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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

RIFLESSIONI DI UNA INSEGNANTE DI SCUOLA PRIMARIA A SEGUITO DEL D.P.R. 137/08

 E’ un curioso destino, quello della Scuola primaria, dove da alcuni anni ogni ministro che arriva,  ritiene necessario modificare, persino stravolgere, ogni cosa, sia essa ordinamento, siano i programmi, sia l’organizzazione funzionale del personale. La cosa buffa (e tragica) è che ogni volta si incomincia soprattutto dalle elementari, lasciando intatti gli ordini di livello superiore che pure avrebbe bisogno di una qualche “aggiustatina”. Ogni ministro pensa di fare una cosa epocale, e poi tocca a noi rimediarvi, a noi che realmente ci occupiamo della scuola , e non solo per la durata della legislatura ministeriale.

Oggi è in discussione il ripristino di una scuola che andava di gran moda fino agli anni ’60 quando essa era strutturata come il ministro Gelmini la ipotizza oggi.

Ma come si fa a non capire che non sono più i tempi di allora, che oggi occorre affrontare non tanto l’alfabetizzazione di base quanto le specializzazioni settoriali,  che non basta usare solo la matita e il quaderno o il gesso con la lavagna di ardesia, nell’era della moderna tecnologia? Tecnologia che va conosciuta, usata, “dominata” perché sono i genitori a non volere figli creduloni, a cui basta una telenovela per sognare una posizione nel mondo migliore di quella vissuta realmente, e soprattutto sono le industrie ad avere bisogno di manodopera qualificata, che sappia gestire la complessità del lavoro e soprattutto che sappia render, rispetto al capitale impiegato. Insomma, dato che siamo un paese tra i più industrializzati, chi può desiderare una scuola che non prepari per il mondo iperstrutturato che ci attende? Neanche la destra che ci governa oggi, ancorché forte del successo elettorale.

Mi viene da pensare che il pensiero, la filosofia – se così si può chiamare – che esprimono le modifiche apportate di gran fretta – per decreto- dal nostro ministro, sia quello di immaginare una società non divisa per merito ma differenziata tra chi ha avuto la possibilità di frequentare scuole molto qualificate, dove non importa il numero degli insegnanti che occorrono per educare e formare i rampolli delle nuove classi dirigenti e il popolo, quello composto dal ceto medio e basso che è bene che sappiano poco, che siano poco capaci di pensare con la propria testa, persone sottomesse all’ignoranza che non siano di impiccio, che non siano in grado di comprendere fino in fondo i raggiri che chi ha cultura e competenza può proporre.

In sostanza, questo tentativo di modificare la scuola primaria lede il diritto democratico e costituzionale che prevede per tutti, non uno di meno, di ricevere istruzione ed educazione attraverso personale qualificato ad insegnare.

In questi giorni le voci che si sono alzate contro tali modifiche sono state tantissime e questo mi fa pensare che ancora siamo all’interno di uno stato a democrazia partecipata, e per questo bisogna meglio spiegare gli aspetti pedagogici che hanno sostenuto la scelta dei team docenti anche per la scuola elementare. Infatti, negli anni ’80 si è avviato un processo di revisione del sistema educativo di base che sarebbe ideologico analizzare soltanto con l’aumento di posti di lavoro, ancorché importanti anch’essi.

Se il nostro ministro continua a ripetere, in sintonia con alcune organizzazioni conservatrici che rivogliono una scuola primitiva, che l’avvento dell’organizzazione modulare sia servito ad assumere persone inutili, sta proprio prendendo un granchio, un enorme balla raccontata e creduta da chi ha tanto a cuore un mondo deamicisiano non più esistente.

Tanto per spiegarmi, faccio riferimento al mio vissuto. Quando entrai nel ruolo della scuola elementare era in atto la discussione sui programmi scolastici, ritenuti non più aderenti al cambiamento che nel frattempo era sempre più evidente. Provenivo da alcuni anni di insegnamento nella scuola dell’infanzia e, vinto il concorso, ho iniziato come maestra unica il mio lavoro. Le mie competenze si erano andate rafforzando nell’ambito linguistico-antropologico: in questi ambiti ho dato il meglio delle mie capacità metodologiche, contenutistiche, organizzative. Le altre discipline le ho insegnate, punto e basta. Dopo due anni, sono iniziate le sperimentazioni modulari: si è allora aperto un mondo magnifico per gli studenti che potevano godere di docenti che, avendo suddiviso le discipline ed avendole integrate con la reale valorizzazione delle attività educative complementari, curavano finalmente la formazione della personalità nel suo intero, con efficacia ed efficienza, studiando ed aggiornandosi continuamente, mettendosi in discussione per superare l’idea della “mia classe”, della maestra chioccia, utile ma ingiusto sostituto della famiglia e soprattutto della mamma. Le cose non sono state affatto facili, per alcuni anni si è parlato spesso di maestra a righe, a quadretti e dei lavoretti.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, il ricambio generazionale (il personale presente alla primaria si attesta sui 48 anni, vuol dire che mediamente molti docenti sono entrati a far parte del modulo a circa 25 anni) ha aiutato nel far evolvere il maestro da custode di valori “agresti”, da focolare, a professionista competente e specializzato, che fa ricerca, che si aggiorna, che riesce a gestire l’innovazione sempre necessaria nel fatto educativo.

