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In tempi di tutti
(L’arte una missione)

di Antonio Stanca

A settantasei anni è morto Cesare Garboli, critico letterario e saggista, che si è distinto per l’ampiezza degli interessi culturali e la particolarità dello stile capace di animare un autore, un’opera, una situazione fino a procurare loro un movimento tale da renderli molto interessanti e vicini al lettore. Autori preferiti da Garboli sono stati Molière, del quale  ha fatto numerose traduzioni, Pascoli, Penna e molti altri italiani e stranieri. Nato a Viareggio e morto a Roma, Garboli ha lavorato per giornali, riviste, case editrici ed è rimasto lontano da luoghi o incarichi che gli avrebbero procurato maggiore prestigio e notorietà. Ha pensato che da ciò sarebbero state disturbate le sue inclinazioni e preferenze. Una sensibilità artistica la sua, un modo di essere che non distingue l’autore dal suo interprete perché li fa uguali, li identifica.

Di tutto questo si è parlato al momento della morte avvenuta lo scorso dieci Aprile e lo si è fatto come se si fosse trattato di una scoperta sensazionale, improvvisa.

Così succede oggi anche quando muore un artista che è rimasto lontano dai clamori del mondo oppure quando si sa di un autore che vive e lavora senza tener conto delle mode ma seguendo la propria ispirazione perché la sente vicina, consone a quanto, a proposito di arte, gli è giunto dal più lontano passato. Sono casi divenuti sempre più rari e per questo la loro notizia rappresenta una rivelazione:come Garboli essi hanno rinunciato al successo, alla fama dal momento che avrebbero dovuto sacrificare tanta parte di se stessi, non essere più tali. Avrebbero dovuto accogliere, nel loro lavoro, i temi ed i modi che più piacciono, si sarebbero dovuti adeguare ai gusti degli altri. Tuttavia anche autori dotati si sono conformati alla situazione attuale, anche la religione si è adeguata ai tempi, anche i vecchi hanno accettato nuove regole. Tutti hanno trovato un proprio posto in un ambiente dove  si vive di ciò che si vede o si sente, dove dominante è divenuto il pensiero della precarietà della vita e, quindi, l’altro di utilizzare il contingente, di godere dell’immediato, di trarre da questi quanto di più e di meglio è possibile. Quale posto, valore, significato può avere, in un contesto simile, una concezione della vita come trascendenza dell’essere, superamento della materialità per un’idealità, spiritualità che rimangono invisibili, inattingibili se non per l’anima? Con chi, di cosa può comunicare il depositario di tali valori, l’interprete di tali messaggi?  Se la cura più diffusa è quella del corpo quale spazio ci può essere per chi cura la mente?

Anche per alcuni autori del passato c’è stato lo stesso problema ma il tempo è servito a compensarli di quanto non avuto durante la vita. Ora, invece, manca pure questa prospettiva giacché neanche per il futuro è possibile prevedere una situazione di comprensione verso il fenomeno. Tuttavia esso continua a verificarsi: è segno che vive di vita propria, che supera la persona che lo interpreta e la dispone ad ogni sacrificio. L’arte è divenuta una missione da compiere tra estranei.


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