Prima Pagina
Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Istituti comprensivi: il perché di un “successo annunciato”

 di Giancarlo Cerini[1]

Un’analisi accurata e dettagliata che traccia la storia degli Istituti comprensivi, la loro origine, lo stato attuale, la loro possibile evoluzione futura; sullo sfondo il dibattito che ha accompagnato in questi anni la possibilità di riformare il sistema scolastico pubblico nel nostro Paese.

1. Un’esperienza di successo

2. Scuole verticali e processi di riforma

3. Il “comprensivo”, tra vizi e virtù

4. Le tre generazioni degli Istituti comprensivi

5. Il dimensionamento alla prova dell’autonomia

6. Gli indicatori di qualità

7. La ricerca sul curricolo verticale

8. Ripensando alla riforma dei cicli: le occasioni mancate

9. Nasce la scuola di base

10. Le prospettive future del comprensivo


 

1. Un’esperienza di “successo”

        Questo intervento si pone l’obiettivo di ricostruire, in sintesi, la storia e la cornice di sviluppo dell’Istituto comprensivo e di vederne le connessioni con le proposte di innovazione che in questi anni sono state immaginate per la scuola italiana, per capire come possa contribuire a delineare un orizzonte futuro più rassicurante delle incertezze odierne. I dati sull’espansione degli Istituti comprensivi sono molto eloquenti. Se usiamo il “gergo” della politica, dovremmo prendere atto che c’è una maggioranza relativa di scuole di base organizzate “in verticale”. Gli ultimi dati, quelli più recenti, ci parlano di 3283 Istituti comprensivi (e sono circa il 40%), di 2700 Circoli didattici, cioè di scuole elementari e materne organizzate in orizzontale (circa il 32%), e di 2300 scuole medie orizzontali, cioè il 28%.

    Il 40% di scuole rappresenta un dato geo-politico molto interessante, perché ormai interi territori hanno scelto la generalizzazione dell’Istituto comprensivo, come appunto la provincia di Pisa. Si può citare anche la provincia di Trento, con la sua tradizionale vocazione federalista, che ha esteso totalmente l'organizzazione “in verticale” delle scuole di base del territorio. Ancora, è molto curioso e intrigante il dato per cui la Lombardia e la Sicilia sono le due Regioni italiane dove si è maggiormente diffusa la presenza degli Istituti comprensivi. Dietro questi dati quantitativi, che indicano certamente un “successo” del nuovo modello di organizzazione della scuola, ci sono motivazioni diverse, che vanno ricostruite anche per prefigurare gli scenari futuri. Infatti, ci si potrebbe chiedere: «questo modello è una meteora destinata a spegnersi nel giro di poco tempo, oppure è una stella di prima grandezza del nostro firmamento scolastico ?»

 

2. Scuole verticali e processi di riforma

    La storia dei “comprensivi” nasce quasi per caso nel 1994, nell'ambito di un provvedimento di Legge molto a-specifico e generale sulla tutela delle zone di montagna (legge n. 97 del 31-1-1994); ha però acquistato via via un valore aggiunto. Cambiato lo “sfondo” (delle riforme) nel corso di questi anni, è cambiata anche la “figura” dell'Istituto comprensivo.

    Ma, qual è (e qual è stato) il rapporto tra Istituto comprensivo e riforma della scuola? Certamente c’è un parallelismo evidente tra questa istituzione e l’innovazione del ciclo di base, ma è mancata una convergenza sicura tra i due eventi. Si è creata quasi un'incomprensione tra questo oggetto pedagogico e organizzativo (la scuola “verticale”) e il disegno dell'innovazione degli ordinamenti, sia durante l'epopea berlingueriana, sia nell'era glaciale della Moratti... (la doppia ironia si riferisce all’enfasi ingenua, contenuta nel modello di ciclo “primario” proposto dal ministro Berlinguer e alla freddezza manifestata dal ministro Moratti nei confronti della legge 30/2000).

    A entrambi gli schieramenti l’Istituto comprensivo è spesso sembrato un oggetto indecifrabile. Molti si sono chiesti, nel corso di questi anni: ma il “comprensivo” è coerente o no con il riordino dei cicli, per esempio con i contenuti nella Legge 30/2000? Ancora oggi, nelle aule parlamentari, ci si chiede certamente: ma è coerente o no con la proposta di legge delega presentata dall’attuale Governo? Questo duplice interrogativo è però illuminante del rapporto non univoco tra la dimensione micro, cioè la realtà che  cambia sotto i nostri occhi, che possiamo modificare e governare... e il livello macro, i grandi disegni, le grandi riforme che sembrano sfuggire alla nostra capacità di controllo.

    In fondo, decidere una verticalizzazione non è un dictat che arriva dall’alto, ma è una scelta che è vissuta e costruita in una comunità: il Comune, l'Ente locale, la scuola, la Provincia, il piano regionale: ci sono tutti gli spazi e gli strumenti giuridici in loco per decidere se verticalizzare o meno. C’è dunque una realtà che può essere trasformata, una scuola che può essere cambiata e governata, costruita in base a un criterio pedagogico, se riusciamo a condividerlo. Invece, rispetto ai grandi modelli e ai grandi progetti, ci sembra di non essere mai sufficientemente “padroni” (o, almeno, coinvolti). Questa riflessione ci dice della difficoltà a costruire “grandi” riforme in un rapporto diretto, coinvolgente, con chi sta all'interno della scuola. È una difficoltà che si è manifestata, invariabilmente, nei diversi scenari politici.

      Nella vicenda dei comprensivi ha pesato il dato genetico, cioè il fatto che i “comprensivi” fossero nati per le emergenze territoriali, per le aree di disagio marginale, nelle province più difficili dell'Italia minore, degli Appennini e delle Isole. È sembrato che questo punto di origine fosse quasi un impedimento non più riscattabile, tale da rendere l'Istituto comprensivo un punto di appoggio troppo fragile per costruire la nuova identità per l’intera scuola di base italiana. Anche questa percezione conferma l'identità ambivalente, incompiuta, del “comprensivo”.

