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Senghor: un’epoca che finisce
(La vita come l’opera)

di Antonio Stanca

Giovedì 20 Dicembre a Verson, in Normandia, è morto Léopold Sédar Senghor. Era nato nel 1906 a Ioal, presso Dakar, in Senegal ed aveva novantacinque anni. Con lui non finisce solo una vita ma un’epoca ed il pensiero corre a chi, ancora vivo, è rimasto a rappresentarla. Saranno pochissimi simili rappresentanti e dopo di loro la confusione più inestricabile nella letteratura, nell’arte, nella vita. In verità questa situazione è iniziata da tempo e perciò certe figure, pur contemporanee, hanno assunto il valore, la funzione di simboli di un passato che sembra remotissimo nonostante sia trascorso da poco. Già in vita, infatti, Senghor soffrì il disagio apportato dai tempi nuovi, la crisi, cioè, di quei valori morali, spirituali, di quegli ideali che avevano animato il suo impegno politico e la sua attività letteraria. L’Africa, i negri, per il cui riscatto da secoli di schiavitù e colonialismo egli aveva lottato come uomo e come artista, col passare degli anni non erano più quelli dei suoi discorsi pubblici, dei suoi saggi o versi. Anche quei luoghi, i loro deserti, fiumi, boschi, animali, quegli abitanti, la loro vita povera e, tuttavia, animata da spontaneità, innocenza, candore stavano subendo un processo di conversione a modi diversi perché di provenienza straniera, stavano accogliendo quanto giungeva loro dalla sempre più invadente società dei consumi.

Era stata questa una gravissima delusione, un dramma per chi, come Senghor, aveva creduto, nella vita e nell’opera, all’immortalità, all’eternità dell’"hélas", cioè della "forza vitale", dell’energia naturale fatta di passione istintiva, di autentico calore umano che soltanto alcuni popoli quali i negri d’Africa potevano possedere poiché immuni dall’assalto della scienza, della tecnica, di quanto, nella storia, era sopravvenuto a livellare, omologare ed annullare i caratteri distintivi di una gente, di una razza, a ridurre le espressioni del loro spirito, a convertirle ai moderni culti della materia.

Sarà quello spirito ad animare l’intera produzione poetica di Senghor dai primi "Canti d’ombra" (1945) ai "Canti per Naett" (1949) alle "Etiopiche" (1956) ai "Notturni" (1961) alle "Lettere della stagione delle piogge" (1972) : sempre il poeta cercherà di tradurre nei versi l’anima della sua terra che era quella della sua gente e la sua. La poesia, per Senghor, era un fenomeno naturale, spontaneo, innato dal momento che doveva trasporre in maniera immediata quanto si agitava nell’animo di chi s’era formato al ritmo dei canti, delle danze del proprio popolo. Essa preesisteva a lui, alla sua voce ed ora, con lui, era chiamata ad acquistare una risonanza più estesa, a procurarsi il diritto di esistere in un contesto più ampio, di testimoniare di una presenza umana, sociale sempre ignorata e degli elementi che la costituivano. Questi erano più veri, più autentici di quelli delle società civili poiché erano ancora dell’uomo, di un uomo che non si distingueva dalla natura ma viveva come ogni altro suo essere, animale o vegetale, seguiva i suoi ritmi lontano da tutto ciò che avrebbe potuto alterarli, confonderli. Nei versi di Senghor trovano espressione, infatti, le tradizioni, i costumi, il folclore, i miti dell’Africa, nel loro movimento armonioso, solenne sono resi il tono, la cadenza di musiche e canti popolari africani.

Già negli anni ’30 egli era giunto a formulare con altri intellettuali "negri" di Parigi, dove conduceva gli studi ed assisteva alla formazione di tante avanguardie letterarie ed artistiche, il concetto di "negritudine", che rivendicava i valori costitutivi di una razza umana, di una civiltà, sosteneva la loro specificità e le proponeva quali componenti, insieme alle altre identità nazionali, di una "Civiltà dell’Universale". Niente, né la sua formazione europea né l’uso della lingua francese né l’opposizione di voci autorevoli quale quella di Jean-Paul Sartre né la concreta attività politica [membro dell’Assemblea costituente (1945) e nazionale (1946) francese, presidente della Repubblica del Senegal (1960)] né la suddetta deludente constatazione di un’Africa invasa e guastata dalla modernità riuscirà a distoglierlo dal compito del quale, fin dalla nascita, si sentiva investito, quello di essere il restauratore e banditore di una civiltà sommersa. Questo, anzi, ridurrà a sé, informerà di sé ogni altra esperienza, farà della sua vita pubblica una trasposizione continua di quella privata, intima, dei convincimenti ed aspirazioni di questa. Senghor sarà anche autore di un’ "Antologia della nuova poesia negra e malgascia in lingua francese", di scritti teorici e politici, "Libertà I: negritudine e umanesimo", "Fondamenti dell’africanità o ‘négritude’ e ‘arabité’", sarà critico letterario, collaborerà alla fondazione di riviste ed ovunque sarà possibile riconoscere l’artista guidato più dal sentimento che dalla ragione.

Il segno che di lui è rimasto è quello di un "messaggero celeste" che non distingue tra pensiero ed azione perché la sua è una religione.


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