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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Cinque domande a Norberto Bottani *

a cura di Marisa Bracaloni

 

Domanda  N ° 1

In un recente documento indirizzato al Presidente della Repubblica e  firmato  da autorevoli studiosi è stato scritto che la scuola ha bisogno di maggiore attenzione da parte di tutta la società :  dovremmo parlare di più di istruzione, non solo  a scuola, ma in ogni  luogo di incontro , facendo diventare il tema della formazione ed educazione  un tema centrale per  tutta la cittadinanza.

Condivide l’idea che in genere si parla poco di scuola  e quindi dovremmo coinvolgere maggiormente la società sulle problematiche scolastiche ?

 

In Italia in genere si parla poco di scuola nei media, nella politica, ma altrove, per esempio in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, non è affatto così. Il sistema politico italiano non attribuisce una priorità all'istruzione scolastica. Per quale ragione? Ad una domanda come questa non si può rispondere in quattro e quattr’otto né ricorrere ad argomenti moralistici. Le ragioni infatti sono  multiple e di natura diversa: politica, giuridica, sociologica, economica, religiosa e culturale nel contempo. Inoltre tutte queste svariate ragioni sono tra loro strettamente connesse in un'alchimia che è stata perfezionata nel corso di decenni fino a trovare un equilibrio che sembrerebbe convenire ai rapporti di potere esistenti nel paese, alla cultura della sopravvivenza dei poveri, alle modalità di organizzazione e funzionamento del mercato del lavoro. Questo è dunque una storia pluri-decennale che non si capovolge dall'oggi all'indomani. Essa ha configurato anche le aspettative della popolazione  e dei vari ceti sociali nei confronti dell'istruzione scolastica. Si potrebbe essere tentati di parlare a questo punto di rassegnazione, ma non credo che questo sia il caso. Si tratta di una cultura di fondo che concerne le gerarchie sociali, i notabili di ogni tipo e di una filosofia politica profondamente radicate nelle vicende politiche, sociali, industriali che hanno forgiato la nazione. Nei paesi nei quali la scuola e il sistema scolastico sono all'apice delle preoccupazioni dell'opinione pubblica, la classe politica, i dirigenti scolastici, i pedagogisti, i sindacalisti, i mass media dedicano un'attenzione quotidiana ai problemi scolastici. In questi sistemi politici ed economici l’ istruzione è percepita come il traino del progresso e del benessere sociale ed economico, è garanzia di sicurezza sociale, di rispetto, è  un sigillo della qualità della vita sociale. Non penso che esistano queste condizioni in Italia. Se ne può esser dispiaciuti, si può soffrire anche per questo stato di cose, si può essere rammaricati, ma non bastano le buone intenzioni né un decreto qualsiasi per cambiare la situazione. A mio parere, se qualcosa deve cambiare nei confronti della scuola in Italia, questo deve succedere alla base, attorno alle singole scuole. Non c'è decreto calato dall'alto che possa capovolgere la situazione. Per questa ragione, l'autonomia delle scuole, di tutti i gradi di tutti tipi, in Italia avrebbe una coloritura e un significato del tutto diversi per esempio dall'autonomia scolastica in Inghilterra o in Svezia.

 

Domanda  N° 2

Il dpr 275/ 99 affidava  finalità ambiziose all’autonomia scolastica: libertà di insegnamento, pluralismo culturale, interventi in base alle richieste delle famiglie, successo formativo….

Nel  suo  libro  sull’autonomia scolastica  “ Insegnanti al timone ?”  del 2002  il titolo si conclude con un punto interrogativo che già fa intuire le  perplessità che Lei poi esprime chiaramente nei vari capitoli.

A distanza di un decennio   i dubbi espressi nel libro sull’autonomia si sono dissipati o rimane l’idea di una  riforma incompiuta? Vivendo in un paese dove l’autonomia  e il decentramento sono cardini  del sistema sociopolitico ,  può dare qualche suggerimento per realizzare  quelle finalità dell’autonomia  scolastica  citate sopra?

