APPASSIONARE LA CLASSE

Umberto Tenuta

 

<<Sono convinto di una cosa: se e quando c’è un docente capace di accendere un interesse, di appassionare la classe, tutto funziona, si risolve, non insorgono conflitti>> (1).

Piace sentire questa affermazione da un Ministro della Pubblica istruzione, non tanto in ragione della sua carica, quanto della sua qualifica di studioso e soprattutto di docente.

Su DIDATTICA@EDSCUOLA.COM stiamo portando avanti questo discorso (2).

Siamo convinti che lo studio non debba essere vissuto dagli alunni come una condanna, come una pena, come un obbligo, ma come una gioia, come la soddisfazione di un interesse, di una passione, e che questo può verificarsi quando i docenti sentono la gioia di insegnare e perciò accendono interessi, appassionano la classe.

La gioia di imparare nasce quando c’è un docente che esprime la gioia di insegnare.

Si legge nel Documento dei saggi sui saperi essenziali: <<Tutto ciò comporta un forte investimento negli insegnanti: nel gusto per l'insegnamento, nel senso morale, nel piacere che viene dal far conoscere, far discutere, far costruire sapere>>.

Innanzitutto, la gioia di imparare.

Al riguardo, si dirà: come si può far nascere la gioia di imparare a giovani che questa gioia non hanno maturato nei loro contesti di vita, soprattutto nella famiglia?

Per trovare una risposta, occorre andare al cuore del problema dell’imparare.

Che cosa rappresenta l’imparare: da dove nasce il bisogno di imparare?

L’imparare è l’alimento della crescita: alunno è parola che deriva dal latino alere (alimentarsi e perciò crescere, diventare alto, adulto) (3).

I bambini nascono naturalmente portati ad alimentarsi per crescere: i bambini nascono affamati di latte e di esperienze formative. Piangono perché hanno fame di latte, ma piangono anche perché hanno bisogno di muoversi, toccare, esplorare la realtà che li circonda per fare la conoscenza del mondo e per sviluppare le loro capacità (motorie, percettive, cognitive, linguistiche ecc.).

E questa fame di latte e di apprendimento non si spegne in nessun ambiente.

In alcuni ambienti socioculturali si coltivano gli apprendimenti più legati al patrimonio culturale dell’umanità, in altri ambienti si coltivano di più gli apprendimenti legati agli aspetti pratici del vivere quotidiano.

Lo scugnizzo napoletano forse impara più cose di quanto non ne impara il bambino di buona famiglia che sa di storia e di geografia.

Anche lo scugnizzo apprende la sua geografia, che è quella dei vicoli, nei quali si orienta e si muove come il bambino di buona famiglia non si orienta e non si muove nelle strade della città.

Lo scugnizzo impara le conoscenze che riguardano il suo ambiente di vita e sviluppa le sue capacità cognitive come non sempre le sviluppa il bambino di buona famiglia.

Si dirà che questi sono apprendimenti negativi.

Ma resta il fatto che sono apprendimenti.

Diceva una docente di sostegno che la sua disperazione nasceva, non tanto dal fatto che il suo alunno portatore di handicap a scuola non imparava e quel poco che oggi imparava domani lo aveva già dimenticato, quanto e soprattutto dal fatto che fuori della scuola il bambino imparava e non dimenticava!

Che cosa significa questo?

Sembra evidente che lo scugnizzo apprende quello che percepisce come strumento della crescita delle sue capacità che lo fanno "valente".

Che cosa avviene invece nella scuola?

L’alunno non sa perché apprende a leggere, perché apprende a contare a due a due, perché apprende il teorema di Pitagora, perché apprende i perissodattili.

Non lo sa lui, ma molto spesso non lo sa nemmeno il docente, chiamato a compiti esecutivi: svolgere il programma, insegnare a leggere ecc.

Manca nella scuola la chiara consapevolezza degli obiettivi formativi, la chiara consapevolezza delle capacità e degli atteggiamenti di cui promuovere la formazione.

Quali sono le capacità logiche, linguistiche, relazionali, affettive ecc. che l’alunno deve sviluppare attraverso gli apprendimenti?

