IL
QUADRO NORMATIVO ATTUALE A TUTELA DELLA DIGNITÀ DEL LAVORATORE ED I PROFILI DI
ILLEGITTIMITÀ DELLA CONDOTTA DI MOBBING.
I DISEGNI, PROGETTI E PROPOSTE DI LEGGE RELATIVI AL MOBBING
Prof.
Avv. Luciano Spagnuolo Vigorita - Studio Associato Legale Tributario
1. Premessa
Analizzate sinora le cause, le manifestazioni e gli effetti del mobbing,
ed avendone quindi ben chiara la definizione, è possibile ora delineare il
quadro normativo generale che, nell'ordinamento attualmente vigente, costituisce
riferimento per la tutela del lavoratore nel caso in cui sia sottoposto a
persecuzioni psicologiche.
Come già emerso nei precedenti interventi, infatti, anche in carenza di una
legislazione ad hoc la giurisprudenza ha sviluppato, utilizzando norme già
esistenti, delle ricostruzioni giuridiche che permettono di sanzionare il mobbing
e molti dei singoli comportamenti ad esso ascrivibili.
Esamineremo qui gli strumenti di tutela che sono già rinvenibili
nell'ordinamento e, in seguito, forniremo una breve illustrazione dei progetti e
disegni di legge che sono stati presentati, sia in epoca molto recente sia da
diversi anni, in materia di molestie morali sul luogo di lavoro.
2. Il quadro normativo attuale
Nella ricerca di una disciplina giuridica che permettesse, da
un lato, la tutela del lavoratore ed il risarcimento per i danni subiti in
conseguenza dei comportamenti persecutori sul lavoro e che, dall'altro,
sanzionasse e scoraggiasse detti comportamenti, la giurisprudenza consolidata ha
fatto uso di diversi principi e norme appartenenti a molteplici rami del
diritto. Sono richiamabili in materia sia disposizioni internazionali e
comunitarie sia norme costituzionali, nonché regole civilistiche, penali e
legislazioni speciali (Statuto dei lavoratori, disciplina di tutela della salute
e sicurezza sul lavoro). Il mobbing, infatti, costituisce una fattispecie
complessa che comporta il coinvolgimento (e la compromissione) di diritti
fondamentali non solo dell'individuo in qualità di prestatore di lavoro, ma
anche della persona in quanto tale. Ne deriva la costruzione di un articolato
impianto normativo dove le regole vengono a combinarsi e sovrapporsi, in
relazione alle modalità concrete di attuazione delle condotte persecutorie ed
ai beni giuridici che esse ledono.
La nostra trattazione riguarderà le norme di tutela civilistica,
anche se non potranno essere sottaciute le principali norme penali rilevanti.
2.1. Le norme cardine della tutela
La base della ricostruzione giurisprudenziale consolidata in
questa materia, che tiene conto dei principi fondamentali, comunitari e
costituzionali, è costituita da una lettura combinata delle norme
costituzionali di cui all'art. 32 Cost. (che sancisce il diritto primario ed
assoluto alla salute) ed all'art. 41, comma 2, Cost. (che pone un limite al
principio della libertà di iniziativa economica privata laddove ne vieta
l'esercizio con modalità tali da pregiudicare la sicurezza e dignità umana)
con le norme civilistiche contenute nell'art. 2087 c.c. (che individua la
responsabilità contrattuale del datore di lavoro) e/o nell'art. 2043 c.c. (che
delinea invece la responsabilità extra-contrattuale), nonché negli artt. 1175
e 1375 c.c., (principi di correttezza e buona fede). In particolare, l'art. 2087
c.c., che, ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal
contratto di lavoro, dispone che "L'imprenditore è tenuto ad adottare
nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del
lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro", è
interpretato in quest'ambito dalla costante giurisprudenza come norma di
chiusura del sistema di protezione del lavoratore, che impone al datore di
lavoro non solo l'adozione delle misure richieste specificamente dalla legge,
dall'esperienza e dalle conoscenze tecniche, ma anche l'obbligo più generale di
attuare tutte le misure generiche di prudenza e diligenza necessarie al fine di
tutelare l'incolumità ed integrità psico-fisica del lavoratore. Da questa
disposizione viene quindi fatto derivare sia il divieto per il datore di lavoro
di compiere direttamente qualsiasi comportamento (quale ne siano la natura o
l'oggetto) lesivo dell'integrità fisica e della personalità morale del
dipendente, sia di prevenire e scoraggiare la realizzazione di simili condotte
nell'ambito ed in connessione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.
L'inadempimento di tale suo obbligo, genera la responsabilità contrattuale del
datore di lavoro.