 

Vivo in un paese, la Francia, dove l'autonomia e la decentralizzazione non sono i cardini del sistema sociopolitico e quindi del servizio scolastico. La Francia resta per il momento una nazione fortemente centralizzata nella quale l'apparato scolastico è intriso di una filosofia politica del tutto particolare che si rifà più all'opera di un sociologo come Durkheim che non al pensiero sovversivo di Rousseau. Se nella domanda si allude alla mia nazionalità elvetica dovrei dire che anche in questo caso, il sistema scolastico elvetico è caratterizzato sì da un federalismo molto accentuato, ma anche da un'autonomia scolastica molto ridotta. I micro-sistemi scolastici elvetici sono iper-centralizzati e le scuole elvetiche sono tra le meno autonome del mondo occidentale. Ci vorrebbero molte pagine per chiarire nei dettagli questi due casi che sono molto interessanti, ma non è in questa intervista che lo si può fare. Mi limito quindi semplicemente ad alludervi anche per evitare illusioni e confusioni. La decentralizzazione scolastica e l’ autonomia degli istituti scolastici non si trovano né in Francia né in Svizzera. Per realizzarle occorre un terreno favorevole, una cultura specifica, una storia particolare, come è per esempio il caso in Finlandia o in Svezia dove l’autonomia comunale e scolastica si respira nell’aria, dove va da sé perché  esiste da quasi un secolo. Lì è il sistema democratico che è autonomo. Tutto questo non esiste in Italia, nell’Italia unita. Forse esiste ed esisteva nell’Italia dei comuni e delle città, ma anche questa è un’altra vicenda. Per questa ragione, l'ambiziosa riforma dell'autonomia scolastica in Italia è fallita. La si è voluta imporre dall’alto, in un colpo solo. Questo tentativo è andato a male. Ciò non significa che in Italia sia impossibile realizzare l'autonomia scolastica, che si debba riporre nei cassetti qualsiasi progetto di questa natura, ma dopo un decennio occorre rendersi all'evidenza ed analizzare seriamente, ovverosia raccogliendo prove documentate, le cause del fallimento. In Italia esistono scuole autonome. Viaggiando nel sistema scolastico italiano capita di scoprire istituti scolastici splendidi, diretti da presidi coraggiosi, con un corpo insegnante entusiasta e solidale. Queste realizzazioni però sono casi singoli, non fanno sistema, sono il frutto di trasgressioni clandestine che sfruttano abilmente l'incapacità dell’apparato amministrativo scolastico di controllare, ovverosia di valutare, il funzionamento delle componenti del sistema scolastico.

Ci si può e ci si deve anche chiedere se l'autonomia scolastica è necessaria. In un testo recentemente pubblicato dall'economista capo della Banca Mondiale a proposito delle scuole private e delle scuole pubbliche si sostiene che molta autonomia è indispensabile per rendere i due settori competitivi, per ridurre le disuguaglianze, per potenziare il settore pubblico. Quando si sostiene che molto autonomia è necessaria, soprattutto per ridurre le disuguaglianze sociali di fronte all'istruzione e per migliorare gli istituti scolastici frequentati in maggioranza da studenti provenienti dalle classi sociali meno abbienti, si intendono molte cose, talune delle quali sono previste nel decreto del presidente della Repubblica 275, ma altre non sono presenti come per esempio la responsabilità del dirigente di scegliere e di licenziare i membri del corpo insegnante, ossia di costituire équipe pedagogiche solidali, unite, che condividono gli stessi valori educativi, oppure l'autonomia finanziaria. Nel decreto italiano si parla di autonomia didattica, di autonomia nell'ambito della ricerca pedagogica che invece in Italia è pressappoco inesistente a mio parere e che è una delle competenze più ardue da acquisire per gli insegnanti. Si potrebbe continuare in questa rilettura, ma non è il caso di farlo in questa intervista.

