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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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ARTURO ONOFRI
un contemporaneo tra musica, mito e poesia

di Loredana Bulla

Onofri appartiene alla prima generazione di poeti del Novecento che subisce e rielabora gli influssi del simbolismo francese e che discute Bergson nel travaglio di una ricerca linguistica che possa rinnovare la lirica italiana di quel periodo, mediante il contributo di apporti europei.

L’attività onofriana si colloca in piena età decadente tra i cui aspetti fondamentali annoveriamo, in particolar modo, il lento distacco tra intellettuali e società che si manifesta come atteggiamento di cupa stanchezza e come coscienza di vivere il tramonto di una cultura e l’agonia di una civiltà.

       Tutto questo si palesa con la fuga dell’intellettuale dalla realtà sentendo di aver perduto definitivamente la certezza di conoscerla, avvertendola anzi come un mistero.

       E’ nell’arco di questo periodo, inoltre, che si attua la crisi della parola poetica ovvero del linguaggio, inteso nella sua « globalità d’espressione artistica »   scisso, ormai, nelle due opposte polarità di forma e contenuto.

       Questa scomposizione è giudicata inaccettabile poiché il linguaggio è ritenuto un impegno vitale dell’uomo e del poeta che esprime, mediante la prerogativa linguistica, il centro del proprio essere in un mondo che sente ormai distante perché intrappolato nel vortice della distruzione.

In Italia, in particolare, tale “decadenza” si manifesta come frattura dell’unità culturale e letteraria sviluppatasi all’interno delle varie province nel secolo decimonono, con la conseguente adesione alle principali correnti culturali europee, introdotte subito quali elementi essenziali ed innovatori di un ambito bisognoso di essere rinnovato e quindi migliorato.

      Onofri vive pienamente la crisi culturale del suo tempo, constatazione che nasce da un esame delle sue prime raccolte poetiche, in  particolare  di  Liriche   (1903-1906), Poemi tragici  (1906-1907), e  Canti delle oasi  (1907-190 ), in cui si propone di sfibrare qualsiasi immagine che possa derivare dalla tradizione, impegnandosi a portare avanti un suo progetto di rinnovamento della forma che dia una ridefinizione unitaria all’immagine poetica.

       Per giungere a tale progetto Onofri si propone di instaurare una stretta relazione tra le varie componenti interne alla poesia stessa, quali ad esempio la « ritmica e la coloristica », che le permettano di assumere una vera e propria consistenza organica liberandola da ogni traccia di frammentarietà o scomposizione.

       Onofri, in questo suo tentativo di riunificazione, si serve della costante mistico­orfica che erompe con forza e, contemporaneamente, con un tocco di estrema delicatezza fra i versi delle sue poesie.

       Il mito di Orfeo (1)  viene rivalutato come principio in grado di unificare scienza e poesia, natura e arte, individuo e società, difatti Onofri utilizza l’artificio della leggenda, in questo caso quella di Orfeo, al fine di immettersi in un contesto fantastico, fuori da ogni realtà ed in particolare da quella in cui vive e nella quale non si riconosce.

Il mito di Orfeo, quindi, permette al poeta di immergersi nel mondo del sogno, del mistero, della notte, così come è toccato di fare ad Orfeo nella ricerca della sua Euridice entrando nel regno della notte perenne, a metà tra il sogno e l’irrealtà, per riportare la sua amata in vita sulla terra sfidando addirittura le potenze infernali.

Se volessimo fare un confronto tra la vita di Onofri e le vicende raccontate nel mito di Orfeo potremo paragonare la ricerca di Euridice da parte di Orfeo con l’ansia del poeta di ritrovare l’unità poetica, le potenze infernali con gli ostacoli che la società pone nella ricerca di questa unità ed infine la scomparsa di Euridice si potrebbe equiparare alla ricaduta dell’uomo nell’oscurità della notte dopo aver scoperto che la sua ricerca è un inutile sforzo di ritrovare qualcosa che ormai è perso per sempre.