In giurisprudenza è stato chiarito che la responsabilità diretta ex
art. 2087 c.c. del datore di lavoro per la lesione della salute del
lavoratore è esclusa quando sono eccezionali, inevitabili ed assolutamente
imprevedibili le conseguenze che in concreto scaturiscono, per il soggetto
passivo, dall'atteggiamento perpetrato in azienda (in questo caso si è ritenuto
non sussistente il nesso causale). Infatti, "per accertare se una condotta
umana sia (..) causa (..) di un determinato evento, è necessario stabilire un
confronto tra le conseguenze che, secondo un giudizio di probabilità ex ante,
essa era idonea a provocare e le conseguenze in realtà verificatesi, le quali,
ove non prevedibili ed evitabili, escludono il rapporto eziologico tra il
comportamento umano e l'evento, sicché, per la riconducibilità dell'evento ad
un determinato comportamento, non è sufficiente che tra l'antecedente ed il
dato conseguenziale sussista un rapporto di sequenza, occorrendo invece che tale
rapporto integri gli estremi di una sequenza costante, secondo un calcolo di
regolarità statistica, per cui l'evento appaia come una conseguenza normale
dell'antecedente."
La considerazione dell'inadempimento dell'obbligo del datore di lavoro di porre
in essere tutte le misure necessarie al fine di proteggere l'integrità
psico-fisica del lavoratore acquista particolare rilievo laddove si consideri
che il datore venuto al corrente di condotte illegittime perpetrate dai suoi
dipendenti ha a disposizione strumenti per intervenire a tutela dei lavoratori
vessati.
In giurisprudenza è stata riconosciuta, infatti, la legittimità
del licenziamento in tronco di lavoratori che abbiano posto in essere delle
gravi condotte nei confronti di altri dipendenti. In particolare, ciò si è
verificato con riferimento a comportamenti di molestia sessuale (e anche se il
lavoratore era stato assolto in sede di giudizio penale), e in un caso in cui il
superiore gerarchico, che aveva tentato in modo molesto di instaurare una
relazione sentimentale con una dipendente a lui subordinata gerarchicamente, la
aveva poi sottoposta a vessazioni e discriminazioni.
Oltretutto, è stato anche ritenuto in giurisprudenza che il licenziamento
disciplinare può in questi casi così gravi, ed in generale in tutti i casi di
comportamenti "lesivi dell'interesse dell'impresa e manifestamente contrari
all'etica comune o contraddistinti da rilevanza penale," essere fondato
direttamente sulla legge, senza che sia necessaria la previsione nel codice
disciplinare di tali condotte. Tali comportamenti, infatti, violano i doveri
fondamentali del lavoratore ed i principi della convivenza civile, e sono tali
da manifestare "consapevole ribellione o trascuratezza dell'autore del
fatto nei confronti dell'assetto organizzativo in cui è inserito."
Il potere del datore di sanzionare disciplinarmente i lavoratori
che mettono in atto comportamenti molesti verso altri può valere non solo nei
casi in cui le condotte lesive siano compiute ad opera dei superiori nei
confronti dei soggetti sottoposti al loro potere gerarchico, ma anche
nell'ipotesi opposta: il datore di lavoro può sanzionare, specificamente
recedendo dal rapporto di lavoro, le condotte gravemente offensive, gli insulti,
ingiurie e minacce dei lavoratori di livello inferiore nei confronti dei
superiori. In tali condotte sono state spesso riscontrate lesioni del prestigio
del datore di lavoro per il buon andamento dell'azienda, negazione del potere
gerarchico e rifiuto di obbedienza all'ordine di lavoro legittimamente dato (con
violazione dei diritti del datore all'ordinato adempimento della prestazione
lavorativa e corrispondente violazione degli obblighi del lavoratore di
diligenza e di osservanza delle disposizioni dettate per l'esecuzione e la
disciplina del lavoro). È stato anche ritenuto licenziabile il lavoratore
risultato essere il responsabile di diverbi ripetuti, tali da determinare un
ambiente lavorativo insopportabile.
Secondo certa giurisprudenza, la responsabilità contrattuale ex art.
2087 c.c., sin qui analizzata, può concorrere con quella extracontrattuale
originata dalla violazione di diritti soggettivi primari (vengono ancora qui in
rilievo la lesione del diritto alla salute ex art. 32 Cost. e di quello
alla sicurezza e dignità - nella specie, dei lavoratori - sancito dall'art. 41,
comma 2, Cost.), poiché sul datore di lavoro grava il generale obbligo di neminen
ledere previsto dall'art. 2043 c.c. ed anche quello specificamente stabilito
dall'art. 2049 c.c. (responsabilità indiretta dei padroni e committenti per il
fatto illecito dei loro dipendenti commesso nell'esercizio delle incombenze
lavorative).