 

Domanda  N °3

Da tempo vengono  messi in evidenza due aspetti cruciali che renderebbero  credibile e possibile l’autonomia: da un lato, la totale responsabilità degli istituti per quel che riguarda il reclutamento e la gestione di tutto il personale della scuola; dall’altro, una completa autonomia degli istituti nell’organizzazione del tempo scuola.

C’è però il problema  economico che condiziona le risorse professionali e la durata dei tempi scuola. Da dove attingere fondi?  Da un maggior impegno dello Stato, o dalle famiglie e o dalle aziende ?

 

Questa domanda concerne il finanziamento dell'istruzione e per essere più precisi il finanziamento del servizio scolastico statale. In questi ultimi vent'anni si sono fatti progressi considerevoli nella conoscenza delle modalità di finanziamento del settore scolastico pubblico, statale, paritario o privato che sia. Non c'è dubbio che oggigiorno si ha una migliore visione della spesa pubblica per l'istruzione e delle risorse necessarie per far funzionare un istituto scolastico. L'economia dell'istruzione si è imposta come uno dei rami di indagine sulla scuola più promettenti e stimolanti. Non è casuale che in Italia per esempio le informazioni più succolenti, almeno a mio parere, sul sistema scolastico italiano siano state prodotte in questi ultimi anni da economisti che hanno scelto l'istruzione come oggetto principale di indagine. Nondimeno, restano ancora molte zone d'ombra per capire cosa realmente succede nel settore della spesa pubblica e privata, incluso quello delle famiglie, per l'istruzione. Mi permetto rilevare che queste informazioni sono particolarmente carenti in Italia dove l'economia dell'educazione fino ad un decennio fa era praticamente sconosciuta od era pochissimo praticata. Una delle domande ricorrenti sul piano internazionale, dove si svolgono confronti tra sistemi scolastici diversi,  riguarda per l'appunto la relazione esistente tra la qualità dell'istruzione, gli apprendimenti e la spesa per l'istruzione. Se si analizza a fondo questa richiesta si deve ammettere che per il momento non siamo in grado di dare una risposta inequivocabile a questa domanda, ossia non sappiamo se chi più spende per la scuola meglio spende e se chi meno spende fa un risparmio errato. I dati internazionali prodotti dall’OCSE lasciano l'amaro in bocca, perché non convalidano né una tesi né l'altra. Da un certo punto di vista sembrerebbe che per fornire un'istruzione di qualità e per ridurre la segregazione sociale connessa all'istruzione si debba spendere molto. Occorrono molti soldi per riuscire una riforma scolastica come per esempio la creazione e l'adozione di un sistema di valutazione comparato degli istituti scolastici che serva al corpo insegnante, ai responsabili politici di ogni grado, alle famiglie degli studenti. Da un altro punto di vista però sembrerebbe che ci siano sistemi scolastici che conseguono livelli di profitto eccellenti od accettabili senza spendere molto. Mi limito qui a due casi: quello elvetico e quello finlandese. Nello spazio educativo elvetico, che come noto è suddiviso in molti micro- sistemi scolastici, gli insegnanti sono tra i meglio pagati al mondo. Orbene, nonostante queste remunerazioni appetibili, la media dei risultati scolastici degli studenti svizzeri non è tra le migliori al mondo e nei sistemi scolastici svizzeri, anzi in quelli nei quali gli stipendi degli insegnanti sono più alti,  come per esempio a Zurigo, c'è penuria di insegnanti. Non è dunque vero che se si pagano bene gli insegnanti si ottengono buoni risultati scolastici e si attirano nelle scuole i migliori laureati o si riesce a trattenere nella scuola gli insegnanti più bravi.  Quindi, da questo aneddoto, nasce il dubbio che non esiste una stretta correlazione tra spesa per l'istruzione e rendimento scolastico, tra la spesa pro capite per l’istruzione e la qualità di un sistema scolastico.

