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Soltanto artisti

 di Antonio Stanca

Quando, nel 1991, morirono il narratore Vasco Pratolini e lo scultore Giacomo Manzù la contemporaneità dell’evento e la corrispondenza di molti aspetti della loro produzione nonostante fosse di genere diverso, avviarono, in ambito critico, delle osservazioni che durarono a lungo.

I due autori  vanno distinti da tanti altri degli stessi tempi. Entrambi non si sono mostrati facilmente disposti a conformarsi alle mode culturali ed artistiche che con sorprendente rapidità si sono susseguite nell’Italia del ‘900. Pratolini e Manzù sono vissuti ed   hanno prodotto seguendo ragioni proprie di vita e d’arte, inclinazioni ed aspirazioni personali. Per questo sono apparsi estemporanei, lontani dalle concezioni moderne  rivolte a considerare l’arte un’operazione come tante altre,  combinata con i vari aspetti della cultura e della vita. Il loro stato d’animo è rimasto  perennemente ed angosciosamente diviso tra realtà e idealità, partecipazione ed evasione, immanenza e trascendenza, oggetto e soggetto, modernità ed antichità, vita ed arte. Qui la loro artisticità, tanto vicina allo spirito della tradizione  da farli considerare dei classici. Come molti autori della tradizione essi hanno cercato di equilibrare le due anime che vivevano, di comporne il contrasto. Ma mentre per quelli il problema si era facilmente risolto a favore dell’idealità, per loro è rimasto sempre sospeso  e li ha indotti ad una condizione spirituale sempre incerta ed inquieta: non c’è realtà in Pratolini che non sia soffusa di malinconica elegia; non c’è linea in Manzù che non sia piegata ad esprimere un indistinto vagheggiamento dello spirito, un’insoddisfazione dell’anima; non c’è ragione in entrambi che non sia anche passione. A differenza di quella tradizionale la loro arte non perviene ad uno stato di serena, distaccata contemplazione ma vi tende soltanto e, perciò, rimane divisa tra la quiete desiderata e la tempesta vissuta. Antichi ed anche moderni possono dirsi entrambi visto che in essi si sono sempre e contemporaneamente agitate la tendenza al vecchio sogno e la coscienza della nuova realtà.

Ad unirli ancora vengono, poi, i contenuti delle loro opere. Uomini combattuti nel difficile processo d’identificazione con le proprie idee ed artisti tesi ad esemplificarlo non potevano che approdare ad un’arte che fosse il riflesso della loro travagliata umanità, che cercasse di esprimerla mediante la rappresentazione dell’elemento umano come del più idoneo a dire di essa. L’uomo, in Pratolini la storia della sua vita e della sua anima, in Manzù la figurazione dei suoi sentimenti, ha costituito in entrambi il modo per esprimere i risultati di una ricerca così dibattuta. Tra antico e moderno, spirito e materia, cielo e terra, divinità ed umanità c’è stato e ci sarà sempre l’uomo, nel quale i due elementi convivono e ne fanno il maggior testimone di sì ardua combinazione. Attraverso l’uomo vive tutto, ogni idea ed ogni realtà, ogni passato ed ogni presente, e credendo in lui si mostra di credere in questi: così hanno fatto i nostri artisti che all’uomo si sono rivolti a chiedere di essere rappresentati nella loro inquieta condizione, d’inserire questa nel più vasto movimento dello spirito universale, di legarsi all’eternità della vita e dell’arte. Per essere stato sorretto da tale animazione e per aver ambito ad un respiro così esteso, il cosiddetto “populismo” di Pratolini non va ridotto entro i canoni di un generico neorealismo ma è da intendere quale scelta ideologica e morale, vagheggiata possibilità di salvezza per chi si sente sovrastato dai “mostri” moderni. La realtà popolare, da lui descritta, non vale solo per sé, per la sua oggettività ma soprattutto per i valori che può offrire ad un’umanità bisognosa di recuperare la propria identità. Essa è la depositaria inesauribile dell’equilibrio tra spirito e materia necessario ad assicurare all’uomo la sua dignità, da essa si dovrebbe attingere per formare di nuovo l’umanità guastata dai tempi. Con un atto di fiducia nei valori umani, oggettivi prima ed artistici, soggettivi poi, si conclude l’opera più impegnata del Pratolini, la sua famosa trilogia dal titolo “Una storia italiana”. Il  soggetto e l’oggetto, l’idea e la realtà, la vita e la storia avrebbero dovuto, per lo scrittore, fondersi nella formazione di una nuova umanità individuale e sociale; la lezione antica avrebbe dovuto innestarsi sulla condizione moderna e costituire insieme una nuova realtà umana e storica.

