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Il valore dell’errore nel processo di apprendimento

di Giuseppe Zollo

“E’ sorprendente vedere come gli studenti possano perdere una parte della loro paura di sbagliare, profondamente radicata in loro, quando si trovano con un insegnante che non chiede loro di essere nel giusto, ma soltanto di unirsi a lui nella ricerca dell’errore: del suo come del proprio” (Postman, 1981)

L’errore come radice antropologica dell’apprendimento

E’ stato acutamente osservato che il piccolo dell’uomo, per effetto della sua riduzione degli istinti e per la sua manchevolezza biologica, è costretto, a differenza di tutti gli altri animali, ad apprendere, fin dalla più tenera età, tutti quei gesti che gli saranno utili per assicurarsi l’esistenza, per prepararsi a conquistare un posto nel mondo.

Ma questo handicap, a ben riflettere, finisce per tramutarsi, per il piccolo dell’uomo, in un vero e proprio vantaggio, in quanto ogni atto o comportamento appreso non resta fine a se stesso: gli serve per apprendere altre cose e lo mette in condizione di acquisire l’abitudine ad apprendere; gli fa imparare ad apprendere (Dewey, 1916).

Presentato semplicisticamente, come necessità della condizione umana, in relazione alla mancanza di capacità regolative naturali ed innate, l’apprendimento sembra assumere da una parte le caratteristiche di un atto di compensazione e dall’altra quelle di un vero e proprio handicap rispetto agli altri esseri animali viventi; handicap che, a prima vista, ben si attaglia alla fittizia connotazione di uomo come essere essenzialmente imperfetto (Rombach, 1969).

La prima sarebbe una operazione estremamente riduttiva, poiché l’uomo, nemmeno nella sua comprensione esclusivamente biologica, può essere determinato soltanto dalla mancanza di capacità regolatrici naturali ed innate. Egli, infatti, nella scala degli esseri viventi è l’unico che riesce a “sentire l’insufficienza del suo equipaggiamento biologico, non solo, ma anche a riconoscerla, per avvertire la necessità di una compensazione” ( Ibidem, p. 49).

Questo sentire la carenza di un equipaggiamento biologico insufficiente, poterla riconoscere per compensarla, consente all’uomo, e per effetto dell’apprendimento, di non scomparire come specie, come è avvenuto per tanti animali vissuti prima di lui e di provvedere alla propria autoconservazione e al proprio autosviluppo come individuo, come non avviene, a volte, per gli altri animali, singolarmente considerati. L’essere umano, pertanto, e proprio in virtù dell’apprendimento, è in grado di assumere un qualche comportamento di fronte alle evenienze della vita; prende una posizione nei loro riguardi e quasi sempre riesce a fronteggiarle.

Gli altri animali, al contrario, proprio perché non filtrano i loro gesti o comportamenti attraverso un apprendimento consapevole, non avendo capacità di sentire le proprie insufficienze e riconoscerle per compensarle, finiscono, a volte, per lasciarsi distruggere da esse. L’uomo, quindi, in virtù dell’apprendimento, che fa parte della condizione umana, riesce a riscattarsi dall’essere considerato essenzialmente imperfetto (se lo fosse, la specie si estinguerebbe rapidissimamente); sopravvive come individuo e non si estingue come specie.

Nella ricerca delle radici antropologiche dell’apprendimento, connaturato, come si è sottolineato poco sopra, all’essere umano come tale, non si può tralasciare di considerare, accanto agli apprendimenti pragmatici dell’esistenza dell’uomo, quell’insieme di “atti di apprendimento trascendentali, che si identificano con la sua umanità, anzi che gli schiudono la sua via all’umanità, in qualunque modo possa poi decidere e comportarsi in questa sua condizione” ( Ibidem, pp. 50-51).