Non c’è dubbio che i paesi più ricchi sono anche quelli che spendono di  più per la scuola e quelli che globalmente ottengono i risultati migliori, ma in questo caso si include nel calcolo anche il settore terziario che comprende le università nonché  una gamma di istituti e laboratori che in Italia non ci sono. In Italia si investe poco per la ricerca scientifica e l’università mentre si spende molto, proporzionalmente, per la scuola primaria. Forse questa è una scelta sociale comprendibile ma in questo caso se ne devono accettare le conseguenze e soprattutto si deve instaurare un sistema di controllo a tappeto della spesa. Va da sé, almeno per me, che questo sistema di controllo deve essere a più livelli, ma deve partire dal basso. I risultati dei quindicenni finlandesi nell'indagine PISA dell’OCSE sono davvero intriganti se si considera il fatto che in Finlandia la scolarità obbligatoria non inizia a sei anni bensì a sette, ossia un anno dopo che non in Italia, che le spese per l’istruzione, esclusivamente statale, sono relativamente modeste, che gli studenti quindicenni conseguono punteggi molto più elevati dei coetanei di altri sistemi scolastici e che questi risultati sono molto più omogenei per regioni geografiche e per classi sociali. Occorre dunque spiegare questo arcano. In Finlandia ci sono 320 comuni e 3400 scuole. Comuni e scuole fruiscono di una considerevole autonomia organizzativa e pratica. Per esempio, nella scuola finlandese non ci sono ispettori, non si fanno valutazioni, non ci sono esami nazionali. Questi risultati non sono un fulmine a ciel sereno ma sono il frutto di una cultura dell'autonomia comunale che risale all'inizio del 20º secolo. Non ci sono dunque misteri. Si può correre il rischio dell'autonomia ed addirittura quello della non valutazione per conseguire ottimi risultati, ma questo effetto non si ottiene con un decreto del presidente della Repubblica e neppure in un battibaleno. Con questo vorrei dire che si vuole migliorare la scuola in Italia,  la soluzione va cercata in Italia e non in Finlandia.

Mi si chiede dove si possono trovare fondi supplementari necessari per migliorare le  scuole. Orbene, la prima cosa da fare sarebbe quella di rilevare in modo preciso come sono utilizzati i fondi attualmente stanziati per l'istruzione. Come ho detto poc'anzi quest'informazione è lacunosa. Il finanziamento dell'istruzione risulta dall'afflusso di moltissimi rivoli e siamo ben lungi dall'aver effettuato un inventario completo di questi contributi.

Proporrei quindi in un primo tempo una moratoria sui tagli per l'istruzione perché è inutile proclamare di voler ridurre gli sprechi se sprechi non ce ne sono. Non ne sappiamo gran che in questo momento. Si suppone che ci siano sprechi, che si spenda male per la scuola. È possibile ma nessuno è in grado di fornire prove convincenti di quest'ipotesi. Anche l’OCSE non è in grado di affermare se una determinata percentuale del PIL rappresenti una soglia minima al di sotto della quale si correrebbe il rischio di un peggioramento drammatico nella qualità dell'istruzione. Sarebbe assai bello se si conoscesse questa soglia: il 6% del PIL, oppure il 5%, oppure il 4,5%? Per il momento nessuno è in grado di affermare con certezza quale debba essere la parte del prodotto interno lordo di un paese che va consacrato all'istruzione, azzerando le differenze tra paesi imputabili al costo della vita. Ho la sensazione, quando mi confronto con un tema come questo, di trovarmi tra l'incudine e il martello: da un lato propendo a ritenere, e ci sono nel resto ampie prove in materia, che non si migliora l'istruzione, senza un incremento di spesa; dall'altro però ho seri dubbi che un finanziamento dell'apparato scolastico vigente, così come è tuttora, serva a qualcosa. Si riprodurrebbero probabilmente difetti ultranoti. Maggiori investimenti per tenere in piedi il sistema odierno non aiutano a correggerlo. Se tutto va bene non si farebbe che un’operazione cosmetica oppure un’opera di restauro. La strategia  espansionista dell’ apparato scolastico propugnata dalla classe politica e sindacale non lotta affatto contro le disuguaglianze sociali di fronte all'istruzione, contro  lo spreco di capitale umano, contro la segregazione sociale nell’istruzione. Dubito che investimenti a fondo perso riusciranno a tenere in vita un sistema scolastico con grossi difetti strutturali e non solo congiunturali.