Si pensi a quanto sia stato animato Manzù da questi stessi umori. Le sue figurazioni non rinunciano, pur nella loro concretezza, ad una tensione spirituale, ideale, la sua realtà non è  paga di sé ma tende ad altro anche se vago, indistinto, la sua materia non è  pesante ma vuole sollevarsi verso ciò che è invisibile, ignoto. Anche qui antichità e modernità, soggettività ed oggettività procedono unite e si condensano nei tratti di quelle figure umane volte ad esprimere la frattura tra la realtà che si verifica e quella che si vorrebbe. Anche Manzù, come Pratolini, ha seguito la sua primaria inclinazione e lo ha fatto fino al punto da incorrere, più di lui, in incomprensioni, critiche e censure. Per molto tempo non si è capito che la spiegazione delle sue strane opere non andava cercata nelle correnti o negli autori che lo avevano influenzato ma nella particolare sintesi,  in lui  avvenuta, tra gli elementi della  formazione e cultura e quelli della personalità. Le sue opere non si chiariscono riferendosi al primitivismo o all’impressionismo ma riportandole allo spirito di un uomo liberamente e tristemente  impegnato a trasmettere, con la figura, le esigenze di un’appassionata ed irregolare sentimentalità, a conciliare l’intelletto con l’animo, la cultura col genio, il finito con l’infinito, l’umano col divino.

Entrambi questi autori vogliono rappresentare, mediante l’uomo, il difficile rapporto che col tempo si è creato tra l’io e l’altro, entrambi si mostrano malinconicamente nostalgici dei tempi passati perché esenti da simile contrasto. Lo scrittore e lo scultore si piegano su se stessi a scoprire, per sé e la propria opera, oscure rivelazioni, arcane trascendenze, segrete relazioni, le quali uniscano nello spirito quanto nella materia è stato diviso, ricongiungano le parti che la storia ha separato, ricompongano, ricreino quell’uomo che il tempo ha disperso. Ai due interessa rifare l’uomo restituendogli quanto ha smarrito: per questo non c’è in loro alcuna realtà che non alluda ad altre, lontane verità. E’ il costante anelito dei due autori, quello che li fa sentire vicini ai grandi del passato e  resistere alle contaminazioni col presente. La loro è risultata una posizione difficile da capire giacché non si accetta con facilità che autori moderni rimangano inconciliati con la realtà storica. In tempi in cui in ogni campo, compreso quello artistico, si cercavano solidarietà ed aggregazioni, Pratolini e Manzù, si sono sentiti e sono rimasti soltanto artisti. Sono stati soli a credere che la singolarità di un’esistenza potesse divenire complessità artistica, che dalla contingenza si potesse assurgere alla totalità, che nella semplicità dell’evidenza si celassero i segni di misteriose e più ampie verità. Ed artisti anche perché hanno dimostrato quanto ancora si possa sperare nell’uomo una volta ricostituitane la figura e quanto importante possa essere l’arte in tale processo di ricostituzione. Il loro può essere considerato uno degli ultimi sacrifici consumati in nome delle grandi idealità richieste dall’arte,  una prova di come si possa parlare ancora dell’artista ispirato, di come possa essere ancora l’uomo a vincere sul tempo e  sulle mode.


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