2.2. Le altre norme rilevanti
Le norme appena richiamate non esauriscono il quadro normativo
di riferimento del mobbing: se esse rappresentano le disposizioni che la
giurisprudenza ha sempre applicato nelle sue decisioni al fine di garantire un
risarcimento al lavoratore leso, è pur vero che altre norme fondamentali
vengono comunque in rilievo e che ulteriori (specifiche) disposizioni devono
essere combinate a quelle basilari in relazione all'articolarsi, nel caso
concreto, delle specifiche condotte lesive.
2.2.1. Norme fondamentali, interne ed internazionali
Tra le norme fondamentali che rivestono rilievo in materia di mobbing,
si annoverano disposizioni sia costituzionali sia internazionali e comunitarie,
cui la giurisprudenza ha attinto per coordinare ed interpretare le norme che ha,
come appena evidenziato, direttamente applicato nel sanzionare le condotte
lesive.
Nella Costituzione, assumono importanza a riguardo l'art. 2, che
riconosce e garantisce "i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo
sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità," l'art. 4,
che sancisce il diritto al lavoro e la promozione delle condizioni che lo
rendano effettivo, l'art. 13 che riconosce il diritto inviolabile alla libertà
personale, l'art. 35, che al primo comma prevede che "la Repubblica tutela
il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni" ed al secondo menziona la
cura dell'elevazione professionale dei lavoratori, l'art. 46, che, ai fini
dell'elevazione economica e sociale del lavoro, riconosce il diritto dei
lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende.
Nel diritto internazionale, a riconoscimento (e tutela, ovviamente
nei limiti di sanzionabilità propri di questo ordinamento) dei diritti
fondamentali della persona, particolare rilievo rivestono la Dichiarazione
Universale dei diritti dell'uomo (New York, 10 dicembre 1948), la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
(Roma, 4 novembre 1950), la Carta sociale europea (Torino, 18 ottobre 1961), i
Patti ONU sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e
culturali (16 dicembre 1966).
In particolare nel diritto comunitario, sono rilevanti la Carta
comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori (Strasburgo, 9 dicembre
1989) ed i principi ricavabili dalla recente Risoluzione del Parlamento sul
rispetto dei diritti dell'uomo nell'Unione Europea del 1997, che: tra gli altri
diritti fondamentali, riafferma il diritto al rispetto della vita privata e
familiare, della libertà di opinione e di espressione, il diritto al lavoro, il
diritto all'organizzazione collettiva degli interessi; esprime preoccupazione
per l'aumento della violenza nei luoghi di lavoro, che va "dalla rissa
all'aggressione fisica passando per le molestie sessuali e le angherie;"
ribadisce i fondamenti giuridici della lotta contro le discriminazioni ed il
razzismo.
2.2.2. Norme che devono, nella fattispecie specifica, essere
considerate
Oltre alle norme di applicazione generale, esistono
nell'ordinamento norme, spesso molto rilevanti, che possono e devono essere
applicate se, nel caso concreto, si verificano i comportamenti che ne integrano
la fattispecie.
Richiamando qui quanto esposto nel trattare i singoli
comportamenti ascrivibili al mobbing nella nostra prima relazione,
rileviamo innanzitutto che la prima tra tutte queste norme è la disposizione
contenuta nell'art. 2103 c.c. (che vieta le ipotesi di demansionamento e
dequalificazione, e la cui violazione dà luogo al risarcimento del danno alla
professionalità): ciò perché la non osservanza di questa norma si verifica
molto frequentemente, come dimostrato dalla cospicua giurisprudenza in materia.
Inoltre, se il comportamento di mobbing si sostanzia o
comporta una qualsiasi forma di discriminazione saranno applicabili le norme
antidiscriminatorie (anche di rango costituzionale ed internazionale).
Segnatamente, l'art. 3 Cost., che riconosce il diritto all'uguaglianza formale e
sostanziale, buona parte degli articoli contenuti nel Titolo III della
Costituzione (rapporti economici: art. 35, ultimo comma, per la libertà di
emigrazione e la tutela del lavoro italiano all'estero, art. 37, comma 1 per il
lavoro femminile, art. 39 per la libertà sindacale); le norme internazionali e
comunitarie in tema di divieto di discriminazione sul lavoro; lo Statuto dei
Lavoratori, all'art. 15, comma 1, lettera b, e comma 2, che vieta gli atti a
qualsiasi titolo discriminatori durante il rapporto di lavoro, all'art. 19 sulla
libertà sindacale, all'art. 8 che vieta le indagini di opinione, nella misura
in cui, non essendo giustificate da esigenze lavorative, potrebbero nella
pratica indurre il datore a discriminare il lavoratore a causa delle sue
opinioni; infine, la legislazione specifica a tutela della non discriminazione
per il lavoro femminile (L. 9 dicembre 1977, n. 903 e L. 10 aprile 1991, n. 125
sulle "azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel
lavoro") e per i portatori di infezione HIV (art. 5, L. 5 giugno 1990, n.
135).