Ecco perché il Regolamento dell’autonomia scolastica parla di <<obiettivi formativi>> e più precisamente di <<competenze>>.

La scuola, la nuova scuola, la scuola dell’autonomia dovrebbe essere appunto la scuola degli obiettivi formativi, della <<competenze>> (atteggiamenti e capacità): la scuola che aiuta i giovani a crescere, a formarsi, ad autorealizzarsi (4).

Al riguardo occorre chiarire l’equivoco che si è creato intorno alla fatica dello studio.

I bambini che giocano sino allo stremo delle loro forze fisiche sono bambini che accettano la fatica, perché sono motivati.

Assume rilevanza, non la fatica dello studio, ma la motivazione con la quale si affronta l’impegno dello studio.

Pertanto, non occorre eliminare la fatica dello studio, che sarebbe come eliminare la fatica di chi si impegna a sollevare i pesi per irrobustire i suoi muscoli, ma occorre motivare l’alunno, perché studio sia accettato, desiderato, amato, in quanto percepito come strumento della propria crescita umana, della propria affermazione, della propria autorealizzazione.

Il giovane deve avvertire che così come nella piscina sviluppa la capacità di nuotare, nella scuola sviluppa la capacità di nuotare nel mare della vita culturale, sociale, economica, professionale.

L’apprendere è lo strumento per crescere, per diventare più capaci di affrontare i problemi, che sono sempre i problemi della vita.

Se i giovani avvertono che l’apprendere è funzionale alla loro crescita, alla loro autorealizzazione, alla loro affermazione, allora essi non possono non impegnarsi ad apprendere.

Evidentemente, la gioia di vivere, di crescere, di apprendere può essere coltivata solo da chi la vive in prima persona: la gioia di imparare è un atteggiamento, e come tutti gli atteggiamenti non può essere insegnato, ma può essere contagiato da chi la vive.

Pertanto, per prima cosa occorre configurare l’apprendimento in funzione dello sviluppo di atteggiamenti e di capacità che siano percepiti dai giovani quali strumenti della loro crescita, della loro formazione umana, della loro autorealizzazione.

Questo impegno richiede una riorganizzazione complessiva del curricolo scolastico, nel quale debbono emergere chiaramente quali siano gli obiettivi formativi (capacità ed atteggiamenti) che attengono alla formazione motoria, affettiva, sociale, cognitiva, linguistica, matematica, storica ecc.

Come secondo impegno, occorre che coloro che debbono coltivare nei giovani la gioia della loro crescita umana, vivano essi stessi tale gioia. Non si tratta di far nascere nei giovani interessi momentanei e superficiali, ma di coltivare l’amore profondo della propria crescita umana, della propria autorealizzazione, della propria nascita alla vita culturale.

Occorre che i docenti vivano l’amore della cultura: siano uomini di cultura, perché solo come tali possono appassionare i giovani allo studio, restituito al suo autentico significato di amore del sapere (filosofia), che è amore del conoscere, che è amore del comprendere il mondo umano, naturale ed artificiale per diventare capaci di viverci dentro.

Come ogni essere vivente, l’uomo nasce naturalmente portato ad affermarsi e quindi ad apprendere ed a formarsi.

Questa è la motivazione intrinseca, questo è l’interesse profondo, questa è la passione travolgente che i giovani portano con sé fuori della scuola e sulla quale i docenti possono fare affidamento, anche dentro la scuola, per far vivere ad ogni alunno la gioia di imparare, che è gioia di formarsi e affermarsi, gioia di autorealizzarsi, gioia di vivere.

Ma questa gioia può essere coltivata nei giovani solo dai docenti che la vivono in prima persona.


 

Note:

1 Intervista di Mario Reggio al Ministro T. De Mauro, La Repubblica, 25 gennaio 2001.

2 In merito cfr. i seguenti articoli in DIDATTICA@EDSCUOLA.COM:

3 Alto è chi si è alimentato e perciò è cresciuto, è diventato adulto: alto e adulto derivano tutt’e due da alere (alimentarsi e quindi crescere).

4 Il Bisogno di Autorealizzazione