 

3. Il “comprensivo”, tra vizi e virtù

    Il dibattito oscilla, ancora oggi, tra una lettura pessimista e una ottimista. L'approccio negativo tende ad affermare che l'Istituto comprensivo in questi anni è stato un semplice escamotage organizzativo, senza un'anima pedagogica; cioè, un puro matrimonio di interessi, dove l'incontro tra le diverse culture e le diverse professionalità non si è mai “consumato”, tale che oggi vive l'infelice situazione dei "separati in casa". La tesi dei pessimisti è che nulla sia cambiato rispetto a prima, e che quindi le “fatiche” della verticalità non siano compensate dalle “gioie” della comprensività.

      C'è però una lettura più positiva e ottimistica della realtà, che vede nel “comprensivo” la culla del curricolo verticale, del progetto in continuità, cioè il contesto organizzativo in grado di vincere le sfide educative di oggi e di domani, nel garantire le migliori opportunità di formazione a tutti i ragazzi in età evolutiva. A conferma di questa seconda ipotesi vengono portati a referto casi vissuti, esperienze osservate, motivazioni ritrovate, professionalità in crescita, rapporti generosi con il territorio.

    L'Istituto comprensivo, infatti, può essere per gli adulti che operano in esso un laboratorio di ricerca, cioè uno spazio dove farsi domande importanti e cercare risposte pertinenti. Non c’è solo la leggendaria Scuola-Città “Pestalozzi” di Firenze, da citare come modello di scuola- laboratorio di ricerca (tra l’altro, funzionante da oltre mezzo secolo), ma tanti Istituti forse più anonimi, ma altrettanto ricchi di esperienze significative e di motivazioni.

    È vero, non possediamo dati probanti che ci confermino che un ragazzo che esce dalla terza media di un Istituto comprensivo disponga di un livello di competenza più alto e ricco, se paragonato a chi abbia invece frequentato tre strutture separate (scuole dell’infanzia, elementari e medie, a diversa gestione, frammentate nel territorio). Non abbiamo questi dati perché non disponiamo di un collaudato sistema di valutazione e forse non condividiamo nemmeno gli oggetti o i criteri da mettere al centro della valutazione. Inoltre, siamo al settimo anno di esperienza della scuola verticale, quindi nemmeno gli Istituti della prima generazione sono in grado di esibire un curricolo collaudato e complessivo, dai 3 ai 14 anni.

    Questo dato ci ricorda che le riforme devono vivere almeno una generazione per essere capite nei loro effetti. Non si può pensare che sia sufficiente un respiro di due o tre anni per modificare o trasformare a fondo la scuola.

      Un merito però si può riconoscere agli Istituti comprensivi, quello di aver creato situazioni di forte coinvolgimento e di forti passioni attorno al “fare scuola” e all’idea di “formazione di base”. Basti citare, a titolo di esempio, una delle ultime vicende, che ha messo in moto oltre 500 Istituti comprensivi sulla rete web, con un documento “dal basso” in cui gli Istituti Comprensivi hanno chiesto, di fronte alle dimenticanze di oggi, di essere ascoltati sul futuro della scuola, di essere valorizzati come realtà (non ideologica), di una scuola che è già cambiata e che sta provando a confrontarsi con problemi complessi come la continuità e la discontinuità, il curricolo verticale, la professionalità ecc.[2]

    Ci sono oltre 150.000 insegnanti che lavorano negli Istituti comprensivi e a loro va riconosciuto il diritto di parola nel decidere, nel definire, nel partecipare ai disegni futuri della nostra scuola.

    C’è dunque un forte dinamismo nella vicenda degli Istituti comprensivi, che però non può far dimenticare alcuni punti interrogativi connessi al nuovo modello organizzativo. È utile, allora, ripartire da questa storia, giunta ormai al settimo anno. C’è alle viste la possibile crisi del settimo anno - si potrebbe obiettare - però è una crisi di crescita, perché l'altimetria dello sviluppo è del tutto esponenziale. Oggi siamo al 40% ma, appunto, come ci siamo arrivati?

 

4. Le tre generazioni degli Istituti comprensivi

    In questo breve lasso di tempo si sono succedute e si sono sovrapposte almeno tre generazioni di Istituti comprensivi. La prima generazione è stata quella dell'emergenza, delle scuole di montagna, dei piccoli centri. In genere sottovalutiamo questo dato, però la scelta della verticalizzazione ha consentito la permanenza di Istituzioni scolastiche autonome, cioè di un insieme integrato di scuole con un centro decisionale, di autogoverno. Non ci riferiamo, in questo contesto, al problema delle “piccole scuole” come punti di erogazione del servizio educativo.

    L'Istituto comprensivo rappresenta un centro che pensa, che decide, dove ci sono Organi collegiali, la presidenza, il Collegio, cioè un punto di “snodo” di competenze, di elaborazione, di ricerca. È una presenza istituzionale in una Italia che spesso consideriamo “minore”, come per esempio quella dell'Appennino, però è un'Italia che vuole continuare a vivere e a funzionare bene. Anzi, ci si potrebbe chiedere dove si colloca oggi la qualità della vita. Forse è meglio vivere in una piccola cittadina, con la sua storia, la sua identità, che non in certe grigie, anonime, periferie delle grandi aree urbane. Alcuni indicatori sulla “qualità della scuola” esprimono il meglio di sé proprio in questa Italia apparentemente minore.

