Formazione

di Umberto Tenuta

L'UOMO E L'EDUCAZIONE

Afferma Kant che l'uomo non nasce tale, ma può diventarlo solo at­tra­verso l'educazione [1] .

Mentre l'animale è predeterminato dall'istinto, invece il bam­bino, al mo­mento della nascita, è solo un candi­dato alla condi­zione umana e la sua ef­fettiva umanizzazione si realizza soltanto se entra a far parte di una de­terminata società umana, acquisendone la cultura.

L'uomo non è un essere naturale, ma un prodotto della cultura: è la cul­tura che crea l'uomo.

Ma anche la cultura non è un dato della natura. Gli strumenti, le tec­niche, le con­oscenze, gli atteggiamenti, i valori che costituiscono la cul­tura non si trovano già bel­l'e fatti nella natura, ma sono una costru­zione che l'uomo ha cominciato a re­alizzare sin dalla sua com­parsa sulla faccia della terra e che continua ininterrotta­mente a re­aliz­zare.

Caratteristica peculiare della cultura è la sua trasmissibilità.

Gli stru­menti, le tecni­che, i concetti, i valori, gli atteggiamenti che il singolo uomo co­s­truisce non restano confi­nati in lui, ma si tra­smet­tono agli altri uomini, cumulan­dosi con al­tri ap­porti, per creare un pa­trimonio cul­tu­rale che poi viene tra­s­messo alle nuove generazioni, le quali lo inte­grano con i loro con­tributi e, così arricchito, lo tras­met­tono alle succes­sive generazi­oni [2] .

In questa trasmissione consiste il processo che in termini antro­po­lo­gici viene de­finito inculturazio­ne, in termini sociologici socializ­za­zio­ne e in termini pedagogici educa­zione.

In tal senso Kant dice che <<una generazione educa l'altra>> [3] .

 

L'EDUCAZIONE E LA SCUOLA

Connaturata all'incompiutezza nativa dell'uomo è la sua attitudine ad ap­prendere. L'uomo è natu­ral­mente por­tato ad apprendere: il bambino co­mincia ad apprendere spon­taneamente sin dalla nascita [4] .

La trasmissione culturale comincia ad attuarsi attraverso l'apprendi­mento sponta­neo: così come i primi uomini, i bambini ap­pren­dono gran parte del loro pa­trimonio culturale mediante le interazioni so­ciali che essi attuano nei loro contesti di vi­ta.

Tuttavia, quando il patrimonio culturale si è accresciuto, anche per ef­fetto della sua specializzazione, non sono risultate più suffi­cienti le normali intera­zioni so­ciali per assicurare la tra­smissione del pa­trimonio culturale alle nuove genera­zioni e si è via via sempre più reso ne­cessa­rio affi­dare questo compito ad individui con particolari compe­tenze, in genere ai sacer­doti.

Infine, la spe­cia­liz­zazione del compito della tra­smissione culturale si è resa an­cor più necessaria con l'invenzione della scrittura ed il con­se­guente passaggio dalla cul­tura orale alla cultura scritta, per cui si è ad­divenuti alla creazione della vera e prop­ria scuola [5] .

Tuttavia, anche quando, nel corso della storia, le singole società hanno avvertito l'esigenza di una istituzione spe­cializzata, qual è la scuola, non è mai venuta meno la trasmissione cultu­rale realizzantesi at­traverso le spon­tanee interazioni sociali: anche oggi il com­pito della trasmissione cul­turale viene assolto sia dalle naturali es­perienze di vi­ta che dalla scuola.

 

INFORMAZIONE E FORMAZIONE

In merito alla tra­smissione culturale, è opportuno precisare la fun­zio­ne che essa svolge nella forma­zione dell'uomo.

L'uomo nasce sprovvisto, non solo di conoscenze, ma anche di ca­pacità.

Le tecniche, le conoscenze ed i valori, che l'uomo crea o apprende, non re­stano a livello di stru­menti da utiliz­zare, ma lo modificano, promuo­vendo la formazione di capacità, di abilità e di atteggiamenti.

Accanto alla sua funzione infor­mativa, la trasmissione culturale as­solve perciò anche ad una funzione for­ma­tiva.

Al mo­mento della nascita, il bambino possiede solo alcuni riflessi in­nati: le sue capaci­tà moto­rie, linguistiche, in­tellettive ecc. si svilup­pano solo con il loro eserci­zio [6] .

Inoltre, si deve rilevare che, connessi agli strumenti, sono sempre stati, non solo le abilità, ma anche gli atteg­gia­menti ed i valori re­la­tivi al lo­ro impiego. Ad esem­pio, l'uso dell'a­scia richiedeva alcune es­senziali abi­lità, ma compor­tava anche l'assunzione di ben precisi criteri in or­dine al suo impiego: per abbat­tere al­beri o uomini.

Nel corso dei millenni l'uomo, non solo ha ampliato le sue conoscen­ze ed ha sviluppato le sue capacità, ma ha anche creato i valori sociali, morali, religiosi che carat­terizzano la sua cultura e costituiscono quin­di la sua umanità.

In tal senso, il processo di inculturazione attraverso il quale gra­dual­mente si forma la personalità si concretizza nell'acquisizione di co­noscenze, nella maturazi­one di capacità, nell'assimilazione di valori.

Ne consegue che, come si verifica nei processi spontanei di incul­tu­ra­zi­one, anche nella scuola oc­corre promuovere, assieme all'acquisi­zione di conoscenze ed allo svi­luppo di capacità, abilità, atteggia­menti, anche l'assimilazione di valori.

 

I FATTORI DELL'EDUCAZIONE

Il processo di formazione della personalità, anche se in gran parte si realizza spontaneamente nel contesto socioculturale in cui l'individuo vive, non è però ineluttabile. Poiché comunemente si ha conoscenza solo di bambini che vivono in con­testi sociali, si è por­tati a ritenere che il bam­bino maturi le sue caratteristiche umane in­dipenden­temente dalle in­terazi­oni sociali.

Invece, anche i ritrovamenti di bambini cresciuti fuori dai contesti so­ciali di­mostrano che così non è: questi bam­bini non avevano svilup­pato nes­suna caratteristica umana (non camminavano eretti, non par­lavano, non possedevano capacità logiche). Ove ce ne fosse bisogno, questi bambini di­mostrano che, privo della possibilità di re­alizzare in­terazioni cultu­rali, il cucciolo dell'uomo non sviluppa nessuna delle sue potenzialità umane.

Le prime e fondamentali stimolazioni culturali che consentono di perve­nire alla condizione umana vengono of­ferte al bambino dal con­testo famil­iare e sociale in cui egli vive.

Sono i genitori, i fratelli e gli altri familiari i primi educatori del bambino; poi, a poco a poco, intervengono anche i componenti del gruppo so­ciale di appart­enenza e, quindi, assieme alla scuola, le as­sociazioni, le istituzioni religiose, politiche, sindacali, ricreative ecc.

 

AUTOEDUCAZIONE ED ETEROEDUCAZIONE

In ordine al processo di formazione della personalità, si pone in­nanzi­tutto il problema del ruolo che l'educando e gli educatori hanno in esso: l'educazione va con­siderata come sviluppo (autoeducazione), come azione an­tro­ploplastica (eteroeducazione) o come promozione della formazione?