Per cui gli elementi del sogno, della notte, del mistero si presentano agli occhi del poeta sia come unici espedienti che gli permettano di non pensare alla vita fuori dal suo fantasticare sia come elementi incontaminati dalla frammentarietà in cui reputa smarrita la poesia del suo tempo, così come abbiamo evidenziato sopra.

A tal proposito leggiamo la poesia Grido Notturno:

                            

                            « Notte oceanica, brivido estasiante di stelle!

S’inabissa il mio spasimo; e il livido

ciel che parea minacciare procelle

Si scioglie in un mare d’oblio.

Ma io  o musiche, in voi mi confondo,

se ancora la fievole ascolto mia voce

che affiora dal fondo

silenzio, e ricorre alla tacita foce,

a un tremulo oceano di sogno,

cui dolorando agogno

dal mio deserto atroce […]

Ma taci,mia anima, ascolta

le risonanze meste.

Il tuo spasimante grido improvviso d’angoscia

rotolando echeggia lungo l’immensa volta

della lucente cupola celeste,

e si rifrange e riscroscia

dentro i siderei silenzi

del tuo stesso pensiero.

E nel notturno abbandono

invano tu chiedi piangendo: Chi sono? »

 

Questa poesia ed in particolare l’ultima inquietante domanda finale, rispecchiano lo stato d’animo angosciato di chi vorrebbe uscire da una situazione tormentata ed opprimente ma ogni tentativo di liberazione risulta vano poiché, alla fine, ci si rende conto che l’unica vera realtà è quella in cui si vive, la stessa che rimane muta dinanzi alle grida disperate di chi vorrebbe ribellarsi e dalla quale non ci si può distaccare se non con il pensiero.

La constatazione finale, quindi, porta ogni uomo a non riconoscersi più nemmeno in se stesso.

Rileviamo, inoltre, come nel richiamo ad Orfeo, assumano un ruolo portante elementi quali il potere del canto, il richiamo dell’Infinito, la veggenza, il furore profetico, elementi notevolmente presenti in buona parte della produzione onofriana e, a testimonianza di questo particolare,   possiamo fare riferimento alla poesia   Il Cipresso :

 

                             «Agile, rapido come un pensiero

balzante dall’anima dell’ Infinito

si spreme da terra il mistero

d’un cupo cipresso.Acuito

in un desiderio lo vidi

ch’è inesprimibile, quasi

un’ansia di morte; pur ricco di nidi

fiorito di parvole vite ».

 

In questa poesia Onofri pensa l’albero del cipresso in senso metaforico per intendere un simbolo di morte, cui si frappone l’immagine della vita rappresentata dai nidi fra i rami dell’albero.

Il poeta, quindi, riesce a convogliare i due poli opposti dell’esistenza, rappresentati dalla vita e dalla morte, in un unico elemento, che in questo caso è appunto il cipresso, come se fossero degli aspetti che, pur escludendosi a vicenda, si compenetrano all’infinito lasciando intravedere un margine di speranza anche dove tutto sembra ormai giunto alla sua fine.

Sottolineiamo che, tuttavia, quello di Onofri è soltanto un pensiero da lui stesso definito «rapido» per cui il margine di speranza rappresentato dalla vita che c’è nei nidi, svanisce nel momento stesso in cui quel pensiero lascia il posto alla cupa immagine della morte.

Un influsso preponderante nella poetica onofriana, deriva da D’Annunzio, la cui poesia divenne in breve il modello di riferimento della generazione dei poeti a lui contemporanei e successivi, oltre tutto la Roma in cui vive e agisce l’appena ventenne Onofri è, dal punto di vista culturale, ancora sotto il travolgente corso della stagione dannunziana dimostratasi inimitabile e rapida nell’espansione a catena fra i vari circoli letterari e culturali, tanto che «tutti erano dannunziani nella capitale di fine secolo».

       La presenza di D’Annunzio la ritroviamo, in particolar modo, in Liriche e nei Poemi tragici anche se sotto aspetti differenti.