    La seconda generazione degli Istituti è rappresentata da quelli che sono nati sull’onda di un progetto pedagogico, della ricerca sul curricolo verticale, della continuità. Dove il dirigente scolastico è stato un convinto sostenitore della proposta. Dove si sperimentava già un percorso imperniato sui laboratori, sulla pratica di incontro tra le professionalità, sui prestiti professionali ecc. Si tratta di Istituti spesso collegati in reti di scambio. Si può citare il gruppo di 22 Istituti comprensivi che negli anni scorsi hanno partecipato al progetto sperimentale coordinato dal prof. Piero Boscolo (L’istituto comprensivo: laboratorio per l’innovazione)[3]. Oppure, la rete degli Istituti comprensivi delle zone di montagna o di quelli che operano all’interno dei parchi naturali: quando il territorio è un'emergenza ambientale o è un bene tutelato dal punto di vista naturalistico, può diventare una risorsa su cui innestare anche progetti didattici. Ancora, ci sono gruppi che lavorano sulle dimensioni curricolari, in Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte e Campania, aggregati attorno a un progetto inizialmente sostenuto dall'Amministrazione scolastica centrale[4]. Infine, sulla base delle risorse per i piani nazionali di formazione, esistono in ogni regione scuole-polo, istituti, centri di documentazione, siti internet dedicati[5].

    Sono punti di forza del nostro sistema scolastico, spesso sottovalutati, non riconosciuti, non valorizzati, quasi per un malinteso spirito autonomistico dell'Amministrazione centrale. Certamente il centro non deve più governare minutamente i singoli aspetti della macchina scolastica, ma deve capire come evolve il sistema, dove sono i punti di eccellenza, come si possono valorizzare le “buone” esperienze, come si può “monitorare” ciò che sta cambiando nella scuola italiana. Questa è la funzione del centro, anche in epoca di federalismo e di autonomia, in mancanza del quale non saremmo più in grado di garantire la conoscenza e la regolazione del nostro sistema pubblico nazionale di istruzione.

    La terza generazione è quella degli Istituti nati a valanga a seguito delle operazioni di dimensionamento delle unità scolastiche, in funzione del conferimento dell’autonomia (Dpr 233/1998). Oggi i “verticali” sono complessivamente 3200, ma con la prima e la seconda generazione si era arrivati solo a quota 1000, i rimanenti sono nati sotto il segno del dimensionamento.

    Nel dimensionamento i protagonisti sono stati gli Enti locali: il Comune, la Provincia, la Regione, mentre gli “interni”, gli addetti ai lavori si sono chiamati fuori: «noi non sapevamo nulla, abbiamo imparato dai giornali che eravamo verticalizzati», oppure esprimono perplessità e insoddisfazioni sul ruolo del dirigente (che spesso è un incaricato o proviene da un diverso livello scolastico), sulle difficoltà organizzative, sulla mancata conoscenza delle specificità dei tre settori che compongono l’Istituto.

   Uno dei punti di forza del “comprensivo” è infatti rappresentato dalla figura del dirigente scolastico, è la persona fisica e giuridica che impersona l’unitarietà (di progettazione e di sviluppo) dell’Istituto.

 

5. Il dimensionamento alla prova dell’autonomia

    In generale, sono stati gli Enti locali i maggiori supporter della diffusione degli Istituti di terza generazione, spesso mobilitati da intenzioni non sempre “nobili”, di carattere “campanilistico”, dettati anche dal desiderio di salvaguardare comunque direzioni didattiche e scuole medie, raggiungendo con ogni mezzo (lecito) l’agognata e necessaria soglia di 300 alunni (nelle zone di montagna) o di 500 (negli altri casi) per far vivere un Istituto.

    A prima vista, sembrerebbe che il dimensionamento sia avvenuto soprattutto per ragioni di natura contabile, amministrativa e giuridica, quasi all’insaputa della scuola. Anzi, parlando di “comprensivi”, si afferma spesso che sarebbero stati istituiti unicamente per far fronte a un problema di risparmio della spesa pubblica. È pur vero che in pochi anni si è passati da 13.500 scuole, cioè Istituzioni scolastiche autonome, a poco più di 10.700 Istituti. Anzi, all'inizio degli anni ottanta esistevano oltre 17.000 scuole “autonome” in Italia. Questo dato va ricordato a tutti gli interlocutori sociali (come gli esponenti di Confindustria) che attribuiscono alla scuola una sindrome di autoreferenzialità, che impedirebbe ai docenti di rimettersi in discussione e di impegnarsi attivamente nei processi di riforma, come sarebbe dimostrato dalle ripetute pronunce negative del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione nei confronti dei diversi progetti di riforma o di sperimentazione presentati in questi anni.

    Il processo di dimensionamento, con i suoi prezzi, con la razionalizzazione delle sedi (basti pensare alla riorganizzazione anche “mentale” di Collegi dei docenti “ristrutturati”, per passare da 17.000 a 10.700 Istituti) ha però consentito di costituire oggi una rete solida di circa 10.000 Istituti. In Italia abbiamo oggi 8000 Comuni e 10.000 scuole autonome; c'è quasi un parallelismo tra le due entità.

    Anche le scuole autonome hanno un loro fondamento istituzionale nella Costituzione, con un riconoscimento di “autonomia funzionale” all’interno del Titolo V del nuovo testo costituzionale (Legge n. 3 del 18-10-2001). Anche la querelle del numero medio degli alunni per classe è un ulteriore indicatore di sana amministrazione: se all'inizio del processo di riforma, nel 1990, avevamo un numero medio di 15,5 bambini/e per classe, oggi siamo saliti a 18,5, con uno standard di livello europeo, non più ulteriormente comprimibile. Questo e altri dati vanno ricordati a chi ha considerato la riforma della scuola elementare come uno spreco di risorse.

    Analogamente ci potremmo riferire alla rete delle scuole medie, che presentavano una media di 260 alunni a Istituto, con 25-30 insegnanti per Istituto. Ma con Collegi di così poche unità non sarebbe stato possibile realizzare l’autonomia: occorrono risorse culturali, intellettuali, istituzionali per far fronte alle responsabilità di progetto, al piano dell'azione formativa, all’interlocuzione con il territorio. Venti docenti non fanno “massa critica”; sarebbero travolti facilmente dai gruppi di pressione, dalle lobby, dai condizionamenti esterni. L’autonomia deve invece “marcare”  un  rafforzamento della capacità della scuola di dotarsi di un proprio progetto educativo e di dialogare a testa alta con gli Enti locali, con il territorio, con i genitori, con il mercato.