Nel caso in cui, come si è verificato, il comportamento del datore
di lavoro consista nel richiedere ripetutamente all'Inps di effettuare le visite
mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del dipendente, può
essere verificato il mancato rispetto dell'art. 5, St. Lav., in tema appunto di
accertamenti sanitari.
Se il comportamento datoriale si concreta nella pressione per
indurre il lavoratore alle dimissioni o comunque ne altera il comportamento a
tal punto che il lavoratore si dimette, come già evidenziato sono applicabili
anche l'art. 428 c.c. o l'art. 1434 c.c., ai fini dell'impugnazione delle
dimissioni.
Potrebbe anche verificarsi il caso che, in relazione a casi di mobbing,
siano violate norme disposte dal D.Lgs. n. 626/1994 in tema di salute e
sicurezza nell'ambito lavorativo, in attuazione delle Direttive comunitarie al
fine di introdurre un nuovo modello di impresa sicura, compartecipativa e
funzionante nella sinergia tra datore di lavoro e lavoratori.
Rilevano qui la generale disposizione dell'art. 5, comma 1, che
stabilisce che "ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria
sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul
luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o
omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi
forniti dal datore di lavoro" (obbligo che è ragionevole ipotizzare che
possa essere disatteso dal lavoratore che si trovi in stato di tensione emotiva
e di disagio psicologico) e quella dell'art. 5, comma 2, lettera h), secondo la
quale i lavoratori sono chiamati a contribuire "insieme al datore di
lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all'adempimento di tutti gli obblighi
imposti dall'autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza
e la salute dei lavoratori durante il lavoro", sanzionata penalmente in
caso di omissione.
Ancora, nel caso in cui la condotta di mobbing causi un
danno alla salute ed integri il reato di lesioni personali, potrebbero trovare
applicazione l'art. 582 c.p. (lesione personale) e l'art. 590 c.p. (reato di
lesioni personali colpose), che sanziona, con previsione generale, chi cagiona
per colpa una lesione personale ad altri soggetti.
Per quanto riguarda la condotta di molestie sessuali, esse può
integrare il corrispondente reato (disciplinato della L. n. 66/1996). Sul tema
riveste particolare rilievo anche l'ordinamento comunitario, in particolare con
la Risoluzione del Parlamento 11 giugno 1986 sulla violenza contro le donne, la
Risoluzione del Consiglio 29 maggio 1990 sulla protezione della dignità della
donna e dell'uomo sul lavoro (che invita gli Stati membri a ricordare ai datori
di lavoro la loro responsabilità di cercare di assicurare che l'ambiente di
lavoro sia libero dalle condotte lesive di natura sessuale e dalla
vittimizzazione di chi denuncia il fatto o fornisce prove in caso di gravame),
la Raccomandazione della Commissione CE, 27 novembre 1991 ed il Codice di
condotta emanato di conseguenza, come auspicato in tali atti. Queste
indicazioni sono ora disposte a tutela dei lavoratori di entrambi i sessi,
contro condotte comprendenti anche quelle attuate da superiori e colleghi e che
sono qualificate come "intollerabili violazioni della dignità dei
lavoratori" (e, in certi casi, considerare contrarie al principio di uguale
trattamento di cui alla Direttiva 76/207/EEC).
Infine, è stata ipotizzata la possibile integrazione di abuso di
ufficio (art. 323 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), e dell'aggravante per
aver commesso il fatto con abuso di autorità, di relazioni d'ufficio o di
prestazione d'opera (art. 61 n. 11 c.p.c.).
3. I disegni, progetti e proposte di legge
Come più volte accennato, in materia di mobbing sono
stati presentati in Parlamento diversi disegni, progetti, e proposte di legge
aventi finalità preventive e di informazione ma anche repressive. Molti di essi
sono recenti, tuttavia ve ne sono alcuni che erano stati presentati già anni
addietro, ma per i quali l'interesse è ora rinnovato, in occasione della
diffusione della conoscenza di questo problema.
I testi che mirano proprio a tutelare il mobbing sul luogo
di lavoro (definito prevalentemente come violenza o persecuzione psicologica,
terrorismo psicologico) sono il progetto di legge Camera 1813, il progetto di
legge Camera 6410, il disegno di legge Senato 4265, il disegno di legge Senato
4313, il progetto di legge Senato 4512. Su di essi, ovviamente, ci soffermeremo
più approfonditamente.
Inoltre, ma con riferimento alle violenze morali e persecuzioni
psicologiche in generale, quindi in ogni ambito nel quale si manifesta la
personalità umana e non solo in quello lavorativo, è stato presentato il
progetto di legge Camera 6667. Il progetto di legge ha il titolo
"Disposizioni per la tutela della persona da violenze morali e persecuzioni
psicologiche" ed è stato presentato alla Camera il giorno 5 gennaio 2000.