 

Domanda  N° 4:

Sempre a proposito di fondi e premi :recentemente  è stata proposta dal Ministero una sperimentazione per misurare la qualità delle scuole e il merito degli insegnanti .

La proposta non sembra aver avuto il gradimento dei Collegi dei docenti che non hanno aderito al progetto pilota.

Nei mesi scorsi ci sono state dimostranze di opposizioni anche per le Prove Nazionali Invalsi.

A seguito di questi fatti non sarebbe opportuno fare un sondaggio presso le scuole su quale valutazione  sarebbe giusta ?

Non sarebbe necessario fare una vera e propria formazione  agli insegnanti sui test nazionali ? E’ giusto aver usato uno strumento di valutazione  complesso come le prove invalsi senza una dovuta formazione dei docenti,sia sul piano dell’apprendimento  ( nuove teorie della conoscenza basate sulle competenze ), sia sul piano psicopedagogico  (teniamo di conto che i test coinvolgono anche bambini piccoli di sette anni)?

 

Questa domanda concerne la pratica della valutazione: valutazione del sistema scolastico (per esempio le prove INVALSI), valutazione delle scuole (se sono bene informato  è in corso una grande sperimentazione da parte dell’INVALSI), valutazione degli insegnanti (per esempio la sperimentazione “Valorizza”). Orbene, c'è modo e modo di valutare. Ci sono diversi approcci valutativi e nessuno è perfetto. Nemmeno quelli svolti con una sembianza di grande rigore statistico-matematico sono ineccepibili. Ogni tipo di valutazione è connotato da pregi e difetti. Occorre quindi valutare le valutazioni per apprezzare convenientemente quanto ci si trova tra le mani una valutazione di un’esperienza o di una sperimentazione. Non c'è quindi un metodo valutativo omni- comprensivo, che abbia valore universale, che vada bene per tutte le situazioni. Si può fare dire di tutto ad una valutazione. I bravi valutatori sono abilissimi a questo proposito. Non c'è quindi una valutazione giusta ed una sbagliata, ci sono solo valutazioni ben fatte o mal fatte dal punto di vista metodologico, rigorose oppure superficiali. Quelle ben fatte non sono necessariamente giuste. Detto questo è indispensabile tenere presente che la procedura di valutazione, ossia le modalità con le quali una valutazione è impostata, è la parte più sensibile di una valutazione.