Concepire l'educazione come sviluppo significa considerare il proc­esso di formazi­one della personalità come autorealizzantesi (autoeducazione).

L'autoeducazione può essere vista in una prospettiva naturalistica, as­similandola allo sviluppo vegetale ed animale op­pure in una prospettiva idealistica, concependola come autocreazione [7] .

Concepire l'educazione come sviluppo significa ritenere che la per­son­a­lità è pre­determinata dal codice ge­netico o da un'idea archetipa (che può essere idealistica­mente concepita anche come progressiva autocreazione), per cui il suo sviluppo non può non avvenire in una forma predefinita o autocreantesi: l'educazione è il proc­esso at­traverso il quale l'individuo si sviluppa, cioè esce dal viluppo e ap­pare in quella che è la sua forma data.

Come diceva Pindaro, si diventa quello che si è.

Secondo tale concezione, le stimolazioni esterne sono solo l'occasione, la condizi­one necessaria, ma non suffi­ciente e soprattutto non produttiva del manifestarsi delle capacità, delle abilità, degli atteggiamenti, che sono preesistenti, almeno come potenzialità: se mancano le stimolazioni, essi non si manifestano, ma, in pre­senza di adeguate stimolazioni, essi vengono fuori così come sono prefigurati.

In tale prospettiva, l'educazione viene intesa come ex-ducere, cioè trar­re fuori. Al limite, si ritiene che non solo le capacità e gli atteg­gia­menti, ma che anche le conoscenze siano in­nate nei singoli individui, per cui il compito degli educatori è semplicemente quello di favorirne la mani­festazione (maieutica socratica).

Invece, concepire l'educazione come azione antropoplastica significa ritenere che al momento della nascita l'individuo sia una mera possibi­lità, plastica e ap­erta, cioè suscetti­bile di assumere tutte le forme possi­bili: come molle cera, egli può essere modellato dall'educatore (eteroeducazione).

Come in pieno Positivismo ottocentesco affermava l'Ardigò, la cul­tura della so­cietà in cui l'individuo vive costi­tuisce una vera e propria ma­trice che modella l'individuo e gli fa assumere le conoscenze, le abi­lità, gli atteggia­menti, i valori che sono propri di essa.

Sono le stimolazioni socioculturali che modellano la personalità, nel senso che le danno forma, la conformano al modello culturale di cui sono portatori la famiglia, la società, gli educatori.

In tale prospettiva, l'educazione viene concepita come azione antro­po­plastica, cioè come azione modellatrice dell'uomo.

In termini moderni, questa concezione è fatta propria dalle teorie com­por­tamentis­tiche e, in particolare, dallo Skinner, il quale afferma di po­ter fare di un bambino sano quello che si vuole.

Evidentemente, tale concezione configura l'educazione come addestra­mento o am­maestramento: si tratta di una prospettiva in cui l'uomo viene consid­erato alla stre­gua dell'animale, messo alla completa mercé dell'am­maestratore, privo di ogni ri­conoscimento della propria personalità.

Le due concezioni appaiono antitetiche: da una parte, lo sviluppo (intelligenti si nasce), dall'altra l'azione antro­poplastica (intelligenti si diventa).

La questione è estremamente complessa e controversa.

Da una parte, si rileva che gli individui assumono i modi di essere della cultura nella quale vivono, dall'altra, però, si obietta che anche nella st­essa cultura gli individui non sviluppano le stesse ca­pacità, abilità, val­ori; pur as­sumendo le carat­teristiche della per­sonalità di base [8] di una determinata società, gli individui non risultano tutti eguali, ma si diver­sificano l'uno dall'altro: i cinesi sono diversi, non solo dagli inglesi che vivono in un'altra cultura, ma anche tra di loro, nonostante il fatto che vivano nella stessa cul­tura, la quale evidente­mente non riesce a dare a tutti la stessa forma.

In effetti, le due concezioni, nel mentre colgono aspetti significa­tivi del proc­esso educativo, risultano però uni­laterali.

Oggi si è portati a ritenere che la formazione della personalità non possa pre­scindere dalle stimolazioni cul­turali, le quali però non ven­gono subite pas­sivamente dal soggetto: ogni essere umano porta con sé, sin dalla nascita, una sua idiosincrasia personale, che lo induce ad utiliz­zare gli influssi ambientali in modo personale e come tale estremamente originale.

Le stimolazioni culturali offerte dalla famiglia, dalla società, e quindi anche dalla scuola, hanno un'influenza notevole sul processo di formazi­one della per­sonalità, perché in fondo costituiscono il "materiale" con il quale questa si costruisce, ma non pos­sono essere con­siderati come determi­nistici, nel senso che non si offrono quale ma­trice entro la quale la per­sonalità viene modellata, come sostengono le conce­zioni sociologiche e, in partico­lare, il comporta­mentismo skinneriano.

Pur assolutamente indispensabili, perché senza di essi non si ha forma­zi­one umana, in effetti le stimolazioni cul­turali non modellano dall'esterno la personalità, la quale si realizza sempre in una forma originale, sin­golare, ir­ripetibile, attraverso la mediazione del sog­get­to, come peraltro dimostra il fatto che gli individui appart­enenti ad una determinata cul­tura, seppure abbiano la stessa personalità di base, si presentano però di­versi l'uno dall'altro.

Come a livello biologico, i singoli individui, non solo assumono sol­tanto determi­nati alimenti tra quelli che ven­gono loro offerti, ma questi ali­menti poi trasformano in sostanze diverse da individuo ad individuo, così le moltep­lici stimolazioni cul­turali non condizionano allo stesso modo i diversi individui, sia perché questi ne effettuano una se­lezione, sia per­ché le mediano, cioè le interpretano, le vivono, le assimilano in una forma diversa.

Questa mediazione avviene a livello conscio e inconscio. Anche quando an­cora l'individuo non è capace di fare scelte, vi è in lui una dis­poni­bilità, un'attitudine che lo rende sensibile a determi­nate sti­molazioni anziché ad altre e che lo porta a dare propri sig­nificati alle stimolazi­oni. A mano a mano, poi, che matura la sua capacità di scelta, l'indivi­duo ricerca con­sapevolmente certe stimolazioni e ne trascura altre.

In tale prospettiva, l'educazione non viene concepita, né come azione an­tropoplastica (eteroeducazione), né come sviluppo (autoeducazione), ma come promozione dei processi formativi.

L'educazione non è il venire fuori di ciò che già esiste nel soggetto, ma non è nemmeno il dare forma ad una sostanza amorfa: essa può essere con­cepita come promozione dei processi formativi, i quali tr­ovano sempre nel soggetto il costruttore inconsapevole o con­sapevole della prop­ria person­alità.

Concepire l'educazione come promozione significa riconoscere che il pro­tagonista della propria formazione è il soggetto, che utilizza le sti­mo­lazioni culturali of­fertegli dalla società in cui vive per re­alizzare la sua umanizzazi­one.