Da oltre vent’anni la scuola elementare vede la presenza in ogni classe (meglio, in un gruppo di 2 classi aggregate in un modulo) di un team di docenti (in genere composto da tre insegnanti: per l’area linguistica, quella matematica e quella storico-sociale) che duplicano i loro interventi nelle due classi loro assegnate. Una pluralità di docenti (simile a quella esistente in tutti gli altri livelli scolastici, compresa la scuola dell’infanzia), che lavora in modo efficace perché dedica almeno due ore settimanali del tempo di lavoro obbligatorio alla programmazione dell’attività didattica delle singole classi (fatto atipico del sistema scolastico italiano).

Oggi parliamo di laboratori aperti, di didattica laboratoriale su tutte le discipline, di supporti per gli alunni svantaggiati o diversamente abili che ci invidia il mondo educativo estero (e che con il ritorno al maestro unico, ben poche possibilità avrebbero di diventare lavoratori impegnati perché in possesso delle adeguate capacità). Parliamo di informatica, di tecnologia, di attività musicali, artistiche, motorie, religiose, di educazione alla pace, alla convivenza (come vede il nostro ordine di scuola non ha bisogno di un decreto legge per insegnare la Costituzione), all’ambiente, al benessere così come all’espressione individuale, alla creatività, al superamento dell’intolleranza.

Orbene, come potrebbe una sola persona portare avanti questa mole di lavoro in modo dignitoso, progettato, pensato? Si è certi che l’utenza sia disponibile a tornare così tanto indietro da chiedere per i propri figli una scuola depauperata, ridotta ad un insegnamento frontale, perché così sarà se si prevede anche l’aumento del numero di alunni per classe? Quali garanzie il governo metterà in atto per far sì che tutti possano andare a scuola? Oppure anche questo dato non è necessario alla crescita culturale di un popolo? D’altronde l’Italia è un paese molto vario anche dal punto di vista orografico e la collocazione sul territorio delle tante scuole che, giustamente in alcuni casi e ahimé in altri, saranno “razionalizzate”, comporterà oggettivamente la diminuzione del diritto allo studio.

Abbiamo lottato per tutto il secolo XIX° al fine di giungere ad ufficializzare la scuola pubblica per tutti i giovani, è mai possibile che un ministro e un governo possano gettare al vento la storia di un popolo?

Vogliamo poi parlare di sprechi? Perché ce ne sono, sicuramente, ma forse non sono prioritari quelli legati al personale della scuola concreta: cito quelli che mi vengono in mente per primi. L’organizzazione del ministero, degli Uffici Scolastici Regionali, delle varie Agenzie di valutazione, documentazione, monitoraggio, gestione, e chi più ne ha più ne metta, a cui affluiscono soldi pubblici con personale ben pagato che spesso lavora nella confusione dei ruoli. Soldi che potrebbero garantire l’efficienza delle scuole, del personale non docente, sempre carente, di materiali e strumenti che quando ci sono, sono archetipi o da museo.

Vogliamo parlare dei laboratori di informatica in cui, se va bene, ci sono macchine risalenti ai piani A e B della metà degli anni ’90? Il ministero sicuramente sarà dotato di tecnologie avanzate, ma nelle scuole vi sono gli Amstrad, che praticamente sono inutili perchè non vi possono girare i software di nuova generazione.

Vogliamo parlare dei laboratori di scienze che non esistono? O delle palestre che solo con generosa competenza e disponibilità a ricercare anche il più piccolo sponsor, gli insegnanti cercare di mantenere ai limiti della decenza?