Esso prevede sanzioni penali per chi pone in essere "atti di violenza
psicologica" nei confronti di "altri costretti a subire tali atti a
causa di uno stato di necessità," sanzioni che sono aumentate nel caso in
cui tali condotte comportino "per la persona offesa anche danni
psico-fisici o danni materiali ed economici." All'art. 4, il progetto di
legge individua i comportamenti che integrano la fattispecie generale appena
definita.
Infine, in relazione allo svolgimento del lavoro ma limitatamente
alla sola condotta di molestie sessuali, sono stati presentati i progetti di
legge Senato 4817, Camera 601 e Camera 5090.
3.1 . Il progetto di legge Camera 1813
Il più risalente progetto di legge presentato sul mobbing
nell'ambiente di lavoro è anche quello che più si distacca dagli altri in
materia : infatti, esso consiste di un solo articolo che prevede la
sanzione del comportamento lesivo sotto il profilo penale. Il progetto, che reca
"norme per la repressione de terrorismo psicologico nei luoghi di
lavoro", nell'unica norma dispone che: "Chiunque cagiona un danno ad
altri ponendo in essere una condotta tesa ad instaurare una forma di terrore
psicologico nell'ambiente di lavoro è condannato alla reclusione da 1 a 3 anni
e all'interdizione dai pubblici uffici fino a tre anni." Nel comma 2, sono
specificate, con formulazione sintetica ma che rispecchia i risultati già
raggiunti nella sociologia, psicologia e medicina del lavoro, le azioni che
integrano la condotta delittuosa: "molestie, minacce, calunnie e ogni altro
atteggiamento vessatorio che conduca il lavoratore all'emarginazione, alla
diseguaglianza di trattamento economico e di condizioni lavorative,
all'assegnazione di compiti o funzioni dequalificanti."
3.2. Il disegno di legge Senato 4265
Il disegno di legge Senato 4265, porta il titolo "Tutela
della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni psicologiche
nell'ambito dell'attività lavorativa." Come risulta dalla relazione che lo
accompagna, il d.d.l. ha, innanzitutto, lo scopo di "favorire una azione
preventiva efficace," tramite l'informazione-sensibilizzazione e
l'intervento prima che le condotte di mobbing abbiano cagionato danni, ma
anche quello di fornire, comunque, strumenti di tutela ex post,
repressivi e riparatori. E ciò non solo al fine, etico e di giustizia, della
"tutela individuale della dignità ed integrità della persona," per
la correttezza nei rapporti umani e la civile convivenza e coesione, ma anche a
quello, di opportunità economica, di impedire la "generazione di
diseconomie interne ed esterne al luogo di lavoro," per il buon
funzionamento delle aziende e la minimizzazione dei costi sociali e sanitari. É
ivi infatti ritenuto che la menomazione dell'opportunità di autorealizzazione
che l'individuo trova nel lavoro ha effetti negativi su entrambi questi aspetti,
mentre "la cooperazione nel lavoro è la migliore strada per una adeguata
utilizzazione e valorizzazione delle risorse umane." Nella sua formulazione
il disegno di legge tiene conto e ne ricava spunti, degli studi anglosassoni, e
particolarmente di quelli che sono stati considerati ed hanno fornito spunti gli
studi scandinavi.
Il D.d.l. tutela ogni lavoratore impiegato in "tutte le
tipologie di lavoro, pubblico e privato, comprese le collaborazioni,
indipendentemente dalla loro natura, mansione e grado," e definisce i
comportamenti cui esso si applica (identificanti quindi il mobbing) come
"violenze morali e persecuzioni psicologiche perpetrate in ambito
lavorativo" (artt. 1 e 2). Integrano tale nuova fattispecie
tutte le azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un
lavoratore e sono svolte con carattere sistematico, duraturo e intenso.
All'interno di questa ampia definizione generale, conforme a quella
raggiunta nella psicologia del lavoro, il d.d.l. fornisce un elenco di
comportamenti specifici che, per costituire "violenze morali e persecuzioni
psicologiche," devono "mirare a discriminare, screditare o, comunque,
danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale
e informale, grado di influenza sugli altri." Sono inoltre aggiunti altri
comportamenti che vengono considerati nel d.d.l. allo stesso modo, ed è
previsto che "ciascun elemento concorre individualmente nella valutazione
del livello di gravità." Come si può notare, la copiosa enumerazione di
tali singole condotte rispecchia sia in larga misura i risultati già raggiunti
nel nostro ordinamento in materia, sia quelli degli studi scientifici in materia
di psicologia, medicina e sociologia del lavoro. Inoltre, il d.d.l. accoglie
l'estensiva definizione sviluppatasi
in quell'ambito anche quando riconosce espressamente che le condotte lesive
possono essere "comunque attuate" non solo dal datore di lavoro o da
superiori, ma anche da pari-grado o inferiori.
