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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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TRIBUTO D’AFFETTO AD UN BAMBINO CORAGGIOSO

di CARLO DE NITTI

Con la spettacolarizzazione di tutti gli eventi, le guerre sono diventate un fatto mediatico, da vedere in televisione con immagini truculente trasmesse dai telegiornali o dai talk show per fare audience, di cui non si riesce a percepire la drammaticità reale. Dietro di esse, invece, ci sono storie di vita: di soldati e di civili, di lutti, di famiglie spezzate, di vedove, di orfani, di fame, di ordinaria ma dignitosa miseria e di quotidiano eroismo per sopravvivere.

Proprio per questa dimensione patica sono appassionanti le storie raccontate da Giuseppe Decollanz - docente universitario, già Dirigente Tecnico del MPI, apprezzato studioso di storia della scuola – che, dopo circa quindici anni dal suo ultimo volume di racconti, torna a “narrare” storie di uomini, di donne e di bambini.  

Nella sua ultima fatica La guerra siamo noi. Storie dalla Basilicata, edito da Levante nella collana La bibliotechina di Tersite, le storie raccontate sono “effettivamente accadute” e sono “esistiti tutti i personaggi che ne sono protagonisti” in un piccolo centro della Basilicata, Montepeloso. Il nome è quello antico di “uno dei tanti paesi su una franosa collina della Basilicata al confine con la Puglia” (p. 29) - dalle fiere tradizioni socialiste (detta “la rossa”), diffusesi agli inizi del ‘900 (per opera dell’avv. Canio Musacchio, deputato gravinese), mantenute vive durante il Ventennio e rifiorite con il ritorno alla democrazia.

“La guerra siamo noi! Siamo noi che ci troviamo sempre in mezzo a patire, a soffrire e a morire! C’è chi la fa e chi la subisce. Noi la patiamo!” (p. 9): era il pensiero quasi unanime dei montepelosani, che vissero la feroce occupazione germanica, l’arrivo liberatorio degli angloamericani con il suo carico di speranze per l’avvenire e l’immediato dopoguerra.   

Protagonista del libro è Pippinillo, un ragazzino intelligente ed intraprendente che, nonostante la sua età, della guerra conosce già l’aspetto più tragico: il suo papà Luigi, artigliere, è caduto dopo due mesi di guerra sul fronte albanese e la mamma Antonietta compie sacrifici inenarrabili per far crescere bene i tre figli, Pippinillo ed i suoi fratelli minori, Nicolino e Raffaelino, nato due mesi dopo la morte del padre.  

Molto struggenti i luoghi in cui l’Autore parla del padre di Pippinillo che “partito da Montepeloso, per partecipare alla varie guerre combattute da Mussolini, quando lui aveva soltanto tre anni, non aveva fatto in tempo a stamparlo nella memoria, non riusciva a ridisegnarlo né con gli occhi né con la mente” (p. 179): “non era più tornato, neppure in un cassetto di ossa da deporre e sistemare nel sacrario dei Caduti d’oltremare a Bari” (p. 198).

L’assenza del padre è surrogata per Pippinillo dalla figura del nonno materno: “Nonno Nicola era tutto per lui! […] Il nonno era il suo maestro, il suo tutore, colui che gli insegnava a impugnare la falce ed a tenere il passo con la paranza dei mietitori […] era l’uomo che aveva sostituito il padre, che dall’Albania non era più tornato. Pippinillo lo amava e lo temeva; cercava in tutti i modi di aiutarlo, si amareggiava quando da lui veniva rimproverato, ma non cessava mai di tenere gli occhi fissi su di lui mentre lavorava; si sentiva come un pulcino accovacciato sotto l’ala protettrice della chioccia quando gli posava la mano sulla testa e abbozzava una lieve e breve carezza. Quando stava vicino a lui e ascoltava la sua voce, si sentiva al sicuro e quasi dimenticava di essere un povero orfanello […]” (pp. 198 – 200). Pippinillo, invece, è un bambino vivace, leader di un gruppo di suoi coetanei con cui condivide giochi e vicende che assumono spesso i contorni di lotta per la sopravvivenza (pp. 20 – 23 e 131 - 146). 

Un libro, scritto in uno stile piano ed accessibile anche da ragazze e ragazzi preadolescenti: anzi, proprio loro dovrebbero essere stimolati – in primo luogo, dai docenti - a leggerlo al fine di acquisire, attraverso la narrazione rievocativa, quella coscienza storica, che è precondizione dell’educazione alla cittadinanza attiva, postulata dalle Indicazioni programmatiche per le scuole secondarie di primo e secondo grado. 

E’ un testo da leggere tutto d’un fiato, avvincente nella sua drammaticità reale: commovente è la conclusione della storia “Il falò di Santa Lucia”, che costituisce un punto di svolta nella storia della vita del bambino protagonista: “Pippinillo può andare in collegio […] Passarono solo tre giorni, il tempo di organizzare il viaggio e mettere insieme qualche straccio di corredo; poi mamma Antonietta, accompagnata dal fratello Michele, condusse Pippinillo in collegio. Seduto sul sedile di legno di un vagone delle Ferrovie Appulo-lucane, Pippinillo vide sfumare all’orizzonte le case, i monti, le vigne del paese dove aveva vissuto fino a quel momento. Mentre andava verso nuovi luoghi, capì che quell’allontanamento sarebbe stato definitivo, perché segnava la fine dei giochi, l’addio ai compagni e l’inizio di una nuova vita” (p. 171).

Nel raccontare le vicende di Pippinillo, grandissima è la partecipazione emotiva che Decollanz esprime, la cui ragione è nella dedica agli “amatissimi  nipoti”: “far conoscere ed imparare ad amare la terra delle loro radici”. In Pippinillo - per i lettori del libro, che c’è da sperare essere tantissimi - non è difficile identificare proprio il loro nonno e la sua infanzia.


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