Se i primi servono ad attrezzare l’essere umano di fronte ai bisogni indotti dalle condizioni esistenziali date alla nascita, e fornirgli le competenze e la capacità per sopravvivere dal punto di vista pratico, i secondi ( gli atti di apprendimento trascendentali ) servono per aiutarlo a realizzare un disegno esistenziale superiore, ma contemporaneo e complementare al primo, e cioè quello del mondo della coscienza. Gli atti di apprendimento trascendentali sono quelli che permettono all’uomo di “trascendere la totalità degli avvenimenti portandosi sopra un piano religioso, mitico, metafisico o etico e assumendosi consapevolmente un impegno di natura universale, per lo meno quello della verità e dell’onestà” ( Ibidem, p. 50).

Rivolto a soddisfare il duplice bisogno fondamentale dell’esistenza, che si sostanzia di necessità biologiche e di slanci trascendentali, l’apprendimento non può essere considerato soltanto un atto di compensazione, ma diventa per l’uomo un mezzo per interpretare la sua esistenza e la sua coscienza: “è un elemento esistenziale, vale a dire una di quelle costituenti fondamentali per la comprensione di sè nell’esistenza umana” ( Ibidem, p. 51).

Né l’apprendimento può essere considerato soltanto un handicap per l’essere umano.

Questi, infatti, pur svantaggiato rispetto agli altri animali, poiché deve apprendere tutti i suoi gesti e comportamenti fin dalla nascita (e lo farà con fatica, a volte con sofferenza), da questo handicap ricava anche un qualche vantaggio.

In primo luogo, l’apprendimento lo mette in condizione di appropriarsi di tutte quelle condotte che gli consentono di soddisfare i bisogni; di utilizzare il saper fare appreso, in situazioni diverse; di tentare, sulla base degli apprendimenti precedenti, di dare soluzione a problemi diversi; di esercitare tutti i suoi poteri creatori e ricreatori che lo mettono in condizione di saper fare e di saper essere; di impegnare, infine, in ogni saper fare e in ogni saper essere tutta intera la sua persona. Il saper fare, in tal modo, da padronanza di una tecnica si traduce in padronanza di se stesso (Reboul, 1980).

Ma, come avviene per tutte le espressioni e le costituenti fondamentali dell’esistenza umana, anche il processo di apprendimento, sia quello del saper fare che quello del saper essere, è accompagnato da tentativi ed errori, da sbagli e colpi che raggiungono il segno, da insuccessi e riuscite. L’errore, quindi, connaturato all’esistenza umana, tanto che può essere considerato un suo tratto caratteristico, fa parte delle radici antropologiche dell’apprendimento; esso è funzionale all’esistenza umana, in quanto rappresenta i momenti necessari, e quindi utili, di un lungo cammino, di quel processo attraverso il quale ci si avvicina sempre più alla verità.

L’errore e il vero, in definitiva, fanno tutt’uno con l’essere umano, anzi gli appartengono e costituiscono entrambi fatti logici positivi, nel senso che rappresentano le esperienze e i fatti attraverso i quali egli forma la sua personalità e dai quali trae forza ed energia per cogliere le soluzioni dei suoi problemi e procedere, così, nella ricerca della verità.

 

 

La metafora di Einstein e l’ameba: l’uomo e l’animale di fronte all’errore

 

Fra i vari tipi di apprendimento, quello per prove ed errori ( trials and errors ) è comune all’animale e all’uomo.

Questa particolare forma di apprendimento consiste nel procedere, sul piano della conoscenza, come su quello del comportamento, ciecamente e a tentoni. Il soggetto si affida esclusivamente a prove, che comportano, ovviamente, di incorrere in errori ed ignora qualunque imitazione e ogni pratica metodica.

Il soggetto che procede per tentativi, apprende passando da una prova all’altra, durante le quali elimina progressivamente gli errori e conferma i tentativi utili che, molto lenti all’inizio, si verificheranno in seguito con sempre maggiore facilità e sicurezza. Esempi classici dell’apprendimento per prove ed errori sono quelli del labirinto e di Skinner .

Secondo K. Popper, il metodo per prove ed errori, che abitualmente viene “adottato dagli organismi viventi nel processo di adattamento” e dallo scienziato che, di fronte a un determinato problema, “propone, a titolo di prova, un qualche tipo di soluzione-teoria”, è essenzialmente un metodo di eliminazione.

Eliminazione di che cosa?