Singolare è la previsione, che forse meriterebbe
considerazioni a parte, secondo la quale "ai fini dell'accertamento della
responsabilità soggettiva, l'istigazione é considerata equivalente alla
commissione del fatto."
Per quanto riguarda gli interventi a fini preventivi, l'art. 3
prevede l'obbligo per i datori di lavoro e le rappresentanze sindacali aziendali
di effettuare azioni di informazione periodica verso i lavoratori, azioni che
"concorrono ad individuare, anche a livello di sintomi, la manifestazione
di condizioni" dei comportamenti lesivi. É stabilito espressamente che
tale attività informativa deve riguardare anche "gli aspetti organizzativi
- ruoli, mansioni, carriere, mobilità - nei quali la trasparenza e la
correttezza nei rapporti aziendali e professionali deve essere sempre
manifesta." Altri strumenti informativi previsti sono: la comunicazione del
Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale relativa alla tutela dalle
violenze morali e dalla persecuzione psicologica nel lavoro, che deve essere
consegnata dal datore di lavoro ai lavoratori, al momento della formalizzazione
di qualsiasi tipo di rapporto di lavoro e affissa nelle bacheche aziendali; due
ore aggiuntive di assemblea su base annuale, fuori dall'orario di lavoro, per
trattare questo tema, cui possono partecipare rappresentanze sindacali
aziendali, dirigenti sindacali ed esperti.
In riferimento agli interventi da attuare prima che le violenze morali e
persecuzioni psicologiche abbiano cagionato danni, l'art. 3, comma secondo,
stabilisce che quando sono denunciati i comportamenti lesivi al datore di lavoro
e alle rappresentanze sindacali aziendali, questi due soggetti devono attivare
"procedure tempestive di accertamento dei fatti denunciati e misure per il
loro superamento," per la predisposizione delle quali "vengono sentiti
anche i lavoratori dell'area aziendale interessata ai fatti accertati."
Per quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti illeciti,
l'art. 4 stabilisce che sia nei confronti di coloro che attuano le azioni
lesive, sia di chi denuncia consapevolmente violenze morali e persecuzioni
psicologiche che si rivelino inesistenti per ottenere vantaggi comunque
configurabili, "si può realizzare responsabilità disciplinare, secondo
quanto previsto dalla contrattazione collettiva." L'art. 5, inoltre,
prevede, per il lavoratore che abbia subito il comportamento lesivo e che non
ritenga di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti
collettivi, la possibilità di adire il giudice ex art. 413 c.p.c. e di
promuovere il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., anche attraverso le
rappresentanze sindacali aziendali. Sempre l'art. 5 sancisce la condanna ad
opera del giudice del responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento
del danno, da liquidarsi in forma equitativa. In mancanza di ulteriori
precisazioni a riguardo, è stato rilevato in dottrina che essa potrebbe
ipotizzare il risarcimento del danno biologico, del danno morale ex art.
2059 c.c. slegato dall'integrazione di un reato e del danno professionale (da
dequalificazione o perdita di chances di carriera). Infine, l'art. 7 recita:
"Su istanza della parte interessata, il giudice può disporre che del
provvedimento di condanna o di assoluzione venga data informazione, a cura del
datore di lavoro, mediante lettera ai dipendenti interessati, per reparto e
attività, dove si é manifestato il caso di violenza morale e persecuzione
psicologica, oggetto dell'intervento giudiziario, omettendo il nome della
persona che ha subíto tali azioni di violenza e persecuzione."
L'art. 8 prevede la nullità di tutti gli atti o fatti che derivano
da comportamenti lesivi, nonché la presunzione, salvo prova contraria ex art.
2728, comma secondo, c.c., del contenuto discriminatorio dei provvedimenti, in
qualunque modo peggiorativi della condizione professionale, relativi alla
posizione soggettiva del lavoratore che abbia posto in essere una denuncia per
violenze morali e persecuzioni psicologiche, adottati entro un anno dal momento
della denuncia, compresi i trasferimenti e i licenziamenti ("atti
discriminatori e di ritorsione").
L'art. 6 stabilisce che "le variazioni nelle qualifiche, nelle
mansioni, negli incarichi, nei trasferimenti o le dimissioni, determinate da
azioni di violenza morale e persecuzione psicologica, sono impugnabili ai sensi
e per gli effetti di cui all'articolo 2113 c.c., salvo risarcimento dei
danni" come stabilito dall'articolo 5 del D.d.l. Come noto, l'impugnabilità
ex art. 2113 c.c. evita che la prescrizione decorra in corso di rapporto
lavorativo (come avviene invece in regime di stabilità reale del posto di
lavoro).
