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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Guerre del tempo

La posta in palio quando si lotta per il tempo scolastico

 

Jeremy Rifkin è uno di quei catastrofisti che si sono fatti un nome in questo volger di millennio. Ho ripreso il titolo dal secondo dei suoi best-seller (*), dove mette in scena la battaglia in corso tra i sostenitori della rapidità e dell’efficienza e i difensori dell’armonia con i bisogni della specie umana e i dettami della natura (l’altro riguardava l’entropia).  Ma va ben oltre la questione dei ritmi biologici ed allarga il discorso fino a riconoscere il tempo come una categoria distintiva di qualsiasi società, mettendo in evidenza come le grandi battaglie politiche della storia siano state ingaggiate sulla base di visioni temporali in concorrenza fra loro e conclude che i cambiamenti culturali si verificano solo quando si accompagnano a corrispondenti cambiamenti nella concezione e nell’uso del tempo. Gli esempi citati sono molti e tutti convincenti, anche  le sconfitte memorabili, come quelle subite dalla rivoluzione francese –a proposito di un calendario alternativo (ricordate il mese di ‘brumaio’ e le decadi?)- contro la chiesa cattolica e ben presto sancite dal ‘concordato’ di Napoleone. E’ certamente esagerato riportare le discussioni in corso nella scuola ad eventi di tale rilievo, ma è altrettanto certo che di ‘guerre’ si tratta, politiche e pedagogiche, quando si dibatte sul ‘tempo pieno’ e sull’orario delle lezioni. Ci sono perfino le vittime innocenti, i bambini offerti come scudo umano nelle dimostrazioni: ma questo lo dicono i morattiani, mentre per i loro avversari i bambini sono i primi testimoni dell’attentato alla scuola pubblica…

Eppure, nato 30 anni fa con l’appiglio breve del primo articolo d’una legge destinata ad altro, il TP è una realtà in crescita costante: nonostante la diminuzione delle nascite e le diverse manovre messe in atto dall’amministrazione, almeno a cominciare dal ’91. E dai tagli dell’organico delle ultime leggi finanziarie il TP (a differenza delle classi a tempo normale) è uscito pressochè indenne. Per merito del successo fra le famiglie, come mostrano l’incremento delle iscrizioni ed il numero degli alunni per classe (circa il 2% in più rispetto alle scolaresche a tempo normale): e viene da chiedersi come mai un governo così sensibile all’immagine pubblica, che enfatizza fino alla retorica il primato della famiglia, diventi così duro d’orecchi quando si tratta del TP (e del tempo scolastico in genere). O sembra.

Sul TP bisogna intendersi, perché è un’espressione che dice realtà molto diverse fra di loro, e finanche contrastanti. Nell’uso comune è considerato il corrispettivo di una scuola che funziona con due insegnanti per classe, con mensa e giornata intera, per cinque giorni alla settimana. Ma se si va a guardare più da vicino –p.e. su come i due insegnanti si dividono il curricolo- le diversità emergono in tutta evidenza. E’ documentato anche il TP in cui gli insegnanti semplicemente si giustappongono –anche senza mensa- ognuno col suo orario e ciascuno con tutto il programma. E se non si vuole prendere in conto singole eccezioni –in relazione a situazioni particolari- si pensi agli esemplari storici del TP, cui basta il nome di ‘maestri’ per essere riconoscibili nel mondo delle elementari, che nella giornata piena conducevano in brillante monocrazia tutte le attività didattiche, senza cederne alcuna a chicchessìa.  Anche qui siamo dinanzi a casi singoli, ma il fatto è che il TP non può (come molte altre realtà, in Italia) che essere detto al plurale.