Per ragioni molteplici che qui non svisceriamo ci si trova in un periodo storico nel quale non si può più prescindere dalla valutazione, a meno di essere immersi in una diffusa cultura di “rendicontazione”  oppure di operare in contesti nei quali il capitale sociale che circonda la scuola sia particolarmente rilevante e attivo. Le valutazioni sono necessarie perché in molti casi sono strumenti validi di miglioramento della qualità dell'istruzione e delle scuole. Anche la valutazione non è una panacea, può fare del bene o del male. In generale però ci si accorda per dire che serve alquanto e molte indagini convalidano gli effetti positivi della valutazione sull’organizzazione e il funzionamento delle scuole e sui risultati globali dei sistemi d’insegnamento. Si può e si deve valutare in modo corretto, ma quando si intraprende una valutazione si deve prestare molta attenzione alla procedura utilizzata. Orbene, le procedure cambiano in funzione degli obiettivi che si vogliono conseguire con una valutazione, ossia in funzione di quello che si auspica conoscere grazie ad una valutazione e in funzione di chi finanzia la valutazione oppure di chi la richiede (non sempre si tratta degli stessi enti). Siccome non esiste un’ unica procedura di valutazione,  la procedura può cambiare di volta in volta. E’ bene nondimeno prevedere, quando si svolge la valutazione di una sperimentazione, sperimentare la procedura e valutarla a sua volta per correggerla e adattarla prima di impostare una valutazione su larga scala e soprattutto prima di avviare valutazioni che potrebbero avere conseguenze anche drammatiche per gli insegnanti, per i dirigenti, per i responsabili scolastici. Questo significa che nell'arco di tempo dello svolgimento di una valutazione si deve prevedere un periodo di tempo sufficiente per la valutazione della procedura, per la sperimentazione e per l’analisi e la discussione dei risultati. Se non si rispettano queste tappe si corre il rischio di commettere colossali errori e di provocare reazioni indignate da parte di chi è valutato. Faccio presente, se sono bene informato, che "Valorizza "era stata concepita come una sperimentazione. L'idea in sé e per sé era corretta: si sperimenta su scala ridotta un modello di retribuzione degli insegnanti basato sulla reputazione prima di generalizzarlo. Del resto non  era neppure errata l'idea di avviare una valutazione sulla reputazione per vedere se fosse possibile trovare in seno ad un istituto scolastico un consenso sugli insegnanti che godono di chiara fama e se esiste una correlazione tra la chiara fama, la qualità dell'insegnamento, gli  apprendimenti degli studenti, prima di stanziare un premio ai docenti meritevoli. L’ipotesi iniziale è che tutto ciò esiste e che si tratta di renderlo esplicito in modo “oggettivo”. Ma le ipotesi non bastano. Si devono verificare. La sperimentazione “Valorizza” presuppone l’esistenza di un consenso a priori sulla necessità di modificare il metodo di remunerazione degli insegnanti in vigore il quale si contraddistingue per la priorità riservata esclusivamente all'anzianità a scapito del merito. Questo è un problema universale e non solo italiano. Orbene, le buone intenzioni iniziali della sperimentazione "Valorizza "non sono state suffragate dalla procedura adottata per svolgere la sperimentazione. Vedremo cosa racconteranno i valutatori  i quali dovrebbero essere un’istanza estranea al ministero ma che invece sono stati coinvolti a loro volta, a gradi diversi, nell’impostazione e nella conduzione della sperimentazione.

Va da sé che nella formazione iniziale degli insegnanti dev’essere riservata un’ adeguata attenzione alla valutazione. Ai futuri insegnanti  si devono spiegare le caratteristiche delle valutazioni, le norme e le condizioni di base di una valutazione svolta secondo standard riconosciuti di qualità. Va anche fornita una formazione statistica di base per capire le valutazioni esterne di tipo empirico. Inoltre, nel caso di ogni valutazione che abbia a che fare con gli insegnanti e con le scuole, non solo è raccomandabile ma è indispensabile spiegare agli insegnanti le caratteristiche dalla valutazione che, come detto prima, cambiano a seconda dei casi. Dopo la sperimentazione, dopo la valutazione della valutazione, va prevista una terza fase ossia la spiegazione dettagliata della valutazione agli addetti ai lavori  e in primo luogo a tutti coloro che sono stati oggetto di valutazione, ossia a tutti coloro che  in un modo diretto oppure indiretto ne subiranno le conseguenze. Non è facile svolgere una valutazione, non lo è neppure spiegarla e capirla.

 

Domanda  N° 5 

Le prove strutturate, i test , i quiz,i  punteggi sono molto criticati e hanno preso una valenza negativa.

Per completare la domanda di prima ,  forse sarebbe importate capire che anche dietro ai test e alle prove strutturate può nascere un ‘idea di educazione. Come si usano le discipline per educare i ragazzi, perché non dare alla valutazione un aspetto formativo, sviluppando l’atteggiamento mentale  che servirà ai ragazzi per  tutta la vita ?

