha dato atto delle
ragioni che lo hanno indotto a ritenere che la lavoratrice avesse concorso alla
divulgazione, mediante la pubblicazione dell'articolo giornalistico, della
vicenda che la riguardava. Nella sentenza impugnata è stato, infatti,
osservato:
1) che nonostante che nell'articolo di giornale fosse stato
sostenuto che la notizia era stata appresa da un comunicato diramato dal
sindacato UIL, tuttavia l'organizzazione sindacale aveva smentito di avere
assunto qualsiasi iniziativa in proposito;
2) che il D. (il sindacalista che aveva ispirato la pubblicazione
della notizia) era il marito della F.;
3) che nell'articolo giornalistico. erano state testualmente
riportate intere espressioni usate nella lettera di diffida inviata alla società,
di cui si è sopra parlato.
Trattasi, come si vede, di una valutazione
compiuta dal giudice di merito che, in quanto congruamente motivata, si sottrae
al sindacato di questa Corte.
3.3. Il Tribunale ha appurato - e su ciò
non c'è censura - che la F. non aveva aderito ai numerosi inviti con i quali la
società l'aveva sollecitata a precisare le accuse contenute nella lettera di
diffida e a "specificare tutte le circostanze di tempo e di luogo".
3.4. Senza che rilevi la mancanza della
qualifica di dirigente per il capo del personale, le accusa (poi non provate),
divulgate a mezzo stampa e comunicate alla società capogruppo, come il
Tribunale ha accertato, ben potevano ledere, per la carica che il diretto
destinatario ricopriva all'interno della società datrice di lavoro, l'immagine
di quest'ultima
3.5. Richiamate le argomentazioni svolte
nel punto 2, va rilevato che dal contenuto delle espressioni usate nella lettera
di diffida e poi riportate nell'articolo di, stampa - "atteggiamento
vessatorio e talora persecutorio" posto in essere dal capo ufficio "a
causa di rancore …. determinante uno stato di tensione e di ansia
continua" ….. continua e subdola opera di boicottaggio essendo costretta
a ripetere incombenze già svolte" ….. sottoposizione a
"ingiustificati e indiscriminati deprezzamenti professionali" - il
giudice del merito ha ricavato, mediante l'esercizio del potere valutativo
conferitogli dall'ordinamento, il convincimento della loro idoneità a ledere il
prestigio e il decoro del capo ufficio (e, come si è detto, della stessa società
datrice di lavoro). Ne deriva che non può essere in questa sede sindacato il
corollario che lo stesso giudice di merito ha tratto da tale convincimento, e
cioè che la mancanza di prova in ordine alla fondatezza delle accuse - che
incombeva su chi le aveva formulate - aveva fatto venire meno, in modo
irreparabile, l'elemento della fiducia.
Pertanto, come occorre sottolineare, anche
su questo punto della causa è stata espressa da parte del Tribunale una
valutazione dei fatti che hanno dato origine alla controversia, la quale,
essendo stata sorretta da motivazione congrua e coerente, non può essere
sottoposta al sindacato di legittimità.
3.6. Il Tribunale, con motivazione del
tutto esauriente, ha tratto il convincimento della esistenza dell'elemento
psicologico dagli elementi acquisiti alla causa e, in particolare, dai fatti
sopra evidenziati la sottoscrizione della lettera di diffida da parte della
medesima lavoratrice, la compartecipazione di quest'ultima alla pubblicazione
dell'articolo giornalistico). Per altro verso, come è necessario aggiungere, il
giudice di appello non ha affatto affermato che si era determinata una
incompatibilità ambientale, ma ha ravvisato nel comportamento della lavoratrice
un fatto di tale gravità da minare il rapporto di fiducia esistente fra le
parti.
Avuto riguardo a tutti questi rilievi, non
sussistendo i vizi denunciati con le censure sopra indicate, la decisione
impugnata deve restare ferma.
4. Passando all'esame dell'ultimo motivo
del ricorso principale (secondo in ordine cronologico), la F. deduce la
violazione e la falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., oltre a vizi di
motivazione, in relazione all'art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e lamenta
che il Tribunale, dalla accertata esistenza di uno stato di psicosi reattiva che
l'aveva colpita a causa del comportamento vessatorio posto in essere dal capo
ufficio, non abbia tratto elementi per ritenere che vi fosse la possibilità di
una diversa sanzione, di tipo conservativo e non espulsivo.
