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Fo si racconta
(Un destino inevitabile)

di Antonio Stanca

Recentemente si è tornato a parlare di Dario Fo poiché l’autore, attore, declamatore di tante commedie, farse, ballate e canzoni, il regista teatrale e lirico, il Nobel per la letteratura (1997), è divenuto anche lo scrittore del romanzo "Il paese dei mezaràt" di prossima pubblicazione presso Feltrinelli. L’opera è curata dalla moglie Franca Rame, che ha collaborato con lui nella produzione e interpretazione di alcuni testi teatrali. In essa l’autore ripercorre gli anni dell’infanzia e prima giovinezza trascorsi in vari paesi della provincia varesina tra i quali il padre si spostava per il suo lavoro di ferroviere. Un romanzo di ricordi ma anche una ricostruzione della propria storia d’autore ed interprete, degli elementi più remoti che hanno contribuito a fare di Fo un personaggio dei nostri giorni e di tanto pubblico. In esso egli scopre una legittimazione alla sua attuale posizione, la presenta come un destino al quale non avrebbe potuto sottrarsi.

Nato a Leggiuno Sangiano (Varese) nel 1926 e vissuto tra questo ed altri paesi di frontiera prima di trasferirsi a Milano per frequentare l’Accademia di Brera, Fo aveva assistito o preso parte fin da bambino a tante situazioni private e pubbliche, a tante vicende da rimanere segnato per sempre: i clandestini, contrabbandieri, anarchici che cercavano di passare il confine per riparare in Svizzera ed erano ricercati dalla polizia italiana e straniera, gli operai della vetreria di Porto Valtravaglia che, come pipistrelli (mezaràt), attendevano di notte l’inizio del loro turno di lavoro, il salvataggio miracoloso di una ragazza ungherese da una tempesta scatenatasi nel lago Maggiore. Oltre a questi eventi nel romanzo Fo ricorda la timidezza che lo aveva caratterizzato nei primi anni di scuola, il fascino esercitato su di lui ed i suoi coetanei da alcuni raccontatori di storie, favole, frottole in dialetto lombardo o altro che si esibivano nei bar o nelle osterie di Porto Valtravaglia ed infine l’atmosfera di libertà, di facili rapporti e scambi culturali che aveva respirato a Milano una volta finita la guerra.

Un’opera autobiografica che non ricorre a personaggi allegorici, non trasfigura quanto accaduto realmente ma procede in prima persona e tra verità documentate. Un romanzo che, come nelle intenzioni dell’autore, chiarisce le origini della sua attività e ne conferma il genere e le aspirazioni. Se Fo, nel teatro, ha continuato in un atteggiamento di denuncia delle condizioni dell’uomo comune, dei deboli, degli oppressi, se ha rivendicato i diritti di quell’umanità rimasta ai margini della storia passata e presente, se costante è stata la sua posizione di polemica contro gli oppressori, gli usurpatori, di parte laica o religiosa, che detengono il potere, ne abusano e delle masse si servono soltanto, se tra i suoi mezzi espressivi sono prevalsi la satira ed altri risalenti alla tradizione popolare giullaresca, alla sua comicità fatta di gestualità, vocalità, sonorità, se si è esibito anche nelle piazze e nelle case del popolo, chiare sono le tracce in tutto questo di un processo avviatosi molto tempo prima. Le umili origini, la partecipazione alle sorti di una persona o comunità esposta ad ingiustizie d’ogni genere da parte di chi comanda, la frequentazione di luoghi dove più evidenti erano le differenze tra ricchi e poveri, più gravi le arbitrarietà, prima gli avevano fatto credere che un’azione politica corretta potesse rimediare a tali danni e per questo aveva militato ed operato nelle file del Partito Comunista. In seguito, deluso, aveva ripiegato su se stesso scoprendo quanto di nascosto c’era in lui, la sua arte, il suo teatro. Aveva recuperato una vocazione comparsa molto tempo prima quando, a Porto Valtravaglia, aveva cominciato a raccontare storie inventate per intrattenere e far ridere gli amici. Erano iniziati lì quelli che sarebbero stati il teatro di Dario Fo, il suo linguaggio onomatopeico, il suo umorismo paradossale, le sue maschere. Le commedie posteriori si sarebbero sostanziate di altri motivi, avrebbero ottenuto altri esiti ma intatta sarebbe rimasta quella primitiva aspirazione a dire di una vita divisa tra buoni e cattivi, sfruttatori e sfruttati, a narrare nei modi della favola, della farsa, del dialetto al fine di giungere facilmente alla gente comune, a quel popolo dal quale proveniva ed al quale intendeva rivolgersi sentendosi come investito di una missione.

Fo è passato dal teatro borghese ("Il dito nell’occhio", "Settimo ruba un po’ meno", "La signora è da buttare") a quello politico ("Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e medi", "Mistero buffo", "Morte accidentale di un anarchico", "Non si paga, non si paga") ed infine a quello di costume ("Coppia aperta", "Johan Padan a la descoverta de le Americhe", "Ubu roi"). E’ un percorso che dura dagli anni ’50 ai nostri giorni e che mostra ovunque i segni di un impegno volto a recuperare, salvare, proporre quanto dell’uomo, della vita, dei loro eterni valori di libertà, giustizia, verità, dei principi di bene, amore, virtù, è stato guastato, annullato dal procedere dei tempi, dal costituirsi dei sistemi di potere, dal formarsi della moderna società. Un alto esempio di umanesimo il suo, un’operazione anche didattica perché di richiamo a regole, misure autenticamente umane in un clima quale il nostro che tende a confonderle, smarrirle.

Ne "Il paese dei mezaràt" Fo intende chiarire come e perché ha fatto e continua a fare questo tipo di teatro, dimostrare che un altro genere non gli sarebbe stato possibile, che quello perseguito è sentito e vissuto perché proprio dell’uomo prima che dell’autore.


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