Nei primi anni di vita, il bambino riceve le stimolazioni culturali in forma in­consapevole, ma ciò non significa che egli le subisca pas­siva­mente, in quanto, come si è detto, egli dimostra già una sua ca­pacità se­lettiva ed as­similativa che lo porta a preferire alcune sti­molazioni cul­turali anziché altre e comunque ad assimilare le stimo­lazioni, interpre­tandole, trasfor­mandole, elaborandole secondo il suo personale modo di essere.

Evidentemente, non si può disconoscere che in tale fase i processi for­ma­tivi risultino grandemente condizionati dalle offerte culturali dell'ambiente di vita. Non potendo consapevolmente andare alla ricerca delle sti­molazioni cul­turali, il bambino non può non utilizzare le sole stimolazioni socioculturali che gli ven­gono offerte, seppure elaborandole secondo le sue personali predisposizioni.

Questo spiega la grande incidenza che hanno le prime esperienze nei proc­essi di formazione della personalità di base.

Solo a mano a mano che l'individuo matura la coscienza di sé, diventa ca­pace di ricercare e di selezionare le sti­molazioni culturali meglio ri­spon­denti alle sue pre­disposizioni.

Si tratta di un cammino lungo, che vede all'inizio preponderante la fi­gu­ra dell'educatore, la quale a mano a mano tende a farsi sempre meno consis­tente, fino al punto da non essere più necessaria, quando il sog­getto diventa comple­tamente autono­mo, cioè capace di autoedu­carsi.

Tale itinerario può essere descritto come il passaggio dall'eteroeduca­zione all'autoeducazione [9] , con l'avvertenza però di non in­tendere l'ete­roeducazione come azione antropoplastica che prescinda comple­tamente dall'attività del soggetto. Anche se a livello incon­sapevole, il costrut­tore della propria personalità è sempre il sog­getto, che seleziona, ela­bora e assimila le stimolazioni culturali di cui ha comunque bisogno. Pe­raltro, è pure da tener presente che anche quando si parla di autoedu­ca­zione, non si vuol dire che il soggetto possa fare a meno delle stimo­la­zioni culturali, ma solo che queste egli può scegliere ed elaborare con piena con­sapevolezza.

Tale processo può essere reso più chiaro prendendo in considerazione l'apprendimento, che rappresenta lo stru­mento attraverso il quale si re­a­lizza la for­mazione della personalità.

Secondo le concezioni antropoplastiche che fanno capo, in partico­lare, alla gnose­ologia empiristica, le stimo­lazioni culturali vanno ad imprime­rsi nella mente del soggetto, la quale si presenta come una tabula rasa su cui è pos­sibile scrivere quello che si vuole.

In tale prospettiva, l'insegnare tradurre in segni (in-signare) as­sumeva il sig­nificato di tracci­are i segni nella mente del sog­getto, il quale le subisce passivamente, risul­tandone formato: esse gli vengono trasmesse, date, im­poste.

L'attività dell'insegnare è preponderante: è essa che determina i ri­sul­tati di quello che chiamiamo apprendi­mento.

L'alunno è insegnato, è formato, è modellato dall'esterno, per cui si dice che nei processi di apprendimento l'alunno è passivo e si parla quindi di scuola pas­siva.

È questa la concezione della scuola magistrocentrica.

Sebbene la gnoseologia empiristica abbia accentuato il ruolo passivo del soggetto nei processi di apprendi­mento, tuttavia nelle concezioni più mod­erne non si mis­conosce che egli abbia anche un ruolo attivo.

Ad esempio, nella concezione skinneriana, gli stimoli condizionano il soggetto, nel senso che producono in lui gli effetti che l'educatore si propone di ottenere, ma ciò avviene facendo riferimento al repertorio di risposte innate di cui il soggetto è portatore e comunque alla sua at­ti­vità: l'educatore rinforza le sue risposte. Re­sta però il fatto che è l'educatore a scegliere quali risposte rin­forzare e in tal modo è lui che determina i risultati formativi.

Tuttavia, oggi si riconosce sempre più il ruolo attivo del soggetto nei processi di apprendimento.

Anche  nell'apprendimento per associazione, quando, ad esempio, il nome sedia vi­ene associato ad un deter­minato oggetto, il bambino è attivo, per­ché è lui che colle­ga il nome all'oggetto.

L'insegnare viene concepito, non come produttore, ma come promotore dell'apprendere: insegnare non sig­nifica trasmettere il sapere, ma pro­muov­erne l'apprendimento.

In tale prospettiva, l'insegnante non fa altro che rispettare quelli che sono i naturali processi di apprendimento.

Al momento della comparsa dell'uomo sulla faccia della terra, le cono­scenze, le abilità, gli atteggiamenti, i val­ori che costituiscono la sua cultura, cioè la sua humanitas, non esistevano né nell'uomo né fuori di lui: egli non li por­tava innati e non li poteva ricevere dal mondo esterno già bell'e fatti.

Se li è dovuti creare, inventare, costruire da sé.

L'uomo ha esplorato il mondo e ne ha tratto la propria conoscenza; ha sperimentato e selezionato gli atteggia­menti e le norme di com­porta­mento più favorevoli e li ha fatti propri: egli ha creato così la sua cultura.

Anche se risulta più corretta l'espressione costruzione del sapere, si può con­tinuare ad utilizzare la più consue­ta espressione scoperta del sa­pere, intesa non tanto come disvelamento quanto come invenzione, crea­zi­one, cos­truzione, appunto, del sapere, degli atteggiamenti, dei valori che costituiscono la cultura umana.

In tale prospettiva, l'educazione può essere concepita come promozi­one dell'apprendimento: della scoperta, della creazione, dell'inven­zione, della cos­truzione delle conoscenze, degli atteggiamenti, dei valori da parte dei singoli indi­vidui.

L'educazione è l'attività di promozione dei processi di apprendi­mento: promuovere i processi di apprendimento significa stimolarli, orien­tarli, fa­vorirli.

L'insegnante non si sostituisce all'allievo, ma lo aiuta nella sua at­tività di ap­prendimento, senza mai presumere di operare in sua vece.

Tale situazione è bene espressa dall'invocazione che la Montessori mette sulla bocca di una bambina: <<Maestra, aiutami a fare da sola>>.

In tale prospettiva, l'insegnare consiste nell'offrire i segni che con­sentano all'allievo di apprendere.

I segni possono essere costituiti dagli oggetti e dalle esperienze reali ovvero dalla loro rappresentazione ico­nica o simbolica.

L'alunno può scoprire che le due caramelle che gli ha dato la mamma  e le tre caramelle che gli ha dato il papà sono tante quante le dita della sua mano, ma questa corrispondenza biunivoca può scoprirla anche tra le mele e le dita disegnate o rap­presentate con le cifre.

Ciò che importa è la scoperta: è il bambino che scopre la corrispon­den­za, non è l'insegnante che la imprime nella mente dell'alunno.

Peraltro, ha poca importanza che questa sia una scoperta fatta per la prima volta o sia invece una riscoperta di una conoscenza che gli uomini hanno già da tempo re­alizzato: per il bambino non è una riscop­erta, ma una scop­erta.

Il problema, semmai, consiste nel decidere se i segni di cui il bam­bino possa più utilmente avvalersi siano gli og­getti concreti o le lo­ro rap­pre­sentazioni.

