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Tra la vita e la morte

di Antonio Stanca

In una delle più recenti “Bustine di Minerva”, rubrica curata da Umberto Eco per il settimanale “L’espresso”, l’autore discute della pena di morte, si dichiara contrario e la condanna negli stati dove esiste poiché, dice, facendo morire il colpevole di un reato, per quanto grave questo sia, si trasforma l’uomo in un mezzo per ammonire gli altri mentre l’uomo deve essere riconosciuto nella sua condizione di fine. Ad una colpa non si deve rispondere, pensa Eco, con simili punizioni bensì con altre diverse comprese le più severe quali una lunghissima detenzione. In tal modo il valore di richiamo, correzione, educazione presso chi vi assiste risulterebbe di gran lunga maggiore.

Trascura Eco che l’uomo è un fine quando questo s’identifica con la virtù, la grandezza d’animo o d’azione, e che quando il fine diventa la criminalità non si può criticare che quell’uomo sia trasformato nel mezzo per segnalarla e punirla. E poi una punizione quale la pena di morte non vige per essere applicata con facilità o frequenza né si attende di giungere ad essa per richiamare alla riflessione, al rispetto delle regole, al bene. Si condanna a morte in casi estremamente gravi e la funzione di tale pena non va limitata al momento in cui avviene ma estesa a tutto il tempo, alla vita della nazione, del popolo che la contempla. Sapere che si può essere condannati a morte può servire a trattenere, frenare da un’azione malvagia, feroce, può evitarla, può far pensare di risolvere diversamente un problema, può ridurre gli eccessi. Quante volte s’invoca la pena di morte nei paesi dove i misfatti avvengono ogni giorno senza distinzione di ambiente, età, sesso, condizione sociale, dove la clandestinità, la frode hanno raggiunto livelli tali da far vacillare anche le istituzioni giuridiche, dove la violenza è così diffusa da aver ridotto l’importanza, il valore della vita umana! Perché, dunque, condannarla dove esiste? Perché ritenere barbaro chi la usa? Di barbarie si deve parlare quando il crimine è ormai all’ordine del giorno anche e soprattutto perché non si ha timore della punizione. E’ questa, la sua presenza, la sua conoscenza, che dovrebbero servire ad ammonire, a prevenire l’azione nefanda quando nessun’altra operazione, individuale o collettiva, vi riesce, quando il livello di civilizzazione è così basso da far registrare gesti gravissimi di natura ferina o così alto da spiegarli col vizio, la corruzione, lo sbando.

Pertanto se aver abolito la pena di morte rappresenta, per alcuni paesi, un segno di civiltà, di progresso, averla conservata o istituita non significa, per altri, essere incivili ma ritenerla necessaria date la particolarità delle condizioni di vita e la volontà di controllarle, correggerle, migliorarle. Un mezzo appunto è essa in determinate circostanze, un mezzo che come ogni altro serve per raggiungere un fine e come ogni altro a questo è inferiore. Non va discussa, dunque, se tramite essa si aspira ad ottenere un risultato che la supera, se tramite la singolarità di un caso si pensa alla pluralità di un bene, se tramite la morte si vuole la vita.


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