Anche sul piano delle innovazioni e della qualità dell’educazione. I ‘nemici’ del TP –che non sono certo nati oggi, ma insorsero da sùbito- hanno cercato in vario modo di gettare zizzania. Uno di questi gossip si è replicato in queste giornate di passione, quando non è mancato chi ha ripreso il vecchio slogan di ‘scuola degli asini’. Adulterando i fatti, per i quali la scuola elementare è la nostra istituzione scolastica di punta, senza cedimenti, neanche con la diffusione del TP. Che può annoverare esperienze di eccellenza, anche queste ben note. Ma anche qui bisogna, com’è scontato, fare delle distinzioni. E d’altronde, si può considerare un ‘cambiamento’ il TP nel formato corrente, con due insegnanti –una ‘coppia’, non un ‘gruppo’- che operano su una classe sola, rispetto alla scuola d’una volta, che si denunciava come ‘tradizionale’ perché ‘chiusa’ nella classe? E’ solo raddoppiando l’organico –mantenendo la classe come ‘unità di campo’- che si cambia ‘l’ex-piccolo-mondo-antico’ di una classe/un maestro/un curricolo? Non danno ragione alle critiche avverse sullo ‘spreco’ (ovvero sulla funzione assistenzialista, per gli insegnanti prima che per le famiglie) del TP?

Cosa unisce, allora, i sostenitori che alzano le barricate su una realtà così differenziata? E che cosa, sull’altro fronte, si combatte quando si taglia il tempo scolastico e si scrive alle famiglie che non è vero? Di quale ‘tempo’ parlano i contendenti? E’ lo stesso ‘tempo’? No, aveva ragione Rifkin.

Le tesi sul tempo scolastico sono, per semplificare drasticamente il campo, almeno tre. La prima è quella che si può sintetizzare nella formula ‘Non Abbastanza’. Il tempo non è mai sufficiente quando si tratta di recuperare gli svantaggi che la stratificazione sociale infligge ai figli dei ceti più deboli, alle condizioni che non riescono ad assicurare allo studio domestico, ai servizi cui non riescono ad accedere. E’ l’idea del tempo scolastico ‘compensativo’, che serve a riequilibrare i dislivelli di partenza e a decondizionare dal peso di un ambiente culturale sfavorevole allo scopo di assicurare l’uguaglianza e la giustizia educativa. Ci sono anche altri aspetti, in questa tesi, come quella della protezione del bambino dalla alienazione di massa: ma in nome della ‘salvezza’ del bambino si promunciano (a loro modo) tutte le pedagogie, mentre l’educazione compensativa è specifica del ‘non abbastanza’.

La seconda si può rappresentare come ‘Non Abbastanza Bene’, che con qualche approssimazione va vista come una variante della precedente. L’accento cade sulla qualità dell’educazione, con particolare riguardo per le dimensioni morali e civili (v. le ‘educazioni’). Soltanto che per rimediare a questi scompensi –v. la denuncia della scuola della scuola che farebbe solo ‘istruzione’- il rimedio viene inevitabilmente cercato nella quantità: più tempo alla scuola, quindi, soprattutto per quelle attività che possono consentire la partecipazione ed il tirocinio civico degli studenti, oltre che  offrire alternative valide al disorientamento etico della cultura consumista. 

Arriviamo infine alla terza tesi sul tempo a scuola, riassumibile come ‘Troppa Scuola’. Comprende: un giudizio negativo sulla scolarizzazione ad oltranza, chè non porta gli effetti sperati, anzi conferma le disuguaglianze d’origine; una valutazione positiva della libertà di apprendere, di scegliere le occasioni, le risorse ed i maestri, attingendo alle opportunità offerte dal mercato culturale. Anzi, è la scelta stessa che –restituendo al soggetto la titolarità del processo- rinforza la significatività dell’apprendimento e promuove la capacità di orientarsi (che non riesce ad essere sufficientemente coltivata a scuola, il cui regime tende ad incoraggiare la dipendenza). E’ una posizione che si accompagna regolarmente ad argomentazioni economiche, che mostrano come la scuola pesi troppo nei bilanci statali, fino a non consentire interventi infrastrutturali proprio a favore delle condizioni sociali dei ceti marginali (che risulterebbero ben più incisivi dell’azione illusoriamente compensativa della scuola).