Stanti i livelli di sviluppo dell'alunno di scuola elementare, è op­por­tuno muovere dagli oggetti reali, perché oc­corre tener presente che le sue modalità di pensiero sono quelle operatorie concrete.

Tuttavia, ciò che maggiormente importa è che sia l'allievo a fare le sue scoperte. Se l'allievo è capace di sco­prire un concetto muovendo dai sim­boli, la cosa va benis­simo. Ma se ciò non risulta agevole, al­lora è oppor­tuno ricorrere alla rappresentazi­one iconica o alla rap­presentazione con­creta.

A questo punto, ci si può domandare se l'allievo può fare da solo le sue scoperte.

Preso atto che tutto quello che l'uomo ha appreso è stato da lui sco­p­erto, inven­tato, costruito, non si può non am­mettere che l'allievo possa da solo pervenire alla scoperta.

Ma, come afferma il Bruner, è praticamente inverosimile che il singolo indi­viduo, lasciato a se st­esso, possa riscoprire da solo tutta la cul­tura che l'umanità ha crea­to nella sua lunga storia [10] .

Il bambino ha bisogno degli adulti per imparare: egli si appropria della cultura che il gruppo sociale di appart­enenza ha creato, attrav­erso un processo di assimi­lazione, di imitazione, di riscoperta, di reinven­zione, di ricos­truzione.

In tale prospettiva, l'autoeducazione in senso assoluto riguarda solo le persone mature, divenute capaci di fare scoperte senza l'aiuto degli altri.

Nell'età evolutiva, il giovane ha quasi sempre bisogno dell'aiuto di­retto o indi­retto degli educatori che lo stimo­lino, lo sostengano, lo orientino nel suo processo di riscoperta, di assimilazione, di elabora­zione person­ale, di imi­tazione. In man­canza, i processi di ap­prendimento risultano non finalizzati e pertanto disorganici ed alea­tori.

Evidentemente, l'aiuto può venire direttamente dalle persone o indi­ret­ta­mente dalle situazioni di apprendi­mento da loro create [11] .

L'offerta dei segni può essere effettuata nei modi più diversi. Ciò che importa è tenere presente che si tratta di segni che debbono poter essere letti, cioè decodifi­cati, interpretati dal soggetto.

 

EDUCAZIONE FUNZIONALE ED EDUCAZIONE INTENZIONALE

Per apprendere, il bambino ha bisogno di cose o di segni, i quali pos­sono essere offerti inconsapevolmente, come avviene nei contesti di vita, oppure consapevolmente, come si verifica nelle apposite isti­tuzioni edu­cative.

Nella famiglia, nei gruppi di pari, nella società, i segni sono comune­mente of­ferti con scarsa o senza alcuna in­tenzionalità educa­tiva. Gli ap­prendimenti sono le­gati alle normali attività, alle quotidiane intera­zioni sociali. Il bam­bino apprende a parlare attrav­erso le interazioni verbali con i familiari, i quali non si propon­gono di insegnargli a par­lare, anche se non sempre questa intenzionalità è assente.

Nella scuola e nelle altre istituzioni educative invece si ha una pre­cisa intenzi­onalità formativa.

In tal senso si parla di educazione funzionale e di educazione in­ten­zion­ale: la prima si attua spontane­amente nei contesti di vita e risulta quasi sempre disor­ganica, frammentaria, aleatoria; la seconda si attua soprat­tutto nelle isti­tuzioni scolastiche e dovrebbe risul­tare più effi­cace, più produttiva, più valida, sia sul piano quantita­tivo che sul piano qualita­tivo.

 

L'EDUCAZIONE FUNZIONALE

Il diritto di educare appartiene innanzitutto ai genitori, sia per di­ritto naturale che per riconoscimento della Costi­tuzione: <<È dovere e diritto dei genitori manten­ere, is­truire ed educare i figli, anche se na­ti fuori del matrimo­nio>> (art. 30).

La famiglia costituisce la sede primaria dell'educazione del fan­ciullo. Il discor­so socio-psico-pedagogico con­tem­poraneo ha con­fermato il fonda­men­tale ruolo educativo della famiglia, che già nel passato era stato ri­conos­ciuto da numerosi pedagogisti, in particolare dal Pestalozzi che ha esal­tato la figura educativa della madre, oltre che del pa­dre, in libri sugges­tivi, quali Madre e fi­glio e Leonardo e Gel­trude. Nel nostro secolo nu­merosi studi­osi hanno evi­denziato i danni dif­ficilmente riparabili che le carenze di cure materne producono nei primissimi anni di vita dei bam­bini, in riferimento al costituirsi delle istanze psico-affettive della fiducia di base, dell'ini­ziativa, dell'autonomia. Allo stesso tempo, è stato evi­denziato il ruolo che la famiglia svolge nella pro­mozione dello svi­luppo cognitivo, con parti­colare riferi­mento allo sviluppo del lin­guaggio e del pensiero [12] .

Il ruolo della famiglia discende non solo dal fatto che essa è, in senso tempo­rale, la prima istituzione che si prende cura del bambino, ma anche dalla particolare natura affettiva dei rapporti e delle in­terazioni che in essa si svolgono.

L'universale riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dalla fa­mi­glia nella formazione della personalità im­pone che siano assicurate le migliori condizioni personali, cul­turali e socioeconomiche perché essa possa as­sol­vere piena­mente tale compito.

Tra queste condizioni risulta essenziale la coerenza degli atteggia­menti educativi dei diversi com­ponenti della fa­miglia. In ordine a que­sti, ad una accentuazione, se non esclusivizzazione, del ruolo edu­cativo della madre, di recente ha fatto seguito un'attenta consid­erazione del ruolo paterno, che viene ritenuto almeno complementare a quello ma­terno. Tuttavia, oggi si ritiene che vadano con­siderati non i singoli com­ponenti ma il contesto fa­miliare. Scrive in merito la San­telli Beccegato che <<si avverte oggi sem­pre più chiaramente il senso di una funzione parentale globale, dove le scelte educative riescano ad emergere secondo un proget­to profondamente condi­viso. In que­sto contesto...(occorre ricercare) ri­sposte adeguate alle esigenze speci­fiche del figlio, con una comple­menta­rità di azi­oni di volta in volta da ricercare e da costruire>> [13] .

La famiglia va considerata come un gruppo unitario di persone che in­tera­giscono tra loro, creando una determi­nata atmosfera, che deriva la propria validità educativa dalla misura in cui ri­esce a creare una pro­pria dinamica ar­monia di vedute e di in­tenti. Come scrive ancora la San­telli Beccegato, <<si configurano come basilari, per qualifi­care un vali­do tessuto famil­iare, l'armo­nia di affetti, la solidarietà profon­da che è reciproca e costante dis­ponibilità>> [14] .

A riprova di tale esigenza potrebbe essere additata la crisi di val­ori che frequentemente oggi si ris­contra nei giovani e che trova le sue ori­gini non secondarie anche nella disgre­gazione della famiglia, frutto molto sp­esso delle diffi­coltà di intesa tra i genito­ri, che non riescono a tr­ovare la necessaria sin­tonia per costituire un'unità affet­tiva.