       In Liriche riconosciamo i netti e distinti tratti delle stilizzazioni dannunziane, la cui poesia offre al lettore un insieme di trasfigurazioni che culminano il più delle volte nell’elogio della donna e della sua bellezza, esaltazione che ritroviamo, ad esempio,  nella  poesia   L’Amante  nella  quale  Onofri  scrive :« […]Per te forse l’anima sempre si bèi/inespribilmente di morire! », nella quale morire per una donna diventa una beatificazione dell’anima, qualcosa che supera persino il potere delle parole diventando inesprimibile.

       L’interesse onofriano per D’Annunzio è riposto, però, anche su un altro aspetto fondamentale del pensiero di quest’ultimo, vale a dire sul mito del superuomo che nelle prime raccolte poetiche di Onofri e in particolare nei Poemi tragici si esplica nel continuo rimarcare d’imprese eroiche anche se l’eroe onofriano è isolato dal contesto sociale in cui vive perché, secondo il poeta, il miglioramento dell’uomo si realizza fuori dalle conquiste sociali e dal progresso tecnico.

       Leggiamo, ad esempio, le due ultime quartine della poesia Per il silenzio:

                                « Ch’io non parli superbo alla mia gente!

                Io molto l’amo ed amo i suoi dolori.

Ma che dal suo travaglio io resti fuori,

perch’io lo senta in me più grandemente.

Ed io vi prego, o uomini in tregenda

                                             che mi lasciate alla mia grande pace,

                                             dove ogni vostro strepito si tace…..

                                             Ch’io nulla oda, affinché tutto intenda».

In queste quartine se da un lato il poeta chiede di diventare un’immagine isolata dal contesto sociale in cui si ritrova a vivere, da un altro lato è proprio grazie a questo suo isolamento che vuole ritrovare se stesso per sentire su di sé le angosce ed i tormenti di una civiltà oppressa da una realtà sempre più caotica.

Questo esalta l’eroico che vive nell’intimo di ogni uomo poiché, facendosi carico dei problemi altrui, si distacca da un vivere che non gli appartiene avvertendolo come non suo, ma come estraneo alla sua realtà.

Tra la prima raccolta poetica e la seconda, quindi tra Liriche e Poemi Tragici, avvertiamo subito una notevole differenza.

       Nella prima, infatti, a scrivere è ancora un Onofri giovane ed inesperto, mentre nella seconda assistiamo al rammarico del poeta di fronte alla fragilità della condizione umana, soffocata da una realtà insensata di cui non si riescono a captare le più profonde ragioni.

      

       Le immagini principali del suo pensiero diventano la nostalgia, l’ansia per ciò che non si possiede e la noia che devasta gli animi degli uomini, teorie che si riflettono nel richiamo all’ossessione della morte e nell’idea fissa della tomba e da cui consegue la scelta del titolo: vengono definiti “tragici” proprio perché mostrano l’incapacità dell’uomo a conformarsi alle ambiguità della vita.

       Parallelamente, però, ci accorgiamo di quanto sia possente la forza di determinazione con cui il poeta ricerca una legge etica capace di conciliare la propria ansia di grandezza, fino a quando ben presto si accorge che la sua è una ricerca vaga ed inutile perché la vita è come un irrisolvibile enigma percorso solamente da profondi solchi dolorosi in cui ci si ritrova soli a combattere.

A tal proposito leggiamo in Solo:

                              « Promisi. E oggi son, fra tutti, solo.

                                       Di tale amore, di tal odio umano

                                       Non posso amar, né odiare.Sforzo vano!

                                       Son tutti in me.Io amo ed odio un solo.»

In questo caso appare chiaro il riferimento all’eroico nel costante richiamo al proprio io legato con il tema della solitudine umana spunto, quest’ultimo, che possiamo usare come anello di congiunzione con i Canti delle oasi nelle quali la solitudine diviene paradigma di salvezza che si modella non più su un tragico ed eroico destino ma nella ricerca della pace interiore, rievocata dalla figura del fanciullino che porta il poeta a riscoprire l’ingenuità puerile, quando tutto « era nuovo e bello e meraviglioso ».

       Considerata sotto tale prospettiva, questa terza raccolta sembra affrontare l’impatto con la vita in maniera più rasserenata perché tutto ciò che è passato si presenta come esitante dinanzi ad una realtà che, vista con gli occhi di un bambino, appare ancora come meta lontana ma tuttavia raggiungibile.