I risultati OCSE-PISA, a cui si affida il “pensiero pedagogico” del ministro danno esiti deludenti per la scuola italiana, ma ci si scorda che le rilevazioni e le prove legate alla scuola dell’infanzia e primaria, soprattutto, indicano senza ombra di dubbio che questo comparto del sistema scolastico risulta essere tra i primi posti (e intendo al 2° posto europeo e 6° a livello mondiale) delle graduatorie internazionali. I problemi sopraggiungono negli altri ordini di scuola, ma costoro saranno sempre secondi nei processi riforma messi in campo dai governi. Viene da chiedersi il motivo e viene il sospetto che vessare la scuola primaria con riforme e controriforme, con programmi, programmazioni, progettazioni, formazioni, aggiornamenti, indicazioni e ordinamenti con la scusa che il sistema scolastico debba essere riformato a partire dalle fondamenta, lo si possa fare perché in tali ordini di scuola i docenti sono meno politicizzati, meno sindacalizzati, non hanno armi a loro vantaggio per affermare la qualità che la scuola primaria esprime e che sarebbe bene non corrodere ad ogni cambio di governo.

Vorrei aggiungere anche un altro dato che desta i miei sospetti. All’articolo 4, comma 1, del decreto legge 137/2008 si legge:

“Nei regolamenti si tiene comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola” e al comma 2

“con apposita sequenza contrattuale … è definito il trattamento economico dovuto per le ore aggiuntive rispetto all’orario d’obbligo di insegnamento stabilito dalle vigenti disposizioni contrattuali”

Frasi sibilline che potrebbero indicare nuove formule organizzative come l’ampliamento del tempo pieno (e in questo caso si limiterebbe il risparmio tanto invocato), ma non è malizioso ipotizzare che, poiché le famiglie non sono disposte a immaginare un tempo- scuola di sole 24 ore settimanali, si voglia ampliare la professionalità degli insegnanti in un babysitteraggio, pagato dallo stato. O, peggio ancora, i commi possono dare spazi lavorativi a “privati”, ad associazioni create ad hoc che potrebbero ricoprire il vuoto educativo creato da siffatta legge.  Ma questa è l’immagine che questo governo ha di uno dei cardini della società italiana?

E’ una miopia che non ha nulla a che fare neanche con gli orientamenti delle moderne destre europee che governano in altri Paesi: è una visione classista e retriva quella che emerge da questa calda estate e che fa presagire un autunno altrettanto caldo. E’ una visione che porta allo smantellamento della scuola pubblica a favore di quelle private, a cui lo stato generosamente già elargisce ciò che dovrebbe essere primariamente messo a disposizione per quella statale; scuole che avranno mezzi e strumenti e personale e numero di alunni equo, che potranno permettersi di essere seguiti con adeguata qualità professionale ma che non saranno alla portata di tutti.

Già ora sono poche le risorse destinate alla scuola rispetto ai nostri partner europei. Discutiamo pure di come azzerare gli sprechi, di come utilizzare meglio le risorse per la scuola e, soprattutto, di come incrementarle, anziché diminuirle, portando così la scuola e il Paese verso un inevitabile declino. La riduzione del numero degli insegnanti è diventato uno dei cardini della politica scolastica dei prossimi anni. È fin troppo facile additare gli alti rapporti numerici insegnanti-allievi per la scuola elementare e quindi proporre radicali correttivi. Il problema del numero degli insegnanti richiede un’analisi non emotiva. Occorre saper vedere la specificità della scuola italiana e dei suoi 8.000 Comuni, la generalizzazione del diritto all’istruzione (“La scuola è aperta a tutti” recita l’art. 34 della Costituzione), l’intervento per i disabili, l’accoglienza dei cittadini non italiani, il tempo disteso a supporto delle famiglie.

Non sono la sola a pensare che sia importante riflettere sulla nostra scuola, se questo vuol dire correggere gli errori per dare una maggiore qualità formativa, ma lo si deve fare con un confronto aperto culturalmente, in una prospettiva educativa di continuità 3-16 anni, ove anche il biennio di istruzione obbligatoria (14-16 anni) faccia parte integrante della formazione di base di tutti i cittadini.

Il nostro Paese, caro ministro, necessita di un sistema scolastico autorevole, stabile, che dia garanzie democratiche e competenze ai futuri cittadini. Abbiamo bisogno per questo di dare forza e aumentare la professionalità dei docenti. Un decreto legge, se si trasformasse così pensato, in legislativo, non può permettersi di disperdere la professionalità acquisita e dimostrata dai dati, non può permettersi di avere un corpo docente continuamente frustrato e denigrato, soprattutto quando il corpo docente in questione è quello che ha mantenuto, nonostante le difficoltà, alto il livello della qualità educativa  italiana.

Anna Locchi


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