      Il dimensionamento, che tanto ci ha fatto “soffrire”, ci lascia una rete scolastica più significativa e solida, caratterizzata dal 40% di “comprensivi”. È una geografia più adatta e pronta per l’autonomia. La scuola dell’autonomia assume nuove responsabilità nei confronti della comunità e nel rapporto con gli utenti; è un agente di sviluppo in un territorio, anche e soprattutto nelle aree marginali. L’Istituto comprensivo si rivolge ai genitori, agli utenti, agli Enti locali, assumendosi la precisa responsabilità, senza alibi, di garantire la formazione di un/a bambino/a dai 3 ai 14 anni, accompagnandolo nel passaggio da un'istituzione educativa all'altra. Questa responsabilità dà il senso dell'affidabilità dell’istituzione e implica un’elevata professionalità “interna”, tra gli operatori scolastici.

    Oggi disponiamo di una rete di 10.700 scuole autonome, con uno standard medio di circa 700 allievi e di circa 70-80 docenti. Sembra una dimensione equa, governabile. Quando andiamo oltre, cioè quando superiamo i 1200-1300 allievi per scuola, ci dicono le ricerche internazionali,  tutto diventa più difficile; la dimensione impedisce di costruire quell'ambiente di interazione ravvicinata dove il dirigente si rapporta con lo staff, con i colleghi; è visibile, si assume responsabilità dirette. Il mancato reclutamento di una nuova “leva” di dirigenti scolastici (come è noto il concorso “ordinario” per dirigenti è al momento sospeso) evoca una possibile riduzione dei posti di dirigente scolastico e l’ulteriore ridimensionamento delle unità scolastiche, che in questo modo diventerebbero delle gigantesche unità territoriali con logiche puramente amministrative e gestionali, dove un “super-manager” finirebbe con il perdere i contatti con la dimensione “fine” e “qualitativa” tipica di ogni Istituzione scolastica.

    Il dimensionamento, non solo nella scuola di base, ma anche nella compresenza di più indirizzi nelle scuole superiori, determinerà il senso della riforma. Un corretto dimensionamento è una delle condizioni dell'autonomia, ed è uno spazio di decisione affidato all’autogoverno delle comunità. È necessario che gli Enti locali procedano in questo campo con una forte capacità di ascolto e di dialogo con la scuola, non considerando la domanda che proviene dalla scuola sempre e comunque autoreferenziale e difensiva.

 

6. Gli indicatori di qualità

     La storia degli Istituti comprensivi è la storia di un successo (non) annunciato. Ma quali sono gli indicatori di questa inaspettata affidabilità? Ci sono indicatori di carattere professionale, cioè riferiti alla professionalità di chi opera nell'Istituto verticale; indicatori che si legano all'innovazione dei processi organizzativi e alle potenzialità dell'autonomia; un terzo grappolo di indicatori, che esprime la qualità degli esiti formativi dei ragazzi. Questo è per noi un punto debole, che ci trova disarmati di fronte alle indagini internazionali che preannunciano risultati “disastrosi” per i nostri ragazzi, senza che noi siamo in grado di reagire o di presentare altri dati.

    L'Istituto comprensivo non è la nuova scuola di base, ipotizzata dalla legge n. 30 del febbraio 2000. È piuttosto un modello federativo tra scuola dell'infanzia, elementare e media, tre istituzioni che mantengono la loro identità, ma che danno vita a un ambiente professionale, un contesto organizzativo, dove si determinano condizioni favorevoli per una professionalità di tipo “riflessivo”. Al suo interno operano un Collegio dei docenti unitario (seppure con diverse formule organizzative), gruppi di progettazione didattica, anche in verticale. C’è un unico dirigente scolastico; ci sono Organi collegiali in comune. Sono tutti stimoli che invitano a ripensare in profondità non solo le dinamiche organizzative, il Pof inteso come cornice o sommatoria di progetti, ma soprattutto il curricolo, il senso da attribuire all’incontro con i saperi, alla conoscenza, all'apprendimento nella prospettiva della formazione di base dai 3 ai 14 anni. L’ipotesi è che l’Istituto comprensivo consenta di organizzare un ambiente di apprendimento più adeguato alle caratteristiche via via mutevoli degli allievi.

    Le prime verifiche compiute nell’ambito del monitoraggio sull'autonomia attestano un incremento della capacità della scuola comprensiva di controllare meglio la propria progettazione formativa e di tener conto in misura maggiore del contesto territoriale, non solo nelle situazioni di emergenza. Nell’Istituto comprensivo c’è la possibilità di seguire e accompagnare la crescita e lo sviluppo dei ragazzi con uno “sguardo lungo”, dai 3 ai 14 anni, che invita a far pesare di più le loro caratteristiche nella progettazione. Non è solo questione di “continuità”, ma soprattutto di “coerenza”, cioè di continuità/discontinuità professionalmente regolata, attraverso pratiche di valutazione formativa e di autovalutazione.

    Spesso il tema della continuità è stato vissuto come disconoscimento delle identità. Anche le difficoltà emerse attorno all'idea di scuola di base (propugnata dalla Legge 30/2000) sono state dovute in buona parte alla percezione di una perdita di identità per la scuola media o per la scuola elementare.... o all’incerta costruzione di una nuova identità (non ben compresa o non condivisa). Invece, l’Istituto comprensivo può essere visto come un ambiente che non deprime le identità, ma che le accoglie, le valorizza, rendendole coerenti. Prendiamo, per esempio, la vocazione tipica della scuola elementare all'accompagnamento, alla relazione, all’incontro con i saperi, per fondare su basi sicure le prime competenze. Per questo serve un ambiente didattico disteso, plastico, molto vicino alla scuola dell'infanzia, senza fughe in avanti, senza precoci rigidità disciplinari. In un Istituto comprensivo questo problema può essere “letto” con più attenzione e, se per caso, la scuola elementare nei primi anni del corso avesse anticipato il rapporto con le discipline, con una eccessiva frammentazione di presenze, nella logica diacronica dell’Istituto, potremo distribuire e distendere con più gradualità l’incontro con le discipline, gli insegnanti, i quaderni e i libri.