Evidentemente sto schematizzando troppo, né mancano contaminazioni fra le diverse temporalità scolastiche, ma preferisco peccare di precisione piuttosto che di chiarezza. Il TP va considerato una delle soluzioni che cerca di rispondere alla prima delle tre (due) tesi sulla scuola. All’epoca in cui si affermò da noi –correvano gli anni ’70- si colorò di quella congiuntura culturale: era il modello pedagogico che riteneva di poter concentrare in sé ‘tutto’ l’insegnamento - anche per i contenuti solitamente ‘minori’- e ‘tutto’ l’apprendimento –anche per le dimensioni più ‘spontanee’- creatività compresa. Un’idea di scuola ‘totale’, centrata sull’unitarietà dell’esperienza educativa, che mirava a formare il futuro cittadino ‘a tutto tondo’. E pertanto disponeva la scuola al centro del sistema formativo locale, assumendosi la responsabilità di supplire alla crisi delle altre istituzioni educative (v. la famiglia) e di farsi, attraverso l’educazione, agenzia di sviluppo della comunità locale (quasi sempre lungo la frontiera del disagio sociale e dell’arretratezza culturale).

Il principio di totalità valeva anche per l’insegnante, chiamato ad esprimersi compiutamente, spendendosi in una relazione diffusiva, dentro e fuori della scuola. Il TP era un’esperienza pedagogica ‘militante’, e non erano gli aspetti più strettamente professionali, in genere, a valere di più, rispetto alla presenza sociale ed alla disposizione ‘politica’. Ma era anche un crogiuolo dove ebbero modo di generarsi le innovazioni didattiche ed organizzative di cui si è alimentato tutto il séguito –Programmi l985 e Moduli l990- delle elementari e quel tipo di progettualità che (anche per merito dell’amministrazione) ha generato tutto o quasi dell’autonomia che c’è già. Tutto questo implicava il tempo, che era comunque solo una condizione, non la denotazione emergente di quell’idea. Però si diceva con la parola tempo (pieno). Così che quando cercavamo di spiegare ai colleghi stranieri –che non capivano in che cosa consistesse questa innovazione, dal momento che per loro si trattava della temporalità normale- non era facile intendersi. Il fatto era che la novità (se era tale) non era il tempo, ma quello che   stava ‘dentro’ …. Ancora Rifkin.

Ma contava anche l’immagine esterna. Allora i lati della politica contavano, eccome, ed erano caricati ideologicamente. Ed il TP, nonostante non fosse così, era di sinistra. Gli anni sono passati, ma per non pochi –fra questi buona parte dei partiti al governo- il TP è ancora  ‘la scuola dei comunisti’. Non può essere compresa nell’agenda dell’amministrazione. Che quando assicura di non mettere a repentaglio il ‘tempo pieno’ non sta parlando del TP –la scuola ‘totale e centripeta’- bensì del tempo orario, le 40 ore settimanali. Ma anche questo corrisponde ad una ‘visione temporale’: il tempo che si ottiene sommando, al massimo dell’estremità, i tempi curricolari con il menù delle opzioni e della facoltatività. Il tempo scolastico come ‘tempo alla carta’, su ordinazione.

Ovvero la risposta organizzativa alla tesi del ‘Troppo Scuola’. E si spiega così perché –nonostante sempre di 40 ore si tratti- gli uni parlano –giustamente, dal loro punto di vista- di ‘morte del TP’, mentre gli altri giurano di mantenerlo –il ‘tempo pieno’ di attività non curricolari- ancora in vita. E così evitano di porsi domande autocritiche, ad esempio, per gli uni: è ancora difendibile –con l’extrascolastico di oggi- il TP nei termini in cui era stato pensato? E’ plausibile, oggi, la centralità della scuola nel sistema formativo locale? Per gli altri: è proprio vero che la scuola non fa la differenza rispetto ai condizionamenti sociali? E sono affidabili le attese per le opportunità educative offerte dal mercato culturale? E un interrogativo essenziale per tutti: qual è il tempo per la scuola di oggi, con l’agenda dei bambini zeppa fino a sessanta ore ed i genitori tesi ad esprimere (appieno) le rispettive soggettività?

(Elio Damiano, in Nuovo Gulliver News, n.63, pp.5-8)

 Elio Damiano e’ ordinario di didattica generale all’Università di Parma .I suoi studi riguardano principalmente l’innovazione scolastica, la formazione degli insegnanti  e i modelli didattici

Tra le pubblicazioni recenti

- L’azione didattica. Per una teoria dell’insegnamento , Armando Editore, Roma 1999

-Idee di scuola a confronto . Armando Editore, Roma 2003

-Insegnare i concetti .Un approccio epistemologico alla ricerca didattica ( in via di pubblicazione )

* traduzione italiana da Bompiani, Milano l989

 


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