Assieme a quello della famiglia va considerato anche il ruolo svolto dalle ampie interazioni socioculturali che il bambino vive nei più vari contesti sociali, dal vicinato ai gruppi dei pari, alla chiesa, alle as­so­ciazioni ecc.

Quando il bambino non rimane forzatamente e dannosamente chiuso nell'ambito delle mura domestiche, ma ha la possibilità di stabilire più ampie relazioni sociali, la sua formazione si arricchisce e si ap­profon­disce.

Ai contesti familiari e sociali di esperienza oggi si aggiungono i mezzi di comu­nicazione di massa che assor­bono ampio spazio nella gior­nata dei bambini, svolgendo un ruolo fortemente in­cisivo nel processo della loro for­mazione complessiva. I bam­bini di oggi possono essere considerati "figli" non solo della famiglia ma anche della te­levi­sione, dei videoga­mes, del computer, della stampa (fumetti, giornalini ecc.).

Il vicinato, soprattutto nel passato, svolgeva un essenziale ruolo ed­uca­tivo, caratterizzandosi per la sua sostan­ziale coerenza con l'azione svolta dalla famiglia, della quale costitui­va quasi una prosecuzione, sia perché risultava alla stessa notevolmente omogeneo dal punto di vi­sta so­cioculturale, sia perché operava con la sua ap­provazione, più o meno con­sapevol­mente accor­data. Difficilmente il vi­cinato si poneva in netto con­trasto con l'indirizzo educativo della famiglia; quando lo faceva, av­ve­niva, o perché esso si poneva in una prospettiva emen­dativa rispetto alla fa­miglia, quasi sua coscienza critica, o perché assumeva una funzio­ne in­tegrativa, per una esi­genza di discontinuità che può essere ritenuta es­senziale al processo uni­tario di formazione della personale.

La Chiesa, che nel passato ha molto spesso surrogato la scuola, conti­nua a svolgere un ruolo fondamentale nella formazione dei giovani, in partico­lare nel campo religioso,  ma anche in campo morale e sociale.

La partecipazione alla vita ecclesiale, oltre ai momenti formativi co­sti­tuiti per tutti i credenti dalla preparazione al primo incontro con l'Eucarestia e dalla scuola di catechismo, rappresenta una occa­sione for­ma­tiva continua.

Si pensi, in particolare, alle omelie domenicali, alle cerimonie dell'anno litur­gico, alla stessa confessione, sig­nifi­cativo momento di ri­flessione.

Inoltre, la Parrocchia rappresenta per i credenti una seconda famiglia la famiglia spirituale costituendosi come occasione di interazioni umane e sociali educati­vamente orientate.

In particolare, oggi, in assenza di spazi di incontro dei fanciulli nell'ambiente urbano, la parrocchia, con le sue varie iniziative (oratori, scouts, gruppi missionari ecc.) offre occasioni di vita di gruppo di rile­vante signifi­cato for­mativo.

A ciò si aggiungano le stimolazioni della stampa religiosa (de­pliants, gior­nalini, libri ecc.).

La valenza formativa della vita ecclesiale non rimane limitata alla for­mazione re­ligiosa e morale, che pure ha un rilevante significato, ma si estende alla formazione sociale e culturale in genere: l'anno litur­gico e la storia sa­cra possono contribuire alla formazione storica; la stampa mis­sion­aria alla formazione geografica; l'arte sacra alla for­ma­zione estetica; i canti e le musiche alla formazione musicale ecc.

La scuola non ha mai avuto il monopolio della trasmissione culturale, la quale nelle culture orali avveniva es­clu­sivamente attraverso le in­ter­azioni sociali della vita quotidiana.

Anche nella civiltà dei nostri giorni, la gran parte delle conoscenze vi­ene ac­qui­sita attrav­erso le intera­zioni so­ciali più varie di cui il fan­ciullo è protagonista nella fa­miglia e nel più vasto contesto so­ciale, nel quale occupano un posto di grande rilievo i mezzi di comunicazione di massa, rappre­sentati dai manifesti, dalle pubbli­cazioni a stampa e so­prat­tutto dai mezzi audiovisivi (dischi, au­diocassette, radio, tele­vi­sione, cinema, computer ecc.). Il fanciullo è im­merso quotidiana­mente in un con­testo di stimolazioni culturali estremamente ricco e vario che gli assicura l'acquisizione di un patrimonio di conoscenze di gran lunga più vasto di quello ac­quisito nella scuola.

La civiltà contemporanea è caratterizzata dalla esplosione delle cono­sc­enze che, nella loro va­rietà, incoerenza e contraddizione, si offrono e si impongono con parti­colare incisività soprattutto attrav­erso i mass-me­dia, la cui pre­senza nella vita quotidiana degli indivi­dui è destinata ad accre­scersi, anche attraverso le vie telem­atiche che collegheranno sempre più gli individui a reti di banche dati di dimensioni plane­tarie.

Il sistema formativo, seppure comprensivo delle più varie agenzie, trova tuttavia nella scuola (asilo nido, scuola materna, scuola ele­men­tare, scuola media ecc.), i cui interventi sono intenzionali e sistema­tici, la sua istituzione più rappresentativa.

Anche se le altre istituzioni, come la famiglia e la chiesa, hanno an­che pre­cise fi­nalità formative, tuttavia è la scuola l'istituzione educa­tiva per antonomasia, in quanto esclusivamente finalizzata ad educare e ad is­truire le giovani generazioni, in forma diretta, secondo pro­grammi che fis­sano le finalità da perseguire, le vie da seguire, i mezzi da uti­lizzare, i criteri e gli strumenti di verifica.

 

LE FINALITÀ DELL'EDUCAZIONE

L'educazione intenzionale si caratterizza, oltre che per la sua sistem­aticità , so­prattutto per la chiara consapevo­lezza delle sue fi­nalità.

Ciò non significa che anche l'educazione funzionale non persegua di fatto precise finalità, ma queste non sono consapevoli: costituiscono un pro­gramma occulto. In fondo, ogni società offre come stimolazi­oni for­ma­tive la sua cultura, cioè le tecniche, le conoscenze ed i valori che es­primono le caratteristiche proprie degli individui che la compongono e che come tali essa tende a riprodurre: ogni so­cietà vive negli individui che la compon­gono e tende a perpetuarsi at­traverso la loro riproduzione fisica e cul­turale.

Tale finalità è perseguita in modo sistematico quando l'educazione di­venta un'azione intenzionale, come si verifica nella scuola, alla quale sono assegnate pre­cise finalità educative, riguardanti sia la formazione generale dell'uomo che la formazione specifica del cittadino, del lavora­tore ecc.

In ordine alle finalità dell'educazione, ci si domanda innanzitutto se esse cam­biano completamente da società a società o siano invece univer­sali.

In merito, pur tenendo presente che l'uomo si esprime in forme di­verse nelle di­verse culture, non si può dis­conoscere che c'è qualcosa che acco­mu­na gli uomini di tutte le culture: lo spartano e l'ateniese; il greco ed il ro­mano; l'egiziano ed il maia, il cinese e l'inglese.