    In una prima elementare possono ben operare due figure tipiche di docente: chi cura il quaderno a righe e chi quello a quadretti, cioè i due grandi ambiti della conoscenza, quello logico-linguistico-espressivo e quello logico-critico-esplorativo (come ci ricordano le migliori esperienze del tempo pieno e della scuola dell'infanzia). Progressivamente potrebbero poi apparire nuove figure, nuovi insegnamenti, nuove articolazioni organizzative (es.: i laboratori), secondo un modello anche rassicurante nei confronti dei genitori.

    In un Istituto verticale possiamo calibrare questo percorso, favorendo una progressiva organizzazione disciplinare delle conoscenze, magari anche con delle economie nella durata del ciclo scolastico di base (7 o 8 anni ?), senza però fermarci solo a questo problema.

 

7. La ricerca sul curricolo verticale

    L’errore della legge 30/2000 è stato quello di lanciare un’ipotesi sulla durata del ciclo di base (7 anni) senza essere capace di argomentarla in modo convincente. Bisognava partire da una riflessione sull'interpretazione delle discipline, sulla conoscenza, sull’apprendimento, sulla conseguente organizzazione dell’ambiente di apprendimento. Se riteniamo che le discipline non siano solo repertori di conoscenze statiche o di contenuti già raffinati, ma siano soprattutto ambienti in cui sviluppare attività, modi di pensare, linguaggi, allora dovremmo dislocare lungo tutto il percorso educativo, dalla scuola dell'infanzia alla scuola media, questa progressiva specificazione di compiti formativi.

     Le discipline si incontrano anche a 3 anni, in una buona scuola dell’infanzia, però la distanza tra il bambino, il soggetto, il suo universo, la sua dimensione senso-percettiva, le sue azioni concrete, e l'organizzazione adulta dei saperi, via via cambia, con un progressivo avvicinamento grazie alla mediazione degli insegnanti, che consiste tutta nel far incontrare un bambino/a (un ragazzo/a, un adolescente) con i saperi organizzati, senza perderne il valore formativo.

    In questa ottica le discipline diventano contesti operativi e simbolici (campi di esperienza) ricchi di lievito formativo. La progettazione diacronica, per esempio dai 3 anni ai 14 anni, o addirittura ai 18 anni, si lega alle caratteristiche cognitive dei ragazzi, ai loro cambiamenti, al significato che le discipline potrebbero assumere, appunto, come “disciplinamento” dell'intelligenza. Invece, tra gli insegnanti della scuola dell’infanzia ed elementare prevale quasi il timore per le discipline, viste esclusivamente come vincolo e non come risorsa della mente.

    In un Istituto comprensivo ci sono le condizioni per costruire una diversa qualità degli apprendimenti, che significa maggiore "coesione interna delle conoscenze", organizzazione di quadri concettuali, connessione trasversale tra le discipline. In “verticale” si può meglio osservare la progressiva specializzazione delle abilità procedurali dei metodi, del saper fare, dei linguaggi, delle stesse abilità strumentali[6].

    Si può stimolare la crescita di una motivazione più selettiva e orientata dei ragazzi, un’attitudine alla produzione e non solo alla assimilazione. In un curricolo verticale è indispensabile chiarire il rapporto tra conoscenze già possedute e nuove conoscenze. È importante costruire ambienti di apprendimento motivanti, con un forte legame con la storia cognitiva di ogni alunno/a. Sono tutti valori a portata di mano in un Istituto verticale, proprio perché ambiente ad alto tasso di comunicazione, che implica un intenso dialogo interprofessionale. L'Istituto amplia le occasioni di scambio e di progettazione in comune: il laboratorio, le classi aperte, i prestiti professionali, i gruppi misti, i rapporti con il territorio. Si determina una forte mobilità intellettuale, che aiuta a superare modelli didattici rigidi e vecchie gerarchie culturali, per esempio tra insegnanti dei diversi livelli scolastici.

    Nell’Istituto verticale mettiamo al centro del progetto le discipline, nel loro valore formativo, capace di sviluppare intelligenza e conoscenza. Le “discipline” in quanto pongono dei confini, offrono un’intelaiatura alla conoscenza, danno forza all’apprendimento

 

8. Ripensando alla riforma dei cicli: le occasioni mancate

    Alla luce di questa breve cronistoria della scuola verticale, recente ma già referenziata, quale potrà essere il futuro di questa istituzione ? Come mai, se è tutto così convincente, non ha “vinto” l’idea di scuola di base? Perchè non si è mosso il “popolo dei fax” nell'estate 2001, quando fu deciso di sospendere la Legge 30/2000? In fin dei conti, come va interpretata la relazione “inversa” tra successo del comprensivo e insuccesso della scuola di base ?

    L'Istituto comprensivo è un oggetto pedagogicamente assai interessante. Lo stesso prof. Bertagna[7] lo ha ammesso nei suoi documenti, a conclusione del lavoro dei sei Saggi messi all'opera dal ministro Moratti. In modo esplicito gli esperti del Gruppo ristretto di lavoro hanno proposto la "generalizzazione dell'Istituto comprensivo", l’idea di un "curricolo unitario", forme incisive di integrazione tra scuola elementare e media, attraverso un biennio di raccordo tra V° elementare e I° media[8]. Contemporaneamente il “comprensivo” è un oggetto rischioso, perché rilancia dei messaggi in favore della formazione di base, anche sulla scia di alcuni modelli europei di scuola, ben conosciuti da N. Bottani, autorevole membro del citato Gruppo di lavoro[9].

