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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Ammaniti, uno scrittore discusso

di Antonio Stanca

 

Il romano Niccolò Ammaniti è uno scrittore particolare poiché sospeso  è  ancora, in ambito critico, tra accettazione e rifiuto. Ha quarantacinque anni, ha scritto romanzi e racconti, alcuni racconti sono comparsi su riviste, alcuni romanzi hanno avuto riduzioni cinematografiche, a queste ha collaborato l’autore che, inoltre, ha preso parte a trasmissioni radiofoniche e televisive, a stesure collettive di opere. Va incontro al pubblico l’Ammaniti, si mostra ad esso, vuole farsi notare ed è riuscito visto che i successi di pubblico hanno superato finora quelli della critica.

Nel gruppo degli scrittori italiani detti “cannibali” era stato fatto rientrare dopo la pubblicazione, nel 1996, della raccolta di racconti intitolata Fango. Il gusto dell’orrido, qui evidente, aveva determinato questa catalogazione che, però, non va limitata ad un’opera o ad una fase della produzione dell’autore. Sempre egli si mostrerà attirato dagli aspetti crudeli, violenti di una situazione, li creerà, li muoverà perché con essi, con la paura, lo spavento, i danni che comportano crederà di esprimere il proprio dissenso, la propria ribellione verso una società come l’attuale che ha annullato ogni valore interiore, ogni espressione dell’anima. Sono questi interessi, queste aspirazioni  a far sì che nelle sue opere i contenuti diventino più importanti di tutto, che non ci sia molta attenzione per la forma come dichiarato dallo stesso Ammaniti. La sua lingua è diretta, immediata, mentre i contenuti sono costruiti, intricati in modo da coinvolgere più facilmente il lettore e legarlo alla narrazione. Essi si muovono tra realtà e fantasia fino a riuscire a volte eccessivi nelle loro invenzioni.

Ammaniti ha esordito nel 1994 con il romanzo Branchie!, poi, dopo il saggio del 1995 sui problemi dell’adolescenza intitolato Nel nome del figlio e scritto insieme al padre Massimo, docente di Psicopatologia generale e dell’età evolutiva presso La Sapienza, ha pubblicato nel 1996 Fango. Nel 1999 è comparso il romanzo Ti prendo e ti porto via ma la notorietà è giunta solo nel 2001 con Io non ho paura. Nel 2007 ha vinto il Premio Strega con Come Dio comanda, del 2009 è Che la festa cominci, che ora è stato ristampato nella serie Numeri Primi della Einaudi, e del 2010 Io e te. Insieme a questi romanzi Ammaniti ha scritto racconti e  si è mostrato impegnato in altre attività culturali. Le sue opere sono tradotte all’estero ed hanno riportato numerosi  riconoscimenti ma non sono mancate le critiche. Neanche quando vinse il Premio Strega si cessò di criticarlo dal momento che “ovvia” è sembrata ad alcuni critici la sua scrittura, “possibile a chiunque”. In verità la mancata cura della forma poiché convinto è l’autore che questa non sia importante, fa pensare, leggendo, a ciò che comunemente si sente, si dice e molto bisogna impegnarsi per scoprire quanto l’Ammaniti si propone di rappresentare tramite le sue trame tanto articolate.

Anche in Che la festa cominci succede così. Si deve attendere la fine del romanzo per scoprire la verità, bisogna aspettare che finiscano i clamori, i fuochi, le grida della grande festa organizzata a Roma nella sua immensa villa Ada dal ricchissimo Sasà Chiatti per sapere che Ammaniti ha voluto dire che i valori dello spirito sono più importanti di quelli della materia, che l’anima conta più del corpo. È un messaggio importante il suo ma ha bisogno di molto per emergere. Una lotta, una guerra, sembra quella dell’Ammaniti di questo romanzo, tra ricchi e poveri del mondo, forti e  deboli, potenti ed umili, una guerra che diviene quella tra buoni e cattivi, innocenti e colpevoli, santi e peccatori. Le forze oscure che, alla fine, dai sotterranei della villa emergono per distruggere i guasti, la corruzione della moderna società, esprimono la volontà dell’autore di recuperare valori, principi essenzialmente umani, interiori e di opporli a quelli esteriori, agli ornamenti, alle vanità, alle esibizioni. È animato l’Ammaniti da una tendenza, da una volontà umanitaria che di troppo rumore ha bisogno per manifestarsi e questo significa che scrittore egli sta diventando e che contrariamente alle sue convinzioni nell’opera l’importanza della lingua è pari a quella del contenuto.


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