3.3. Il progetto di legge Camera 6410
Il giorno 30 settembre 1999, pochi giorni prima rispetto al
D.d.l. appena trattato, è stata presentata alla Camera la proposta di legge
(Camera 6410) dal titolo "Disposizioni a tutela dei lavoratori dalla
violenza e dalla persecuzione psicologica."
Molti sono i punti di contatto con il D.d.l. Senato 4265. Infatti,
anche il progetto di legge sottoposto alla Camera: muove dai risultati degli
studi anglosassoni di psicologia del lavoro e dalle statistiche relative; rileva
l'esigenza di una regolamentazione del mobbing sia allo scopo di tutelare
la dignità umana e l'integrità psico-fisica dei lavoratori sia di minimizzare
i costi dati dalla formazione di diseconomie interne all'azienda e per la cura
dei danni provocati dalle condotte lesive, con conseguente accentuazione
dell'importanza delle iniziative preventive, e particolarmente di quelle
informative; è applicabile sia ai datori di lavoro privati sia a quelli
pubblici; prevede due ore supplementari su base annuale per effettuare riunioni
informative sul problema, fuori dall'orario di lavoro; prevede l'applicazione
delle sanzioni disciplinari a chi commette le azioni persecutorie o a chi
denuncia consapevolmente il compimento di vessazioni inesistenti, al fine di
ottenere vantaggi comunque configurabili; prevede, negli stessi termini, la
tutela giudiziale ed il risarcimento del danno liquidabile in forma equitativa.
Tuttavia, tra le due proposte vi sono alcune differenze, che
meritano di essere sottolineate, seppur sinteticamente.
L'art. 1, fornisce la definizione di mobbing specificando di
disporre la tutela dei lavoratori da "atti e comportamenti ostili che
assumono le caratteristiche della violenza e della persecuzione psicologica,
nell'ambito dei rapporti di lavoro." La fattispecie "violenza e della
persecuzione psicologica" è integrata dagli "atti posti in essere e i
comportamenti tenuti da datori di lavoro, nonché da soggetti che rivestano
incarichi in posizione sovraordinata o pari grado nei confronti del lavoratore,
che mirano a danneggiare quest'ultimo e che sono svolti con carattere
sistematico e duraturo e con palese predeterminazione." Al di là della
differenza terminologica nella definizione dei comportamenti lesivi e nel
requisito della palese predeterminazione invece che dell'intensità, viene in
rilievo qui un'importante differenza rispetto al D.d.l. Senato 4265: la
limitazione della definizione di mobbing a quelli posti in essere da
colleghi fino al pari grado rispetto a chi subisce i comportamenti lesivi, con
esclusione invece di quelli posti in essere da dipendenti con posizione
inferiore nella gerarchia aziendale: la nozione è quindi più restrittiva, e si
discosta da quella prospettata dalla psicologia del lavoro.
L'art. 1 fornisce anch'esso un elenco di comportamenti rilevanti
(precisando che essi "si caratterizzano per il contenuto vessatorio e per
le finalità persecutorie, e si traducono in maltrattamenti verbali e in
atteggiamenti che danneggiano la personalità del lavoratore, quali il
licenziamento, le dimissioni forzate, il pregiudizio delle prospettive di
progressione di carriera, l'ingiustificata rimozione da incarichi già affidati,
l'esclusione dalla comunicazione di informazioni rilevanti per lo svolgimento
delle attività lavorative, la svalutazione dei risultati ottenuti"), ma
rinvia ad un decreto da emanarsi ad opera del Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, per l'individuazione delle fattispecie di violenze e
persecuzioni rilevanti ai fini del provvedimento. L'elencazione già fornita
nell'articolo non è perciò esauriente ed è solo esemplificativa.
É espressamente delineato l'ambito in cui il danno di natura
psico-fisica provocato dagli atti e comportamenti lesivi rileva ai fini del
provvedimento: ciò avviene quando esso comporta la menomazione della capacità
lavorativa, ovvero pregiudica l'autostima del lavoratore che li subisce, ovvero
si traduce in forme depressive (art. 1, comma quarto). In questi precisi
termini, è comunque riconosciuta la rilevanza del danno biologico, che si
differenzia dalla menomazione della capacità lavorativa e comprende le altre
due eventualità prospettate dall'articolo.
L'art. 2 prevede anch'esso l'annullabilità degli atti e delle decisioni
"concernenti le variazioni delle qualifiche, delle mansioni, degli
incarichi, ovvero i trasferimenti, riconducibili alla violenza e alla
persecuzione psicologica" ma stabilisce solo che essi sono annullabili a
richiesta del lavoratore danneggiato, non facendo alcun riferimento, invece,
all'art. 2113 c.c.