    Viene piuttosto da chiedersi come mai il Consiglio dei ministri, nel licenziare il testo definitivo del disegno di legge nel gennaio 2002, abbia azzerato quest'ipotesi che pure inizialmente era stata sostenuta dagli esperti e dallo stesso ministro. Nei conciliaboli di maggioranza è stato annullato ogni minimo richiamo al raccordo tra scuola elementare e scuola media, cioè la ragion d’essere degli Istituti comprensivi. Su questo tema ritornano i 400 Istituti comprensivi[10] che nella loro “lettera aperta” al Parlamento chiedono conto di questa dimenticanza clamorosa e le motivazioni di una simile “virata” concettuale.

    Non si vuole qui fare una difesa d’ufficio dei precedenti modelli di riforma. Nel 1996 e 1997 il rapporto tra Istituti comprensivi e riordino dei cicli non era visibile e chiaro. Se mettiamo a confronto il ciclo primario, sessennale, previsto nella prima versione del riordino, il punto di snodo con il ciclo secondario era posto a 12 anni. In quella fascia di età si ipotizzava un cambiamento radicale nel modo di affrontare la conoscenza e l'esperienza scolastica. Certo, era un'ipotesi molto affascinante, ma poco capita, forse perché debolmente spiegata, anche se era il modello più diffuso negli Stati Uniti, nel Giappone, in Gran Bretagna, cioè nei grandi Paesi sviluppati.

    È stato difficile consolidare le motivazioni pedagogiche di questa ipotesi, ma ancora di più prefigurare la ricollocazione degli insegnanti tra i diversi cicli, per i quali si immaginava una mobilità “dirompente” con un esubero di circa 50.000 docenti. Certamente le riforme non si fanno partendo da questo punto di osservazione, ma sono elementi determinanti per garantire il successo di una riforma, mentre le relazioni tecniche, allegate ai diversi disegni di legge (da Berlinguer a Moratti)  sono state invariabilmente ispirate a logiche di risparmio.

    La soluzione del 6+6 (sei anni di ciclo primario seguito da sei anni di ciclo secondario) spostava il baricentro dell'innovazione verso il secondo ciclo. Il punto di forza del progetto era quello di offrire più tempo al ciclo secondario, distendendolo sui 6 anni, proprio per evitare che continuasse a respingere un terzo dei ragazzi. La sfida era avvicinare tutti gli italiani alla scuola superiore, come 40 anni prima si era posta la sfida di portare tutti gli italiani alla scuola media.

    Il modello spostava il focus dell'innovazione sull’espansione dell'obbligo, facendolo gravitare decisamente sul secondo ciclo. Il nuovo obbligo fino a 15 anni andava a caratterizzare un primo triennio della scuola secondaria, orientante e fondativo di un livello alto di cultura[11]. L’unico esperto che colse questo aspetto, cioè a dire che dopo 40 anni si andava a fondare una nuova scuola media per la cittadinanza del 2000, fu Aldo Visalberghi, in un editoriale di “la Repubblica”.

    Chi operava nella scuola di base ha capito poco questa idea. Inoltre, non ci si fidava del possibile cambiamento della nuova scuola secondaria. Il ciclo primario di 6 anni stava molto stretto alla scuola elementare e media; lo stesso “comprensivo” si sentiva compresso da un percorso di base che si sarebbe concluso a 12 anni, lasciando aperta la questione della scuola frequentata dai tredicenni e quattordicenni. Ma non ci fu il tempo di mettere alla prova la scuola superiore nel ruolo di estendere le opportunità culturali per tutti i cittadini.

    Morì presto la Scuola dell'orientamento, dai 12 ai 15 anni; dopo il primo Documento Berlinguer (gennaio 1997), nel disegno di legge successivo (giugno 1997) era già scomparsa e si parlava invece di un sessennio “lungo” all’interno delle superiori, con indirizzi già ben definiti a partire dai 12 anni (ciò che ci valse le “bacchettate” degli esperti dell’Ocse).

    Ma nonostante questa ipotesi fu comunque difficile convincere i colleghi delle superiori. Vinsero Lucio Russo e Giulio Ferroni, che nei loro pamphlet[12] sostennero che i nuovi cicli avrebbero impoverito la base culturale della scuola superiore italiana.

 

9. Nasce la scuola di base

    Se sommiamo il “malpancismo" della Sscuola di base ed il “benaltrismo” della scuola superiore, ci rendiamo conto delle difficoltà del dibattito parlamentare, da cui scaturì un inevitabile “cerchiobottismo”, che tollerava l’Istituto comprensivo. Esso era troppo lungo con i suoi 8 anni (a fronte di un ciclo primario di 6 anni); sembrava dilapidare risorse di tempo preziose, senza ingaggiare la sfida verso la formazione secondaria superiore. Si disse di un modello (la scuola di base) troppo scandinavo; buono per la Danimarca, ma non per l’Italia, non in grado di scuotere la scuola media dal suo “torpore”.

    Ecco perchè in quegli anni non ci fu una scelta decisiva a favore dell'Istituto comprensivo. Se si torna al 1998, alle norme sul dimensionamento (Dpr 233/1998) non si registra una preferenza o una priorità alla riorganizzazione “in verticale". Si lasciarono le singole comunità locali libere di decidere tra soluzioni orizzontali e verticali[13].

    L'evoluzione del dibattito parlamentare verso la scuola di base settennale era certamente un atto di realismo. Il settennio era senz’altro più vicino all'Istituto comprensivo. Mentre il ciclo primario cambiava l'identità della formazione di base, riconducendola alla matrice della scuola primaria inglese (la Primary School) con una durata più breve, la scuola di base settennale consentiva una rilettura dell'Istituto comprensivo, mettendo a confronto le due culture, “primaria” e “secondaria”, facendo incontrare “continuità” e “discontinuità” in un periodo sufficientemente lungo di 7 anni (ma anche di 8, trattabili…).

    Il Parlamento propose dunque qualcosa di non radicalmente diverso dall’esistente, come sarebbe stato il ciclo primario e il ciclo secondario (1997), ma la scuola di base, una struttura più “amica” della scuola elementare e della scuola media (2000).