Anche quest'ultimo motivo è infondato.
4.1. Il Tribunale ha preso in
considerazione anche questo aspetto della fattispecie esaminata ed ha affermato
che "la consapevolezza dell'effetto denigratorio della lettera di diffida e
della pubblicazione 	della stessa sul quotidiano appare …. evidente e
lucidamente e pertinacemente coltivata dalla ricorrente", la quale
"nelle due lettere di chiarimento lealmente sollecitate dall'azienda, ….
non aveva esplicitato i fatti dei quali si sarebbe macchiato il capo
ufficio". Lo stesso Tribunale, inoltre, in base agli elementi raccolti dal
primo giudice, ha aggiunto che "tale pertinace e denigratoria insistenza
accusatoria" non era stata sminuita dallo stato psicologico in cui verteva
la F., dal momento che dalle risultanze probatorie era risultato uno stato
emotivo e non una malattia limitante la capacità di intendere e volere.
Come si vede, anche su questo aspetto
della controversia è stata espressa da parte del giudice di merito una
valutazione che, essendo stata congruamente motivata, ora si sottrae al
sindacato di questa Corte.
V. Ciò posto, passando ad esaminare il
ricorso incidentale condizionato proposto dalla società Henkel, a rilevato che
tale ricorso verte, in primo luogo, su questioni sulle quali il giudice di
appello ha emanato decisioni favorevoli alla società. Il Tribunale, infatti. ha
confermato la pronuncia di rigetto, resa dal Pretore, delle domande della F.
aventi per oggetto il risarcimento del danno biologico e il riconoscimento di
una superiore qualifica.
Tenuto conto di questi rilievi, non si
vede per quale ragione la società Henkel con il ricorso incidentale ora
prospetti (ancorché in via condizionata) censure relative a tali questioni,
che, non avendo formato oggetto di impugnazione da parte della F. - che unica ne
aveva interesse, attesa la sua totale soccombenza - sono ormai del tutto
estranee a questo giudizio di legittimità. Le censure in questione, per
conseguenza, debbono essere dichiarate inammissibili e identica pronuncia deve
essere emessa sulla doglianza, del tutto generica, con la quale si deduce la
mancanza di specificità di un motivo di appello a suo tempo formulato dalla F.
(quello avverso la decisione con la quale il primo giudice aveva ritenuto la
veridicità dei fatti divulgati): poiché nel ricorso incidentale non è
riportato il passo del suddetto atto di appello - che ora viene, a sua volta,
definito generico - la Corte non è in grado di valutare la fondatezza della
censura.
Infine, la dichiarazione di inammissibilità
deve pure riguardare quel motivo del ricorso incidentale che investe
un'ulteriore pronuncia emessa dal giudice di secondo grado. Va al riguardo
osservato che la decisione di "rigetto" dell'appello della F., emanata
dal Tribunale con riferimento alla pronuncia del primo giudice inerente al
secondo licenziamento (v. quanto è stato esposto in narrativa) deve essere
estesa, avendone la sostanza - per essere mancata qualsiasi disamina del merito
dell'impugnazione proposta dalla lavoratrice, in considerazione della
conclusione data alla vicenda relativa al primo licenziamento - come una vera e
propria pronuncia di assorbimento; con la conseguenza che una siffatta
pronuncia, come questa Corte ha più volte affermato (v., da ultimo, Cass. 15
settembre 1996 n. 9175), non poteva indurre la società Henkel a proporre un
ricorso incidentale (sebbene condizionato).
A conclusione di tutte le argomentazioni
che precedono deve essere rigettato il ricorso proposto dalla F. e deve essere
dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato della società
Henkel.
Tenuto conto di tutte le pronunce emesse e
della reciproca soccombenza (art. 92, secondo comma, c.p.c.), giusti motivi
sussistono per compensare interamente fra le due parti le spese del presente
giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Compensa fra le parti le spese del giudizio di cassazione.
(…)
Depositato in cancelleria l'8 gennaio 2000