Per quanto riguarda le azioni di prevenzione ed informazione, oltre
al menzionato decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale ed alle
due ore supplementari per assemblee informative, l'art. 3 prevede che "i
datori di lavoro e le rispettive rappresentanze sindacali adottano tutte le
iniziative necessarie allo scopo di prevenire la violenza e la persecuzione
psicologica (…) ivi comprese le informazioni rilevanti con riferimento alle
assegnazioni di incarichi, ai trasferimenti, alle variazioni nelle qualifiche e
nelle mansioni affidate, nonché tutte le informazioni che attengono alle
modalità di utilizzo dei lavoratori," e che tali informazioni, insieme al
decreto ministeriale contenente le fattispecie sanzionate, devono essere affisse
nelle bacheche aziendali.
Relativamente alle misure da intraprendere tempestivamente, l'art.
3 prosegue prevedendo che in caso di denuncia dei comportamenti lesivi al datore
di lavoro ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali, "questi ultimi
hanno l'obbligo di porre in essere procedure tempestive di accertamento dei
fatti denunciati, eventualmente anche con l'ausilio di esperti esterni
all'azienda", ed "il datore di lavoro è tenuto ad assumere le misure
necessarie per il loro superamento" (dal tenore della frase sembra che
quest'ultimo obbligo sia posto solo a carico del datore di lavoro, e non anche
delle OO.SS., come invece nel D.d.l. al Senato). É previsto che
"all'individuazione di tali misure si procede mediante il concorso dei
lavoratori dell'area aziendale interessata ai fatti accertati."
Per quanto riguarda la pubblicità del provvedimento del giudice,
l'art. 6 prevede che il giudice può disporre che sia data informazione del
provvedimento di condanna (mentre nulla è detto di quello di assoluzione, a
differenza di quanto stabilito dal D.d.l. Senato 4265), indicando se debba
essere omesso il nome della persona che ha subito tali violenze o persecuzioni.
3.4. Il disegno di legge Senato 4313
In buona parte analogo ai progetti illustrati sinora è il
disegno di legge Senato 4313, comunicato alla presidenza il 2 novembre 1999, che
reca "Disposizioni a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici dalla
violenza psicologica."
Tuttavia, questo disegno di legge presenta dei tratti distintivi:
innanzitutto, esso disciplina espressamente, all'art. 4, la condotta di
"strategia societaria illecita", vale a dire il comportamento del
datore di adottare strategie, "con lo scopo di provocare le dimissioni o il
licenziamento di uno o piú lavoratori, al fine di ridurre o razionalizzare il
proprio personale": in questo caso, è previsto che il giudice possa
disporre per gli amministratori o i responsabili l'interdizione per un anno da
qualsiasi ufficio.
Inoltre, nel prevedere l'obbligo del datore e dei sindacati di
accertare la sussistenza di comportamenti lesivi e di assumere i provvedimenti
necessari per il loro superamento, stabilisce specificamente che l'accertamento
clinico sia effettuato da consulenti e psicologi esterni, e ne determina le
modalità. Solo nel caso in cui sia accertato il fenomeno persecutorio il
lavoratore avrà diritto al rimborso, da parte del datore di lavoro, delle spese
mediche e psicoterapeutiche sostenute al fine di un suo pieno recupero
psicologico, sociale, relazionale e lavorativo.
Ancora, il d.d.l. istituisce presso la Camera di Commercio di Roma uno
"sportello unico contro gli abusi nei posti di lavoro", allo scopo di
offrire consulenza a chi si ritiene vittima di mobbing (fatto salvo il
diritto di sindacati e associazioni datoriali, secondo quanto previsto dall'art.
20, D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, di istituire appositi organismi paritetici
per promuovere la cultura della prevenzione nei confronti delle violenze
psicologiche).
Infine, la normativa proposta specifica che gli atti riconducibili
alla discriminazione sessuale, oltre ad essere nulli, devono essere
immediatamente comunicati al Ministero per le pari opportunità secondo quanto
previsto dalla legge 10 aprile 1991, n. 125.
3.5. Il progetto di legge Senato 4512
Anche il progetto di legge Senato 4512, è assimilabile ai
precedenti, salvo che per il fatto che i compiti preventivi e di accertamento
sono affidati ad organi interni appositamente costituiti (di cui fanno parte un
rappresentante del datore di lavoro, uno dei lavoratori ed un esperto nominato
dalla ASL competente per territorio) cui il lavoratore che si ritenga
danneggiato può rivolgersi. Deve essere notato che il soggetto tenuto ad
assumere le misure necessarie per la rimozione degli effetti dei fatti
denunciati resta però, comunque, il datore di lavoro (artt. 3 e 4).
Inoltre, è previsto che, a fronte del diritto del lavoratore di chiedere al
datore di lavoro informazioni relative all'assegnazione degli incarichi, ai
trasferimenti, alle variazioni di qualifiche e mansioni, il datore sia tenuto a
fornirle salvo il caso di rifiuto motivato quando possa derivare un danno per
l'azienda o i terzi.