Degli errori di adattamento da parte degli organismi viventi, i quali in tal modo scelgono e fissano le condotte utili, dopo aver scartato quelle parassite, assicurandosi così la sopravvivenza e lo sviluppo; eliminazione delle teorie erronee da parte degli scienziati i quali, sottoponendole a severi controlli, a prove prolungate, quando si accorgono che non reggono all’indagine, le scartano perché non più utili a spiegare un fenomeno o a risolvere un problema.

L’eliminazione di una teoria erronea può, con un po’ di fortuna, aprire la strada ad una teoria più adatta a spiegare quel problema o quel fenomeno; e non lo farà mai definitivamente, ma fino a quando non si porranno in evidenza anche i suoi caratteri vulnerabili (Popper, 1969).

Questo procedimento è peculiare del metodo scientifico; anzi, come vedremo in seguito, è il motore del progresso scientifico, anche se non può assicurare nessuna certezza scientifica. Scrive a tal proposito Popper: “Per noi, dunque, la scienza non ha niente a che fare con la ricerca della certezza, della probabilità o dell’attendibilità. Non siamo interessati allo stabilimento di teorie scientifiche in quanto sicure, certe o probabili. Consapevoli della nostra fallibilità, siamo soltanto interessati a criticarle e a controllarle con la speranza di scoprire dove sbagliano, di apprendere dagli errori e, se abbiamo fortuna, di pervenire a teorie migliori” ( Ibidem, 392-393).

Ad ogni buon conto, continua Popper, tutti gli organismi viventi utilizzano il metodo del tentativo e dell’errore, quando adattano il loro comportamento al cambiamento della situazione; ma precisa, subito dopo, che l’essere umano e l’animale hanno un diverso atteggiamento nei riguardi delle soluzioni sbagliate: l’uomo impara dai propri errori, l’animale ne rimane vittima.

Einstein e l’ameba - scrive Popper - procedono alla stessa maniera e cioè per prove ed errori, ma sono guidati nelle loro azioni da una diversa logica: Einstein cerca i propri errori, impara dalla loro scoperta ed eliminazione e grazie ad essi si assicura la sopravvivenza, l’ameba muore con le sue soluzioni sbagliate (Popper, 1972).

L’uomo, quindi, pur utilizzando lo stesso tipo di apprendimento degli animali, procede sul piano della conoscenza (di quella scientifica in particolare) sorretto da un atteggiamento critico che gli permette di ravvisare le false soluzioni, di cogliere ed eliminare gli errori all’interno delle sue congetture, di sostituirle con altre, nuove e migliori di quelle confutate.

Einstein fa morire le soluzioni sbagliate invece di morire lui stesso; l’ameba si affeziona tanto alla soluzione prescelta che, continuando ad adottarla, muore insieme ad essa.

 

 

 

 

 

Apprendimento per problemi e potere educativo dell’errore

 

Le riflessioni degli epistemologi richiamati, oltre ad indicare il ruolo che l’errore svolge nel processo di accrescimento della scienza, non mancano di sottolineare, esplicitamente o implicitamente, l’importanza che esso riveste nel processo educativo, ritenendolo anche in questo caso: normale, positivo, utile : normale perché fa parte della esperienza e dell’attività dell’essere umano; positivo perché con la sua correzione permette di far giungere il soggetto a conoscenze più prossime alla verità; utile perché lo mette in condizione di imparare dagli errori.

Tale pedagogia e prassi educativa, che traggono fondamento dalla negazione di ogni rigida metodica e sono improntate al dinamismo creativo, alla cooperazione fattiva, alla ricerca perenne, sono basate sull’esperienza per tentativi: esperienza, cioè, rivolta alla ricerca di soluzioni soddisfacenti dei problemi che la viva realtà pone continuamente (cfr. Freinet, 1963).

Questa ricerca comporta, per sua natura, di incorrere continuamente in errori, che volta a volta vengono eliminati, spianando così la strada verso la conoscenza, alla cui base, pertanto, c’è una forte motivazione e alla cui scoperta concorre certamente una buona dose di immaginazione e di creatività, disciplinate poi da un lucido rigore logico.