Ciò che accomuna gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, di­stin­guendoli dagli animali, è costituito dalla ca­pacità di ragionare, che sec­ondo la definizione di Boezio costi­tuisce la natura umana (individua sub­stan­tia ration­alis naturae), assieme al linguaggio verbale, alla sen­si­bilità estetica, all'atteggiamento religioso ed alle altre carat­teri­stiche umane, che, seppure in forme diverse, si ritr­ovano in tutte le so­cietà e in tutte le culture.

Ciò che unisce prevale su ciò che differenzia.

Ciò che unisce costituisce l'umanità, ciò che fa essere uomo ogni fi­glio di donna, quali che siano il colore della sua pelle, la lingua che parla, il cibo di cui si alimenta, gli indumenti di cui si veste, le di­vinità che adora

Ebbene, l'educazione deve perseguire innanzitutto la formazi­one di ciò che unisce: la capacità di ragionare prima che il possesso di determi­nate conoscenze, la capacità di comunicare prima che il pos­sesso di una de­ter­mi­nata lingua, l'atteggiamento religioso prima che una determinata fede ecc.

Ma l'educazione non può nemmeno trascurare ciò che differenzia, sì, i singoli uomini, ma arricchisce la singola persona e la comune natura umana, la quale non si ritrova mai tutta in un solo individuo o in una  sola cul­tura. A dif­ferenza degli animali, nei quali le differenze fra i singoli in­di­vidui sono minime, negli uomini le differenze sono enormi, a livello non solo quantitativo ma anche qualitativo: l'umanità è così com­plessa, varia, ricca, che ha bisogno di tutti gli individui e di tutte le culture per es­prim­ersi. Al patrimonio finito di istinti che la na­tura ha selezi­onato nell'animale cor­risponde una cultura umana senza limiti e senza confini: il poeta e lo scienziato, il matem­atico e il let­terato, il peccatore ed il santo, il giocatore d'azzardo e l'avaro, il romantico e il razionalista, il cinese ed il maia ecc.

Gli Umanisti ponevano come finalità dell'educazione l'uomo microcos­mo, l'uomo che rappresentasse l'umanità, l'uomo che possedesse tutto il sape­re (Pico della Miran­dola) e tutte le virtù (...).

È possibile questo? È possibile che l'uomo assommi in sé tutta l'uma­nità che si è espressa nei diversi popoli e nei diversi individui che hanno popolato la faccia della terra e che costituisce quella che in senso quan­titativo e qualita­tivo viene definita humanitas?

È questo il concetto più pieno e comprensivo della formazione inte­grale dell'uomo, dell'uomo intero, dell'uomo non dimidiato, dell'uomo microco­smo, che il poeta Teren­zio riassumeva nel motto homo sum, nihil hu­mani a me al­ienum puto.

Evidentemente, la formazione integrale non può essere concepita in senso quantita­tivo.

Il singolo individuo non può racchiudere in sé l'universale umanità che gli innumerevoli uomini vissuti sulla faccia della terra hanno creato. In fondo, l'uomo è l'unica creatura dell'universo che ha prodotto molto più di quanto il sin­golo indi­viduo possa fare proprio.

Ma certamente non si può concepire l'uomo come frazione temporale e spaziale di umanità l'uomo hic et nunc , come singolo pezzo di una mac­china complessa. Se così fosse, egli non sarebbe uomo, ma parte dell'uomo.

Ogni essere umano va considerato come uomo intero, come piena umanità. In ogni uo­mo deve rivivere l'umanità di tutti gli uomini che sono stati e che sono, degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Il singolo uomo deve poter rivivere in sé, capire, comprendere gli altri, quali che essi siano: il santo, il poeta, il pit­tore, il soldato, il sacerdote, l'esquimese, il maia...

L'uomo non può essere chiuso all'altro uomo, vicino o lontano che sia, nel tempo e nello spazio, pena il venir meno della comune umanità.

In tal senso, l'educazione non può non essere formazione integrale, ac­quisizione di tutte le capacità, le abilità, gli atteggiamenti, i saperi che gli uomini hanno creato in tutti i luoghi e in tutti i tempi.

Ogni individuo deve essere innanzitutto uomo.

È questo il concetto di formazione dell'uomo, intesa come formazione gen­erale, come formazione che carat­terizza tutti gli uomini. È la for­ma­zione che fa uomo ogni figlio di donna, a prescindere dal secolo in cui vive, dal paese in cui abita, dal mestiere che esercita, dalla lingua che parla.

Evidentemente, le finalità della formazione dell'uomo non possono pre­scindere da quella che è la realtà storica, sociale, culturale, econo­mica, politica nella quale vive. Seppure universale, la natura umana si realizza poi sempre nella concretezza delle situazioni storiche. Anche se la sua umanità lo pone al di sopra del tempo e dello spazio, in effetti poi l'uomo vive nel tempo e nello spazio, nel quale però non rimane con­finato.

Pertanto, nella individuazione delle finalità educazione, se da una parte non si può dimenticare la universale natura umana, dall'altra non si possono trascurare quelle che sono le concrete situazioni in cui egli si forma e vive [15] .

Vi sono finalità storiche, che collocano l'uomo in un determinato paese e in determinato tempo, ma queste non possono negare le finalità astroi­che, quelle che pongono l'uomo al di fuori del tempo e dello spazio, nella sua universale umanità.

Forse, l'espressione formazione dell'uomo e del cittadino può servire anche a conciliare queste due esigenze diverse. Da una parte, la forma­zione dell'uomo, considerato nella sua natura universale, dall'altra la formazione del cittadino di questo paese, la formazione del lavoratore di questa era tecnologica ecc.

 

LA FORMAZIONE DELL'UOMO E LE FORMAZIONE DEL CITTADINO

In verità, il riferimento al cittadino, oltre che all'uomo, può es­se­re ri­tenuto pleo­nastico. Se non fosse che dell'uomo sono state ela­bo­rate, nella storia del pen­siero umano, le concezioni più diverse, tra le quali quella rous­seauiana di un essere avulso dal contesto so­ciale e civile, non ci sarebbe cer­tamente stato bisogno di as­sociare alla for­mazione dell'uomo quella del cittadino. In una concezione in­tegrale della persona umana, l'uomo raggiunge la sua piena espressione quando si sviluppa anche come citta­dino di un deter­minato Stato. L'uomo cosmo­polita è in fondo un'utopia, perché l'uomo è sempre citta­dino di uno Stato, anche se questo si iden­tifica con il mondo in­tero; al di fuori del con­sorzio sociale, l'uomo è una mera as­trazione: Ro­binson Crusoè continua a vivere con i pro­dotti e secondo le regole della società nella quale si era formato [16] .

La formazione dell'uomo, ma anche la formazione del cittadino: non esi­ste l'uomo astratto, ma l'uomo concre­to, di questo tempo, di questa so­cietà; non esiste il cit­tadino del mondo, ma il cittadino di questa na­zione, di questo Stato, di questa città. Il problema è quello di non chiudersi agli altri: di essere cittadini di questo Paese e di aprirsi al mondo intero.