       Così come nel caso dei Poemi tragici, anche nei Canti delle oasi Onofri opta per un titolo emblematico, infatti il sole brucia meno proprio in prossimità dell’oasi, metafora questa che indica la ritrovata pace interiore identificata non più nella tematica della notte o del mistero, ma nella luce del giorno così come ci dimostrano i Poemi del sole:

              «E allora tutto il giorno avremo calma e sole,

                                            e sempre potremo uscire;

                                             e andremo a vedere bruciare,

     appena che il sole aggiorni,

     sui monti le carbonare;

     e a mezzogiorno, tornando, faremo,

     pei boschi  giaggioli.»     

Leggendo questa poesia notiamo subito che ci viene offerta un’immagine rasserenata e tranquilla, diversa da quella delle precedenti poesie i cui i motivi principali erano la morte,l’angoscia e le varie incognite sul proprio destino.Adesso a splendere è il sole che permette ad ogni uomo di uscire dalle ombre della notte in cui è vissuto fino ad ora per paura del fantasmi del giorno e a godere del calore di un giorno calmo e sereno.

Non trascuriamo, però, il fatto che questo cambiamento di prospettiva è dovuto al fatto che a guardare la realtà sono gli occhi di un fanciullino, inesperto di cosa sia veramente la vita e delle sofferenze che riserva ad ogni uomo.Quindi la pace e la tranquillità che vengono sottolineate in questa poesia sono solamente apparenti e non reali perché, in fondo, esistono ancora l’ansia e la paura della morte.

       Ad accomunare tutte e tre le raccolte poetiche onofriane interviene l’uso del “simbolo” ripreso dalla tradizione mistico- romantica, che si serviva di metafore, analogie e rimandi alla realtà sensibile per esprimere stati d'animo, emozioni e sentimenti, e che fa capo alle figure di Novalis e di Baudelaire conosciuti ed apprezzati dal poeta tramite un percorso di letture sostenute dalla ricca biblioteca paterna che permette al giovane Onofri di esplorare lo sconfinato mondo che si apre al di fuori della capitale in cui vive.

       Tra i simboli più usati, ricorre frequentemente l’immagine della Tana adoperata come metafora per indicare l’oscurità, una zona negatrice della luce, della libertà, del sole, la ritroviamo leggendo infatti alcune poesie della    raccolta  Liriche quali Esortazione  : «[…] Nell’oscura tana vi si annidò[…] »; oppure in  Dall’antro: «[…] Così dall’antro dove il mio destino medita d’ogni semplice elemento della Terra feconda un suo portento volubile salìa […] »; in Inanis flagrans ancora leggiamo :« […] Perché l’anima usata all’angusto abitacolo non sa cantar dei ciel l’infinito miracolo? […] ».

       Ritroviamo la stessa metafora nella raccolta Canti delle Oasi ed in particolare, in  Elegia dell’amore  dove il poeta scrive  : «[…] Entra tu nella bassa tana dov’io languisco, tu c’hai l’odore dei fieni dentro i capelli fulvi […] »

      L’incontro, in seguito, con le teorie antroposofiche steineriane e con l’occultismo, conosciuti nelle conversazioni e nelle discussioni romane in casa De Renzis, indirizzarono in senso decisamente mistico – religioso la riflessione teorica di Onofri e la successiva poesia orientandola in direzione filosofico-mistica, con l’ambizione di giungere ad esprimere la ritrovata unità dell’io creatore in una spiritualità cosmica liberata da ogni peso della materia.

       Nasce da qui la poesia costruita secondo le strutture metriche tradizionali, tesa al consolidamento metafisico della parola.

       Ad alcuni amici biografi apparve singolarmente significativa, quasi prova di una purificazione individuale, la data della morte del poeta avvenuta il Natale del 1928.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

?                       S. Salucci, Arturo Onofri, La Nuova Italia, Firenze, 1972

?                       Onofri, Poesie edite e inedite (1900- 1914), a cura di A.Dolfi, Longo, Ravenna, 1982

?                       C.D’Alessio, Il poema necessario.Poesia e orfismo in Dino Campana e Arturo Onofri, Bulzoni, Roma, 1999

?                       A.Dolfi, Arturo Onofri, La Nuova Italia, Coll. “Il Castoro”, Firenze, 1976. 