    C’era da aspettarsi il “popolo dei fax” a difesa della legge 30, sospesa nell’estate del 2001. Invece non è scattata l’associazione tra scuola di base settennale e Istituto comprensivo, come ambiente in grado di integrare le “virtù” della scuola elementare e della scuola media, senza però confonderle. Serviva più tempo, anche per il piano di attuazione. Le innovazioni richiedono tempo, la scuola vuole stare “dentro” i processi, ha bisogno di capirli; servono almeno 3-4 anni per implementare le riforme (meglio se attraverso una sperimentazione progressivamente generalizzata). L'onda anomala, piuttosto che spaventare o vellicare la competizione dei genitori, poteva essere affidata agli Istituti comprensivi offrendo alcuni anni di tempo per ricostruire il curricolo di base settennale. Operando su classi intere e non su singoli allievi.

    Si doveva raccogliere di più dall’esperienza degli Istituti comprensivi, anche per quanto riguarda l’articolazione interna del settennio; si doveva lanciare, anche a livello simbolico, un forte piano di sviluppo professionale legato alla scuola di base, da interpretare non come impoverimento di identità e di professionalità, ma come arricchimento nell’ottica di una  funzione unica docente di alto profilo.

 

10. Le prospettive future del “comprensivo”

    Per concludere, qual è oggi la possibile ricollocazione dell'Istituto comprensivo nei nuovi scenari?

    Intanto occorre ricordare la realtà estesa di questo modello organizzativo, che comprende oltre il 40% delle nostre scuole. È una riforma che è già avvenuta nel 40% delle situazioni, a prescindere dalle leggi di ordinamento, quasi a ricordarci che i processi innovativi sono messi in movimento dal basso piuttosto che dall’alto.

    L’Istituto verticale configura un approccio più realistico alla scuola di base, perchè tiene conto delle identità (di scuola elementare e media) a cui siamo affezionati. Il curricolo si articola progressivamente anche attraverso momenti di incontro tra le diverse scuole. La scansione per bienni può essere una scelta interessante, già sperimentata con soddisfazione a Scuola e Città “Pestalozzi” di Firenze, può diventare una delle ipotesi su cui far lavorare gli Istituti comprensivi, recuperando anche i materiali prodotti dalle commissioni di esperti sul curricolo di base (De Mauro)[14]. Le Commissioni che hanno operato nel biennio 2000 e 2001 hanno prodotto numerosi materiali che oggi possono essere ripresi in un’ottica di continuità e di nuove esplorazioni, proprio a partire dalle scuole e dal rapporto con gli esperti delle associazioni disciplinari. 

    Si tratta di uno spazio di ricerca molto importante, in cui la scuola di tutti i giorni, la scuola reale che sta già cambiando, può ritrovare le ragioni del proprio futuro, anche con un occhio di riguardo alle nuove ipotesi elaborate dalla Commissione Bertagna. Per esempio, se si opta per una scuola di base lunga, di 8 anni, non possiamo essere troppo scandinavi, cioè abbiamo bisogno di prefigurare alcune scansioni interne, degli elementi di differenziazione che a un certo punto del percorso potrebbero essere più marcati di quelli odierni. Per esempio, l'ultimo biennio del ciclo di base potrebbe presentare già una sua specifica articolazione.

    La casa è comune, però si può agire sulla personalizzazione dell'offerta formativa; si può cominciare a intravedere un legame tra questo biennio e il percorso successivo, come si immaginava nella primissima ipotesi del progetto di riordino 6+6, dove a 13-14 anni si costruiva un “ponte” di legame con quello che avveniva dopo.

    Ma oggi non è più tempo di ingegnerie. L'approccio alle riforme non si può giocare sugli schemi istituzionali, sul 6+6, sul 7+5, sull'8+4 ecc. Dobbiamo piuttosto favorire il dinamismo culturale che c'è dietro ogni ordinamento, anche quello vigente, rappresentato dalla realtà degli Istituti verticali. Per far “rivivere” il concetto di formazione di base, occorre una moratoria nelle soluzioni ordinamentali. Lasciamo che siano le scuole a sperimentare idee e modelli di formazione di base.

    Occorre uno spazio garantito (con risorse) in cui, con molta libertà, ci si possa fare delle domande: che cosa è la formazione di base, di quanto tempo ha bisogno, quali sono i migliori modelli curricolari e organizzativi di questo percorso ?

    Questo è il compito degli Istituti comprensivi: fare ri-appassionare la gente al concetto di formazione di base, che sembra accantonata nel Ddl n. 1306 del 3-4-2002. L’Istituto comprensivo mette concretamente alla prova l’idea di formazione di base. È lì la sua attualità, il suo essere scuola “europea” e quindi titolata a costruire gli indirizzi della scuola del futuro. Questo è il lascito, con le sue luci e le sue ombre, che l'esperienza dei “comprensivi” ci offre dopo questi primi sette anni vissuti pericolosamente, ma onestamente e con “passione”.

 

Riferimenti bibliografici

-        C. Pontecorvo, Un curricolo per la continuità educativa dai quattro agli otto anni, La Nuova Italia, Firenze 1995.

-        M. e P. Calidoni, Continuità educativa, La Scuola, Brescia 1995.

-        F. Cambi (a cura di), L’arcipelago dei saperi. Progettazione curricolare e percorsi didattici nella scuola dell’autonomia, Le Monnier-Irrsae Toscana, Firenze 2000.

-        Ministero P.I., Gli istituti comprensivi, Studi e documenti degli Annali della P.I., n. 83, Le Monnier, Firenze 1997.

-        P. Boscolo, L’apprendimento oggi: modelli, metafore, significati, in “Scuola e città”, n. 2, 1999.

-        G. Cerini, M. Spinosi, La scuola in verticale, Tecnodid, Napoli 2000.

-        R. Facchini (a cura di), Istituti comprensivi in Emilia-Romagna. Lavori in corso…, Uff.Scol.Reg. ER, Bologna, 2002.

 

Riferimenti normativi

-          Legge 31/1/1994, n. 97 (Disposizioni per le zone di montagna).

-          D.lvo 16/4/1994, n. 297 (Testo unico delle leggi sulla scuola).