La formazione dell'uomo, ma anche del lavoratore: agricoltore, ar­ti­giano, avvocato ecc. Il problema è quello di rimanere uomo che ri­conosce la sua appartenenza all'umanità, pur facendosi cittadino, mec­canico, scienziato, po­eta.

Come è possibile ciò? Evidentemente, si pone innanzitutto il prob­lema della for­mazione generale dell'uomo, di coltivare nell'uomo la formazione di tutti i germi dell'umanità: in tal senso occorre colti­vare nel bambino ciò che è generale piuttosto che ciò che è partico­lare ovvero ciò che è particolare senza sacrificare ciò che è gener­ale.

Occorre conservare, anzi coltivare, quella plasticità che al momento della nas­cita, ad esempio, rende il bam­bino cittadino del mondo, al di so­pra del tempo e dello spazio, per cui egli può apprendere la lingua e la cultura delle genti più diverse.

La formazione di base va intesa non tanto come propedeutica alla suc­ces­siva for­mazione, ma come formazi­one umana in senso lato, come forma­zione che accomuna gli in­dividui anziché dividerli per lingua, per reli­gione, per pro­fessione.

In tale prospettiva, ciò che conta non è lo specifico, ma il gener­ale: non è il sapere ma la capacità di imparare, non è il valore ma la capaci­tà di valutare, non è la tecnica ma la capacità di inventare.

Ognuno poi farà le sue scelte, assumerà la sua fisionomia, la sua lin­gua, il suo mestiere, sarà Marco o Filippo, italiano o francese, arti­giano o avvocato, ma senza dimenticare di essere uomo, anzi con­tinuando a sentirsi in­nanzi­tutto uomo: approfon­dirà la Storia o la Matematica, ma resterà ap­erto alla Musica e alle Scienze.

In tal senso, la scuola, in particolare quella di base, deve promuovere innanzi­tutto la formazione di abilità, di ca­pacità, di at­teggiamenti ge­ner­ali: deve promuovere la formazione dell'intelligenza prima che l'ac­quisizione di abitu­dini, la formazione della sensibilità estetica prima che l'acquisizione della tecnica della pittura, la maturazione sociale prima che i costumi di un determinato gruppo so­ciale ecc.

Forse troppo facilmente nella scuola di base si dimentica che le disci­pline deb­bono servire innanzi­tutto a scopi formativi, che la Matematica de­ve con­tribuire so­prattutto alla formazi­one dei molteplici aspetti del pen­siero, che la Storia deve servire a comprendere l'uomo nella sua av­ventura temporale, che la Geografia deve servire a uscire dal chiuso del natio loco ecc.

Pertanto, più che all'acquisizione di un determinato patrimonio di co­noscenze, oc­corre mirare alla formazione mo­toria, affettiva, so­ciale, mo­rale, linguistica, intel­lettuale ecc.

Alla scuola elementare, nata in un contesto culturale diverso da quello attuale, nel quale peraltro non si era an­cora acquisita suffi­ciente con­sapevolezza che lo svi­luppo delle capacità umane non avviene spontane­a­mente, ma va stimo­lato, promosso, fa­vorito, si è assegnato so­prattutto il compito di impartire delle nozioni, gli ele­menti del sapere, le disci­pline.

Malgrado le affermazioni di principio presenti nei programmi che si so­no succeduti dal 1860 in poi, tale orienta­mento ha sostanzialmente ca­rat­teriz­zato la scuola ele­men­tare fino ai nostri giorni.

Ora, si avverte forte, impellente, univoca, l'esigenza di tornare a par­lare di formazione.

 

LA FORMAZIONE DI BASE

Se uomini non si nasce ma si diventa solo attraverso l'educazione, il primo obiet­tivo di chi si occupa della for­mazione dell'uomo deve essere la formazione dell'uomo, cioè la formazione degli aspetti strut­turali della per­son­alità, costituiti dalla motricità, dall'affettività, dalla relazion­alità, dall'intelligenza ecc.

Come affermava il Gabelli, prima di riempire la mente, occorre for­mar­la: diver­samente non è nemmeno pos­sibile riempirla!

Si tratta perciò di porre innanzitutto come finalità della scuola di base la for­mazione motoria, affettiva, sociale, religiosa, linguis­tica, intel­lettiva ecc.

Non si può pensare di impegnare i bambini nei processi di apprendi­mento, se essi non sono capaci di per­cepire, di generalizzare, di as­trar­re, di concettualizzare, di simbolizzare ecc.

Queste capacità non sono innate, ma si sviluppano, si formano, si co­s­truiscono. Il loro sviluppo avviene, sì, anche spontaneamente, at­traverso le interazioni sociali che si attuano nei contesti di vita del bambino, ma, poiché questo sviluppo risulta aleatorio, si rendono necessari oppor­tuni interventi educativi finalizzati, mirati, inten­zi­onali da effet­tuare so­prattutto nell'asilo nido e nella scuola ma­terna, ma da conti­nuare anche nella scuola ele­mentare e nella stessa scuola media.

Non ci si può limitare a prendere atto che i bambini presentano la­cune, inca­pacità, inettitudini; occorre invece che la scuola di base si ponga come obiettivo innanzitutto la formazione degli atteggiamenti affettivi, sociali, morali, re­ligiosi; delle abilità motorie; dei po­teri mentali in genere.

Molto spesso si è portati a trascurare questi aspetti formativi e ci si preoccupa soprattutto del patrimonio di conoscenze da acquisire. Queste sono necessarie, ma occorre tener presente che non possono essere acqui­site e non possono essere utilizzate senza quelle.

Le difficoltà di apprendimento dipendono molto spesso da scarso equili­brio socio-emotivo, da difficoltà percet­tive e astrattive, da incapacità di concettualizzazione e di simbolizzazione ecc.

Si pensi all'insegnamento linguistico, nel quale, ad esempio, il bam­bino incontra difficoltà a scrivere, non solo perché non possiede gli strumenti linguistici, ma anche perché non ha imparato ad esprim­ersi, a comunicare, a dare ordine alle proprie idee.

Pertanto, occorre promuovere innanzitutto queste capacità, prescindendo dagli strumenti es­pressivi e comuni­cativi specifici: il linguaggio viene prima dei singoli linguaggi.

Si dirà che il linguaggio non si sviluppa in astratto, ma ap­prendendo una determi­nata lingua.

A prescindere dal fatto che vi sono linguaggi più accessibili, più na­tu­rali, più spon­tanei, come quelli mimici e gestuali, che vanno valoriz­zati, occorre tener presente che ciò che importa non è tanto l'apprendi­mento for­male di una lingua quanto le finalità formative che ci si pro­pone di con­seguire attraverso la sua acquisizione.

Ad esempio, nell'apprendimento del leggere e dello scrivere si deve mi­rare, prima che alla tecnica di codifi­cazione e decodificazione al­fabe­tica, alla espressione e alla comunicazione: il bambino deve sem­pre scri­vere per esprimere e comunicare le sue idee, i suoi pensieri, i suoi stati d'animo. Lo scrivere non deve essere un mero esercizio tecnico, ma deve rispondere sempre ad una esigenza comunicativa ed es­pres­siva. Solo in questo modo esso assume finalità for­mative.