(1) Nella mitologia greca, poeta,musico e cantore tracio, figlio della musa Clio e di Apollo o della musa Calliope e del re di Tracia Eagro. Ricevette in dono da Apollo la lira e ne divenne suonatore insuperabile tra i mortali: quando suonava e cantava, piegava gli alberi e muoveva le rocce, domava le bestie feroci e faceva deviare il corso dei fiumi, inducendo tutti a seguirlo. Partecipò alla spedizione degli argonauti e salvò gli eroi distraendoli dal richiamo delle sirene e placando le tempeste marine col suo canto. Sposò Euridice, bellissima ninfa, che tuttavia morì subito dopo le nozze, morsa da un serpente mentre cercava di sfuggire alle insidie di Aristeo. Sopraffatto dal dolore, Orfeo scese negli Inferi per tentare di riportarla con sé. Incantando sia Caronte che Cerbero, custodi infernali, riuscì ad arrivare al cospetto di Persefone e Ade e dopo avere ammaliato anche loro, ottenne di trarre con sé Euridice a patto di non voltarsi a guardarla prima di avere lasciato gli Inferi. Orfeo, però non resistette e, appena intravide la luce, si voltò ed Euridice scomparve per sempre. Da allora, Orfeo si ritirò sui monti della Tracia, ma in tal modo osteggiò il culto di Dioniso, le cui seguaci, le menadi invasate, lo dilaniarono in un accesso di furore orgiastico. La sua testa mozzata e gettata nel fiume Ebro, continuò a chiamare Euridice finché approdò sulla spiaggia dell’isola di Lesbo dove la seppellirono le muse.

ARTURO ONOFRI INTERPRETE DI WAGNER

di Loredana Bulla

Il rapporto Onofri-Wagner evidenzia, innanzitutto, come la complessità del musicista diventi fluente nell’agilità dei versi di Onofri, nell’ordito dei complessi psicologici che vengono celati dal poeta dietro immagini che ritornano a sottolineare ciò che lui vuole esprimere dietro l’uso frequente di metafore che nascondono, però, il significato del destino di ogni uomo.

L’opera wagneriana Tristano e Isotta è di difficile interpretazione, non tanto per la trama quanto per i contenuti nascosti e mai esplicitamente rivelati dal musicista tedesco ma quasi sempre interiorizzati nelle intime certezze dei personaggi.

Il dramma di Wagner è quasi sempre sussurrato e mai urlato, nell’intento di attirare l’attenzione dello spettatore verso i contenuti meno manifesti ma sempre celati dietro l’apparenza.

Con questo metodo Wagner riesce a mantenere costante il “pathos” di chi si accosta alle sue opere che appaiono, il più delle volte, diverse dal consueto modo di concepire la musica.

E’ con Wagner che vengono scardinati i consueti modelli del melodramma tradizionale per cui, inevitabilmente, si assiste nelle sue opere a qualcosa di alternativo e di assolutamente originale che inizialmente risulta di difficile comprensione, ma che in seguito rapisce coinvolgendo l’animo di ciascuno nello svolgersi degli eventi.

Anche la morte non è vista come tragedia evitabile ma viene ricercata come àncora di salvezza che permetta di annullare il proprio intimo dolore e di raggiungere, finalmente, la pace tanto ricercata.

Anzi è proprio in questa rassegnazione verso la morte che abbiamo intravisto l’esaudirsi del desiderio di Tristano e Isotta di poter vivere una notte perpetua in cui le luci del giorno non abbiano ragione d’esistere.

Onofri riesce perfettamente nel suo intento di dare una spiegazione specifica e dettagliata dei propositi wagneriani seguendo, passo dopo passo, le tormentate vicende dei due protagonisti intrappolati in un destino che prima li fa innamorare per poi separarli per sempre.