-          Om 9/11/1994, n. 315 (Disposizioni per la razionalizzazione della rete scolastica).

-          Om 4/8/1995, n. 267 (Organizzazione degli Istituti comprensivi).

-          Cm 10/8/1995, n. 282 (Formazione dei dirigenti scolastici).

-          Legge 23/12/1996, n. 662 (Legge finanziaria: generalizzazione degli Istituti comprensivi).

-          Cm 28/7/1997, n. 454 (Linee di azione e di orientamento per il funzionamento).

-          Dpr 18/6/1998, n. 233 (Criteri per il dimensionamento degli Istituti scolastici).

-          Cm 7/8/1998, n. 352 (Documento di orientamento per il funzionamento).

-          Cm 30/9/1999, n. 227 (Progetto di ricerca-azione).

-          Cm 19/12/2000, n. 282 (Formazione in servizio e costituzione di reti di documentazione).

 


[1] Relazione tenuta a Pisa nell’ambito del Convegno “Gli Istituti comprensivi: bilancio e prospettive”, (20-5-2002).

[2] Nel corso del 2002 si è attivato un “movimento” dal basso che ha aggregato alcune centinaia di Istituti comprensivi (e i loro dirigenti) attorno a un documento di lavoro, intitolato “Noi, degli Istituti comprensivi raccomandiamo che…” che contiene osservazioni in merito alle prospettive di riforma. Materiali, documenti, interventi sono poi confluiti in siti di discussione: www.edscuola.it/mlcomprensivi.html; www.didaweb.net  (forum: “Comprensivi che passione”).

[3] Ci riferiamo in primo luogo al progetto “L’Istituto comprensivo sperimentale: laboratorio per l’innovazione” che ha coinvolto 23 Istituti pilota. Gli esiti sono disponibili in un dossier a stampa (Mpi, Roma 1999) e in un cd-rom (cfr. Cm. 21/7/2000, n. 186).

[4] Il progetto,  istituito con Decreto Dir.Gen. I° grado del 9/11/1999, ha visto operare quattro poli di ricerca sui curricoli disciplinari, in raccordo con reti di Istituti comprensivi operanti in Toscana (lingua italiana), Emilia-Romagna (storia), Campania (scienze), Piemonte (matematica).

[5] A seguito della Cm. 19-12-2000, n. 282, sono stati avviate esperienze di documentazione in rete, anche mediante la costituzione di appositi siti regionali curati da scuole-polo. Tra i più attivi segnaliamo:

www.comprensivitoscana.it  curato dall’Istituto comprensivo di San Donnino Campi Bisenzio-Fi (che contiene aree di informazione, documentazione, discussione e una selezione dei progetti regionali della Toscana);

www.scuoleverticali.it  curato dall’Istituto comprensivo di Monterenzio-Bo, con aree informative e di documentazione relative all’Emilia-Romagna.

[6] P.Boscolo, L’apprendimento oggi: modelli, metafore, significati, in “Scuola e città”, n. 2, 1999.

[7] I materiali elaborati dal Gruppo ristretto di lavoro in previsione degli Stati Generali della scuola (dicembre 2001) sono stati pubblicati sugli Annali dell’Istruzione, nn. 1-2 e 3-4 del 2001, editi da Le Monnier. Una sintesi del documento finale è contenuta nel fascicolo curato da G.Cerini-M.Spinosi, Riforma della scuola. La nuova proposta, Tecnodid, Notes 3, Napoli 2002.

[8] Dalla relazione di sintesi della Commissione Bertagna: «Proponiamo di conservare l’articolazione vigente dell’obbligo scolastico in una scuola primaria, che resta ordinamentalmente quinquennale, e in una scuola secondaria di primo grado, che rimane triennale. Raccomandiamo fortemente di collegare in un percorso, continuo e progressivo, la scuola elementare e la scuola media. L’articolazione didattica e programmatica tra questi due ordini di scuola si consegue con l’organizzazione di un biennio di transizione che comprende l’ultimo anno della scuola elementare e il primo della scuola media, biennio che deve permettere di saldare tra loro la quinta elementare e la prima media. In questa prospettiva, raccomandiamo lo sviluppo ulteriore del modello degli Istituti comprensivi. Proponiamo un’organizzazione della didattica e dei programmi d’insegnamento in cicli biennali, sia per favorire una maggiore flessibilità, con effettive possibilità di riarticolazioni interne, sia per favorire il rispetto dei ritmi d’apprendimento e il ricupero delle insufficienze. Il terzo ciclo biennale comprende la quinta elementare e la prima media e deve essere concepito come un tutto integrato, gestito in comune dai docenti delle due classi». Fonte: Annali dell’Istruzione, nn. 3-4, Le Monnier, Firenze 2002.

[9] N. Bottani, Insegnanti al timone, Il Mulino, Bologna 2002.

[10] Il documento sottoscritto da oltre 400 Istituti comprensivi è stato rilanciato da molte riviste scolastiche. Citiamo “Tuttoscuola”, “Insegnare”, “La vita scolastica”. Il testo è reperibile in rete sul sito www.edscuola.it , nella rubrica curata da G. Cerini “Riforme on line”, con il titolo di “Verticale, che passione !”. 

[11] Una ricostruzione del dibattito sulla riforma della scuola proposta da L. Berlinguer, e dei rapporti con l’attuale proposta Moratti è compiuta da P. Ferratini, La riforma Berlinguer-Moratti, in “Il Mulino”, n. 2, marzo-aprile 2002.

[12] L.Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, Milano 1998.
 G.Ferroni, La scuola sospesa, Einaudi, Torino 1998.

[13] Il quadro normativo che ha regolato lo sviluppo degli Istituti comprensivi è riportato in appendice, unitamente ai riferimenti bibliografici.

[14] I curricoli per la scuola di base sono presentati e commentati a più voci nel volume curato da G.Cerini-F.Frabboni, Il curricolo di base, Tecnodid, Napoli 2001.


La pagina
- Educazione&Scuola©