LA SCUOLA PER LA FORMAZIONE DI BASE

La scuola materna, la scuola elementare e la scuola media sono nate con finalità ed in tempi diversi e solo do­po gli anni '50 è andato maturando il concetto di for­mazione di base e quindi l'idea di un sistema formativo uni­tario che le comprendesse tutt'e tre , per cui si è cominciato a par­lare di scuola di base.

Oggi, soprattutto dopo gli Orientamenti educativi del 1991, si ha una vi­sione ab­bastanza matura del concetto di formazione di base, come per­al­tro testimonia la nor­mativa sulla continuità educativa di cui agli artt. 1 e 2 della L. 148/1990 e la relativa disci­plina amministrativa [17] .

Pertanto, risulta più agevole ricercare e definire le precise fi­nalità formative che le tre scuole di base debbono unitariamente perseguire al fine di assicurare la formazione di base di tutti i cit­tadini.

In tale prospettiva, occorre innanzitutto superare le visioni setto­ria­li delle tre scuole, legate ai tempi e alle cul­ture in cui sono nate. So­lo at­traverso questa revi­sione è possibile pervenire a indi­viduare quelle che sono le loro comuni finalità formative, muovendo da una visione inte­grale dell'uomo, considerato nella moltep­licità e uni­tarietà dei suoi aspetti costitutivi.

A tali aspetti si è sempre fatto riferimento nei testi programmatici della scuola elementare e della scuola media, anche se spesso in modo ge­nerico, con affermazioni di principio confinate nelle loro premesse, ma poi l'attenzione si è spostata sui saperi, sulle discipline di stu­dio: sugli apprendimenti anziché sulle formazioni.

Gli esiti di una tale disattenzione nei confronti dei fini formativi ap­paiono pre­occupanti e la società tutta prende ogni giorno di più consa­pevo­lezza che occorre promuovere innanzitutto la formazione com­plessiva della person­alità.

Non basta il leggere, lo scrivere, il far di conto e nemmeno la sto­ria, la ge­ografia, le scienze: occorre mirare esplicitamente, intenzi­onalmen­te, sistematica­mente, alla formazione motoria, emotivo-affet­tiva, so­ciale, mo­rale, re­ligiosa, cogni­tiva ecc.

 



[1]   Scrive Kant che <<La bestia è già resa perfetta dall'istinto... L'uomo invece... non possiede un itinto e deve quindi formulare da sé il piano del proprio modo di agire... La specie umana deve esprimere con le sue forze e da se stessa le doti proprie dell'umanità. Una generazione educa l'altra... L'uomo può diventare tale solo con l'educazione>> (KANT E., Pedagogia, O.D.C.U., Rimini, 1953, pp.25-27).

[2]   Tale patrimonio non materiale costituisce il capitale invisibile, secondo la felice espressione del Gozzer (GOZZER G., Il capitale invisbile, Armando, Roma, 1973).

[3]   KANT, E., Op. cit., p. 35. In merito, cfr. anche: TRSTENJAK A., Il cammino dell'uomo, La Scuola, Brescia, 1975; PERETTI M., Cultura, La Scuola, Brescia,  1978.

[4]   Secondo le più recenti ricerche, anche prima.

[5]   Secondo il Laeng, la scuola nasce appunto con l'invenzione della scrittura  (LAENG M., La scuola oggi, La Nuova Italia, Firenze, 1975, pp. 3-5).

[6]   Piaget afferma che anche i poteri logici non sono innati, ma si sviluppano attraverso il loro esercizio: <<...la logica non è innata nel bambino. Se la logica stessa si costruisce invece di essere innata, ne consegue che il primo compito dell'educazione è di formare la ragione>> (PIAGET J., Dove va l'educazione, Armando, Roma, 1974, p. 51).

[7]   Nell'idealismo l'educazione viene concepita come autocreazione o autoctisi (Neoidealismo gentil­iano).

[8]   Si intende per personalità di base l'insieme delle caratteristiche che sono proprie degli individui appartenenti ad una determinata società (TENTORI T., Antropologia cul­turale, Studium, Roma, 1960, pp.86ss.).

[9]   I termini auto ed eteroeducazione assumono spesso diversi significati: a rigore, per eteroeducazione si intende l'azione di formazione esercitata da fattori esterni all'individuo (azione antropoplastica) e per autoeducazione il processo di sviluppo, secondo il naturalismo pedagogico, o di autocreazione, secondo l'idealismo (autoctisi, secondo il Gentile). Tuttavia, molto spesso per eteroeducazione ed autoeducazione si intendono, rispettivamente, le influenze educative esterne e l'azione personale at­traverso la quale tali influenze vengono assimilate, fatte proprie.

[10] Come afferma il Bruner, <<la specie umana, anche prescindendo dalla cultura acquisita nel corso della storia, potrebbe, col tempo, reinventare il linguaggio e la tecnlogia che hanno reso possibile l'espressione della sua potenza, ma lo sviluppo di un singolo individuo, concepito al di fuori di ogni presupposto culturale, costituirebbe un'ipotesi inverosimile>> (BRUNER J.S., Verso una teoria dell'istruzione, Armando, Ro­ma, 1967, p.17.)

[11] La Montessori aiutava gli alunni, organizzando apposite situazioni di apprendimento costituite soprattutto dai materiali strutturati. Al posto dei materiali possono essere offerti immagini o materiali simbolici attraverso la viva voce degli inseg­nanti, i libri o appositi strumenti tecnologici.

[12] BOWLBY J., Cure materne e igiene mentale del fanciullo, Giunti-Barbèra, Firenze, 1975; SPITZ R. A., Il primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbèra, Firenze, 1962; AINSWORTH M.D., La carenza di cure materne, Armando, Roma, 1966; RUTTER M., Cure ma­terne e sviluppo psicologico del bambino, Il Mulino, Bologna, 1973; BERNSTEIN B., Struttura sociale, linguaggio e apprendimento, in PASSOW A., L'educazione degli svan­taggiati, Angeli, Milano, 1972.

[13] SANTELLI BECCEGATO L., Famiglia, in FLORES D'ARCAIS G. (a cura di), Nuovo dizionario di pedagogia, Paoline, Roma, 1982, p. 470. In merito al ruolo educativo della fa­miglia, cfr., in particolare: AA.VV., Famiglia ed educazione, La Scuola, Brescia, 1964; PERETTI M., L'educazione familiare oggi, La Scuola, Brescia, 1972; GALLI N., Problemi attuali di pedagogia familiare, La Scuola, Brescia, 1972; GALLI N., Nuovi problemi di pedagogia familiare, La Scuola, Brescia, 1974. OSTERRIETH P., Il bambino della famiglia, Loescher, Torino, 1974; AA.VV., Educazione familiare e cambiamento culturale, La Scuola, Brescia, 1981. 

[14] SANTELLI BECCEGATO L., ibidem.

[15] SANTOMAURO G., Per una pedagogia in situazione, La Scuola, Brescia, 1967.

[16] Un problema a a sé stante è costituito dai nomadi.

[17] La continuità educativa risulta disciplinata dall'O.M. annessa alla C.M.n°339 del 16.11.1992.


La pagina
- Educazione&Scuola©