 

La valutazione non è una novità per la scuola. Nelle scuole si è sempre valutato e gli insegnanti hanno costruito la loro autorità sui voti, sulle promozioni, sulle bocciature. In altri termini, la valutazione ha sempre fatto parte dell’armamentario dell’educazione scolastica. Attribuire voti, promuovere o rimandare, distribuire titoli che attestano il buon esito della scolarizzazione sono funzioni della missione  sociale, economica  e politica  della scuola. Fin quando le valutazioni scolastiche hanno fornito  un'indicazione sui meriti e demeriti degli studenti, indicazioni giuste o sbagliate che fossero, poco importa, la legittimazione dell'istituzione scolastica non ha subito nessuna incrinatura. I problemi hanno cominciato a sorgere quando la ricerca scientifica, per esempio la docimologia, ha dimostrato, prove alla mano, l'arbitrarietà delle valutazioni scolastiche in classe svolte dagli insegnanti. A partire da questo momento il prestigio delle istituzioni scolastiche e l'autorità degli insegnanti hanno subito una perdita di credibilità impressionanti. Le prove strutturate, in questo caso si allude ai test di conoscenza, non sono che un tentativo per neutralizzare l'arbitrarietà delle valutazioni soggettive e ridare una parvenza di credibilità all'istituzione scolastica. Le prove strutturate sono un approccio valutativo che è contraddistinto dal rigore statistico e matematico con il quale si aspira a fornire una valutazione oggettiva. I perfezionamenti metodologici di questi ultimi decenni in questo campo sono stati considerevoli ma purtroppo la  formazione degli insegnanti è rimasta del tutto carente a questo riguardo per cui si può senz'altro affermare che la stragrande maggioranza degli insegnanti non possiede nemmeno i rudimenti per comprendere come sono strutturati i test e come sono organizzate le valutazioni esterne su vasta scala. Esiste una frattura impressionante tra il perfezionamento metodologico dei test da un lato e dall'altro le conoscenze statistiche di base necessarie per capire come questo approccio valutativo funziona, come si possa utilizzare, quali ne sono i limiti, come si possono perfezionare. Va da sé infine che non è con una valutazione che si sviluppa un atteggiamento mentale utile per l'esistenza. Questo è un compito che travalica la somministrazione di una valutazione. Se nelle scuole lo si svolgesse adeguatamente, si risolverebbe forse una parte del problema causato dalla perdita di credibilità dell'istituzione scolastica, si utilizzerebbero meno i test e si farebbero meno valutazioni.

Biografia

Norberto Bottani è ricercatore di fama internazionale nel campo delle politiche scolastiche.

Dal 1976 al 1997 è stato  ricercatore all' OCSE, più precisamente nel Centro per l'Innovazione e la Ricerca  sulla scuola. Si è occupato di educazione prescolastica, di multiculturalismo e di educazione delle minoranze linguistiche e culturali, e ha pilotato il progetto che ha prodotto  l' insieme di  indicatori internazionali dei sistemi scolastici pubblicato dal 1992  nella serie "Education at a Glance". Ha collaborato alla nascita dell'indagine PISA. Dal 1997 al 2005  ha diretto il Servizio di ricerca sulla scuola (SRED) del Dipartimento dell'istruzione pubblica del Cantone di Ginevra in Svizzera. Vive attualmente in Francia come pensionato e svolge lavori di consulenza. E' consigliere scientifico dell'ADI e membro del consiglio di direzione della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo.

Autore di moltissimi saggi e opere è soprattutto noto in Italia per i tre libri editi dal
Mulino, “La ricreazione è finita”(1986), “Professoressa Addio” (1994) e “Insegnanti al
timone? Fatti e parole dell’autonomia scolastica” (2002).

Ha curato un volume sulla valutazione: Bottani N., Cenerini A.(2004): Una pagella per la scuola Ed. Erickson, Trento

Gestisce un sito multilingue sulle politiche scolastiche accessibile al seguente indirizzo:
http://www.oxydiane.net/

 

* L’intervista è stata realizzata da Marisa Bracaloni per conto di Educazione&Scuola


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