Onofri non si ferma alla semplice parafrasi dei versi, ma riesce ad innestare, in un contesto omogeneo, ogni singolo aspetto del dramma dalla trama fino alla conclusione, elevando quest’ultima non a semplice “contorno” allo svolgimento dei fatti, ma a componente essenziale che esplicita i sentimenti dei due amanti anche nei momenti di più difficile comprensione trasmettendo ogni singola emozione vissuta dai protagonisti che permetta di immedesimarsi in una realtà fuori dal tempo.

E’ innegabile concepire l’interpretazione onofriana come un alto esempio trasmessoci da un poeta del 1900, che con la sua spiegazione riesce quasi a far diventare reale un dramma e la sua musica.

Tuttavia per comprendere il lavoro compiuto dal poeta e per avere ben chiari quali sono i momenti salienti che accomunano Wagner ad Onofri, è nostra intenzione procedere prima ad un’analisi della trama dell’opera al fine di capire appieno la tragicità degli eventi e in che modo le varie tematiche si innestino perfettamente con il bagaglio ideologico di Onofri.

Le gesta avventurose di Tristano, nipote e cavaliere del re Marke di Cornovaglia, sono tutte racchiuse nell’antefatto illustrato da Isotta all’ancella Brangania.

Tristano ha ucciso in duello Morold, campione d’Irlanda e promesso sposo della stessa Isotta. Ferito nello scontro e celato sotto il falso nome di Tantris, il vincitore è curato proprio da lei, inconsapevole di chi realmente fosse quello sconosciuto.

Quando, per caso, Isotta scopre chi egli fosse veramente, leva la spada per colpirlo, ma uno sguardo di Tristano arresta, in tempo, la mano vendicatrice.

Guarito, Tristano è ripartito per la sua terra, da dove è tornato per chiedere la mano di Isotta, non per sé ma per il vecchio re Marke.

       Questo lungo racconto, accompagna il viaggio che reca Isotta allo sposo reale. Ella, però, è decisa a non vedere mai la terra di Cornovaglia e, per espiare il doppio tradimento decide che Tristano deve morire ed ella con lui ed ordina alla fedele Brangania di preparare il filtro di morte.

L’ancella, tuttavia, non osa eseguire lo spietato ordine e porge invece all’ignara coppia un filtro d’amore che fa esplodere, repentinamente, un sentimento violento ed incontrollabile nel cuore dei due giovani.

Arrivati sulla terra di Cornovaglia, mentre il re sale sulla nave, accolto dalle grida esultanti dei marinai i due amanti scoprono, quindi, di essere votati alla vita e all’onta.

       La sovrumana passione domina tutto il secondo atto durante il quale si svolge uno fra i più bei momenti dell’intera opera, quello più denso di passione in cui si evince la potenza di un sentimento straordinario tramite un intenso duetto all’ombra della notte seguito da un sublime inno alla stessa invocata, ancora una volta, da entrambi gli amanti con queste parole:

«O notte eterna

dolce notte!

Augusta, sublime

Notte d’amore

Colui che tu hai stretto,

colui al quale hai sorriso

come senza timore

si sveglierebbe mai da te?

Bandisci, dunque, il timore

O dolce morte.

O ardentemente invocata

Morte d’amore! ».

Questo momento estatico, viene però interrotto dall’arrivo del sovrano guidato dal traditore Melot che, con la spada, ferisce Tristano.

       Nel terzo atto, il destino si compie.

Tristano ricondotto dallo scudiero Kurwenal nella natìa Bretagna, giace invocando la morte, unico rimedio alla lontananza dalla donna amata:

Quando Isotta arriva, è troppo tardi: Tristano si spegne invocando il suo nome: « La fiaccola, ah! La fiaccola si spenge!  A lei! A lei ! » e Isotta lo segue nel regno dell’eterna notte: « Ah! Sono io, sono io, dolcissimo amico! Su, ancora una volta odi il mio grido! Isolda chiama: Isolda è venuta a morire fedelmente con Tristano ! Mi resti muto ? Un’ora sola , un’ora sola, restami sveglio! » .