In uno dei suoi libri, o meglio racconti di fatti , come egli polemicamente tiene a precisare: I detti di Matteo , evidenzia la forza dell’errore, dell’esperienza per tentativi.

Il Freinet racconta che un giorno gli alunni si trovarono di fronte al problema di darsi conto perché le mosche camminano sul soffitto senza cadere. Si incomincia a fare delle ipotesi: forse hanno dei ganci alle zampe; poi delle esperienze utilizzando materiali e strumenti adeguati: microscopio e schedario; l’insegnante li aiuta a trovare un metodo di ricerca e fornisce loro, se necessario, tutta la documentazione pertinente. In buona sostanza la scuola viene trasformata in laboratorio, in un centro vero e proprio di ricerca della soluzione di un problema avvertito come tale e per il quale si fanno tentativi per fornire la risposta (Freinet, 1962).

Su questa linea viene a porsi l’istanza pedagogica di Bruner, il quale nel rivalutare le capacità intuitive dell’individuo, quelle cioè che permettono di congetturare, formulare ipotesi anche azzardate e temerarie per risolvere un problema, percependolo nella sua totalità, mette in guardia “chi pensa in modo intuitivo... che può spesso raggiungere soluzioni errate, ma può anche accorgersi di avere sbagliato, da solo o grazie all’intervento altrui. Questo procedimento di pensiero quindi comporta la possibilità consapevole di commettere degli errori, in tutta onestà, nell’intento di risolvere problemi” (Bruner, 1966, p.105).

La Montessori, infine, dedicando largo spazio e interesse al problema dei premi e dei castighi, delle lodi e delle punizioni, di conseguenza porta la sua attenzione nei riguardi dell’errore che chiama: Signor Errore (Montessori, 1970).

La pedagogista italiana sostiene che una scuola che vuole rendere possibile e difendere la spontaneità del bambino non può ricorrere ai premi o ai castighi, in quanto escluderebbe a priori la capacità da parte del bambino di guidarsi, anzi autoguidarsi, dovendosi egli continuamente rimettere alla direzione dell’insegnante. Ma la Montessori è ben consapevole che una educazione che si prospetta come autoeducazione, comporta maggiori possibilità di incorrere in errori.

Tanto meglio, ella aggiunge, perché l’autoapprendimento e l’autogoverno si realizzano anche con il controllo individuale dell’errore. E’ lo stesso bambino che utilizza il materiale strutturato ad accorgersi di aver commesso un errore, come ad es. quello di non aver incastrato tutti i cilindri nei fori corrispondenti e di correggerlo sia con più attenti controlli sensoriali, sia mettendo in funzione il proprio pensiero critico e cioè con la scelta di un criterio diverso per risolvere quello stesso problema.

Ma l’incontro (come pratica e scoperta) e il superamento dell’errore, il controllo dell’errore, come dice la Montessori, individuale o collettivo che sia, può essere produttivo di nascita e sviluppo di sentimenti che attengono alla sfera morale e sociale dell’essere umano.

Il bambino che ha dimestichezza con l’errore, sia nel commetterlo che nel correggerlo, e osserva il suo simile che viene a trovarsi nelle sue stesse condizioni, si sente a lui affratellato e legato per qualcosa che fa parte della loro natura e della loro formazione.

Su di un piano diverso, che non interessa soltanto i rapporti fra bambini né quelli tra bambini e adulti, ma degli esseri umani in quanto tali, che poi in ultima analisi si traduce sempre in atto e fatto pedagogico, questo problema dell’errore ben lo aveva capito il Papa dell’Enciclica Pacem in Terris , distinguendo fra errore ed errante.

Egli, infatti, dopo aver specificato che al fine della costruzione della pace, bisogna avviare tutto un insieme di stati d’animo e di azioni per il controllo degli errori e non insistere sterilmente nella condanna dell’errante, aggiungeva che se gli errori dividono gli uomini, il loro controllo li affratella e li unisce.

Gli errori pertanto, che in campo pedagogico e didattico sono strumenti di formazione e di crescita, perché momenti costitutivi dell’apprendimento, si rivelano, sul piano morale e sociale, col loro superamento, fautori di coesione, collaborazione e coesistenza pacifica fra i popoli.


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