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Primo Levi, nell’opera la vita

di Antonio Stanca

In Francia, presso Lattes, è comparsa l’opera “Primo Levi ou la tragédie d’un optimiste” della scrittrice e giornalista ebrea Myriam Anissimov. E’ un’immensa biografia dello scrittore ebreo-italiano ( Torino 1919-1987) scomparso tragicamente e mentre in Francia il libro ha suscitato grande interesse di pubblico e  critica, in Italia ha avviato una polemica tra scrittori, saggisti, intellettuali della vecchia e nuova guardia:  alcuni hanno sostenuto che Primo Levi non merita tanta attenzione, altri hanno definito le sue opere non letterarie e la sua posizione dubbia nel panorama del nostro secondo Novecento, altri ancora hanno spiegato la sua scarsa fortuna con la lontananza dai salotti letterari. Sono ricomparsi quei nodi della nostra critica che già durante la vita dello scrittore erano gravati sulla sua figura ed opera impedendo una valutazione obiettiva. E tra polemiche vecchie e nuove rischiano di passare inosservati anche il significato e l’importanza dell’ampia operazione condotta dalla Anissimov e rivolta a risalire dalle particolarità della vita al pensiero ed alla produzione del Levi, a cogliere lo stretto collegamento esistente tra i due ambiti e chiarire come in lui il fenomeno sia  più importante che in altri autori. Secondo la saggista  sapere della sua vita aiuta a capire l’opera e, perciò, la conoscenza della biografia dovrebbe rappresentare un motivo di particolare attenzione piuttosto che un’occasione per discutere. Ella vorrebbe dissipare le ombre che si sono addensate su Levi e restituire l’uomo e lo scrittore alla loro giusta collocazione e interpretazione.

Innanzitutto ci sarebbe da correggere l’etichetta di scrittore neorealista che risale ad opere come “Se questo è un uomo”,  derivata dalla sua drammatica esperienza in un lager nazista, e “La tregua”, che narra le vicende legate al lungo viaggio di ritorno da Auschwitz a Torino. La scrittura del Levi delle due opere  non è, come negli altri autori del neorealismo, diretta, immediata, incline agli entusiasmi bensì riflessa, mediata come può essere quella di una coscienza dolorante ed anche i  contenuti sono diversi  dal momento che egli tende non ad abbandonarsi al ricordo ma a contenersi nella ricostruzione,  non a distendersi in un racconto ma a contrarsi in un diario. Il suo stile  lineare, lucido, regolato, mostra la continua vigilanza della ragione e come questa presieda allo svolgimento della narrazione, come rappresenti l’unica ambizione per il contenuto e la forma.

Levi non è nato scrittore né ha frequentato ambienti che lo formassero tale, lo è divenuto perché gli è sembrato l’unico modo per rappresentare gli orrori patiti nel campo di sterminio, per denunciare una condizione priva di ogni rispetto per l’uomo, per il suo corpo e  spirito. Era necessario che la vita e l’opera coincidessero e che entrambe s’identificassero con quanto veniva negato, con i valori della ragione, della civiltà, con la fiducia nell’uomo quale unico e insostituibile loro depositario: era una direzione obbligata per un uomo che volesse rimanere tale pur in condizioni così avverse e per uno scrittore che volesse ricostruirlo.

In Levi è venuta sempre prima la vita e poi l’opera e come quella questa si è mossa!

Nel lager nessuna aspirazione o fede o logica poteva valere poiché luogo di tortura continua, totale, tra prigionieri di ogni provenienza, lingua, cultura, in una comunità incrudelita dalle visioni quotidiane e dall’attesa della morte. Ma anche dove ogni speranza era annullata Levi aveva trovato la forza di continuare a credere nella ragione e  dignità umane, aveva seguito le loro regole anche se ridotte a manifestazioni minime quali la pulizia del corpo, l’operosità concessa, l’accettazione della gerarchia stabilitasi  tra internati. Così, non abbandonando mai le richieste del corpo e della mente, Levi era riuscito a sopravvivere ad uno stato di sconfitta, annientamento, desolazione estrema, così era giunto al momento della miracolosa liberazione ed aveva percorso, durante il viaggio di ritorno, tanti luoghi e assistito a tanti orrori,  di tutto ciò era stato lo scrittore nelle due suddette opere.

Dopo  produrrà altre quali “Il sistema periodico” e “La chiave a stella”, nelle quali si esprimeranno le nuove condizioni e attività della sua vita di uomo di tecnica e scienza, di convinto assertore dell’importanza e  funzione del lavoro per l’applicazione e promozione dei valori civili e sociali. Tale carattere autobiografico si continuerà pure in tanti racconti e si accentuerà quando Levi tornerà all’esperienza del lager con “Se non ora, quando?” o esporrà l’altro suo dramma ne “I sommersi e i salvati”. In quest’opera egli vivrà il contrasto tra l’incrollabile fiducia nella ragione e la constatazione della sua negazione in un mondo, in una società come quelli contemporanei divenuti sempre più irrazionali e negatori dei più elementari principi umani. Per un uomo come Levi, che da questi era stato aiutato a vincere la disumanità della guerra e della prigionia, trovarsi ora in un ambiente che era giunto, anche se per altre vie e in altri modi, a respingere  certe fedi non poteva che costituire un motivo di gravissimo sconforto. Se prima il nemico era stato soltanto uno ora erano tanti, diffusi, invisibili dal momento che la vita non era più a misura d’uomo: questa la tragica scoperta che trapela dalle sue ultime righe ed alla quale non seppe resistere. Il suicidio giunse a suggellare definitivamente un rapporto mai smesso tra la vita e le opere, a fare di queste un unico, immenso diario e di lui un esempio senza precedenti. E’ stato un sacrificio, quello di Levi, ad una fede soltanto sua, ad una vita ed opera che senza di essa non possono essere comprese.


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