Al re Marke, giunto troppo tardi, col suo inutile perdono, non resta che benedire i cadaveri.

Il racconto si conclude con le ultime parole di Isotta:

 

<<…Nell’ondeggiante oceano

Nell’armonia sonora

   Del respiro del mondo

   Nell’alitante Tutto…..

Naufragare

   Affondare…..

    Inconsapevolmente…..

Suprema.letizia!>>.

Dopo aver esaminato la trama risulta più facile capire quali sono i motivi che spingono Onofri a considerare il Tristano e Isotta una fra le più dense opere di Wagner, opera nella quale si intrecciano i motivi dell’amore, della morte, del tradimento espressi in maniera esemplare dall’elemento musicale che riesce a rivelare gli stati d’animo dei personaggi oltre l’uso delle parole stesse, tanto che il poeta è spinto a parlare della passione di Tristano e Isotta con un intervento specifico e di interpretazione musicale costruendo un’operazione che possiamo definire sostanzialmente “mimetica” che  permette al poeta di identificarsi, sia sul piano stilistico che su quello ideologico con il modello wagneriano.

Reputiamo, inoltre, che Onofri ritrova nelle tematiche dominanti dell’opera wagneriana ed in particolare nel continuo inneggiare alla notte intesa come regno del mistero e contemporaneamente come momento del ritorno alla vita per i due amanti e nel disprezzo del giorno come causa di separazione e di ritorno alla realtà tanto disdegnata dai due protagonisti, un riscontro alle ideologie della sua prima poetica quando, rifacendosi al mito di Orfeo, vedeva nella notte l’unico momento in cui ritrovare se stessi lontani da ogni realtà che appariva insensata, causa di dolore e di sofferenza.

La realtà è identificata con le luci del giorno che illuminano le brutture di una società che solo le ombre della notte riescono a celare, quindi come un volersi nascondere dietro ciò che protegge non consentendo di vedere, così come nel Tristano e Isotta il buio della notte nasconde l’amore dei due amanti, costretto a “svanire” con le prime luci dell’alba per poi “riapparire” al crepuscolo del giorno.

Deduciamo, quindi, che con il Tristano e Isotta è come se il poeta ritrovasse pieno riscontro alle sue concezioni che optano per la fusione di parola e suono, riproponendo le stesse tematiche prima in ambito poetico e poi in quello musicale.

 Nella sua Guida al Tristano, infatti, Onofri vuole dimostrare come nella sintesi wagneriana di parola e musica stia la sostanza profonda della poesia.

Nella musica che accompagna l’opera, Onofri ritrova le sue aspettative di realizzazione spirituale espresse tramite un’opera d’arte.

Quest’ultima affermazione l’ accostiamo con quella espressa nel Nuovo Rinascimento dove l’arte è esaltata quale elemento che risveglia gli animi intorpiditi e quale anello di congiunzione con l’Infinito.

Per cui, a nostro parere, il Tristano e Isotta rappresenta per Onofri la sintesi di tutta la sua attività poetica e letteraria

 BIBLIOGRAFIA

-   GUARNIERI CORAZZOL, A., Tristano mio Tristano.Gli scrittori italiani e il caso Wagner,  Ed. Il Mulino, Bologna, 1988.

-   GUTMAN ROBERT, W., Wagner. L’uomo, il pensiero, la musica, trad.it. a cura di Bertini O. P., Ed. Rusconi Libri, Milano, 1983.

-   Tristano e Isolda, a cura di G.Manacorda, Ed. Le Lettere, Firenze, 1994.

-   Tristano e Isotta, a cura di P.Floridia, Ed. Ricordi, Milano 1999.

-   WAPNEWSKI, P., Tristano l’eroe di Wagner, Ed. Il Mulino, Bologna, 1994.

-   ONOFRI, A., Scritti musicali, a cura di A.Dolfi, Ed. Bulzoni, Roma, 1984.

-   ONOFRI, A., Nuovo Rinascimento come arte dell’Io, Ed. Laterza, Bari, 1925.

-   DAHLHAUS, C. La concezione wagneriana del dramma musicale, La Nuova Italia, Firenze, 1983.


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