OBBLIGO SCOLASTICO E OBBLIGO DI APPRENDIMENTO

Umberto Tenuta

Lo Stato sancisce l’obbligo scolastico, che è obbligo di frequentare la scuola e obbligo di apprendere.

Ma se lo Stato, con premi e punizioni, può costringere a frequentare la scuola, non può costringere ad apprendere, né con premi, né con punizioni.

Gli alunni possono essere portati a scuola, ma non possono essere costretti ad apprendere.

Come afferma il Freinet, si può portare il cavallo alla fonte e fischiare quanto si vuole, ma se il cavallo non vuole bere non beve (1).

Dove sta l’errore?

L’errore sta nell’avere trasformato quello che era un bisogno innato (2), primario, costitutivo della natura umana (3), in un obbligo.

I bambini nascono naturalmente vogliosi di imparare, di apprendere, di diventare adulti, alimentandosi di latte e di cultura: lo testimoniano la loro estrema disposizione ad apprendere, le loro domande, i loro perché.

Che cosa fanno i genitori prima ed i docenti poi?

Distruggono questa voglia, spengono la curiosità.

La spengono, perché non la alimentano, nel momento in cui non sono disponibili a rispondere alle domande dei bambini.

Ma la spengono anche e soprattutto nel momento in cui impongono l’apprendimento di conoscenze e di capacità che sembrano le mille miglia lontane dai bisogni di apprendere dei giovani.

La spengono, imponendo l’apprendimento di conoscenze che non vengono vissute come funzionali allo sviluppo di capacità: si obbligano gli alunni a riempire le loro teste di saperi che nessuno si preoccupa di far comprendere a che cosa possano servire.

A cosa possono servire le radici quadrate, le aree dei trapezi rettangoli, le orbite dei pianeti, le reazioni chimiche, la caduta dell’Impero Romano d’Occidente?

Eppure, queste stesse conoscenze potrebbero essere acquisite come risposte all’innato bisogno umano di conoscere e di formarsi.

Al fondo dell’assurda impresa di trasformare in obbligo ciò che costituisce un bisogno profondo c’è un atteggiamento autoritario: gli adulti possono disporre dei giovani. Gli adulti hanno il diritto di imporre ai giovani di apprendere.

Non si può non riconoscere che questo diritto è fondato, perché gli adulti debbono fare in modo che i giovani si alimentino, di latte e di cultura, per crescere, per diventare adulti.

Ma non si può non prendere atto che l’osservanza dei doveri non diventa mai effettivo se i doveri non vengono assunti autonomamente dai soggetti.

Il cavallo deve bere e deve mangiare la biada; diversamente muore.

Eppure, se il cavallo non vuole bere, non beve, e se non vuole mangiare, non mangia.

Nessuno Stato di polizia è mai riuscito a far osservare le leggi con la forza.

Occorre che i cittadini crescano, si formino, diventino capaci, autonomi, adulti.

E tuttavia autonomi non si diventa con l’imperio della legge, dell’autorità.

L’autorità non può essere imposta, ma deve essere riconosciuta.

Se è vero, come è vero, che i giovani non possono crescere, non possono formarsi, non possono diventare adulti, se non apprendono, è anche vero che non è possibile costringere i giovani ad apprendere e che anche laddove fosse possibile, non servirebbe. Oggi viviamo in una civiltà in rapida trasformazione, nella quale non importano tanto le acquisizioni di oggi, quanto la capacità e soprattutto la voglia di continuare ad apprendere per tutto il corso della vita.

Ove la scuola, con premi e castighi, riuscisse a far acquisire il patrimonio culturale attuale e non facesse nascere la voglia di continuare ad apprendere, anzi creasse un atteggiamento negativo verso l’apprendimento, le conoscenze acquisite nella scuola perderebbero ogni valore appena terminati gli studi.

Pinocchio che, finito l’anno scolastico, si vende l’abbecedario è l’emblema del fallimento di una scuola che si impegna a far apprendere ricorrendo ai premi ed ai castighi.

È questa una strada che se ieri, seppure entro certi limiti, poteva risultare valida, perché portava comunque alle acquisizioni che sarebbero risultate valide per tutta la vita, non è invece assolutamente proponibile oggi, nel momento in cui l’obsolescenza delle competenze no oltrepassa lo spazio di un decennio.

La prospettiva dell’educazione permanente, che oggi è la prospettiva ineludibile di ogni processo formativo, impone con forza un cambiamento di rotta.

Siccome occorre continuare ad apprendere per tutto il corso della vita, non tanto per aggiungere nuove conoscenze a quelle già possedute, ma per ristrutturare e/o sostituire quelle acquisite, è necessario che i processi di insegnamento/apprendimento abbiano come obiettivo, non solo l’acquisizione di conoscenze e di capacità, ma anche la maturazione di atteggiamenti positivi nei confronti dell’apprendimento.

In tal senso, nel Documento dei saggi sui saperi essenziali si pone l’accento, emblematicamente, sul <<piacere del matematizzare>> (4), sul <<bisogno>> di leggere (5).

La scuola può anche obbligare ad apprendere durante il corso degli anni scolastici, ma non può obbligare ad apprendere per tutto il corso della vita.

Eppure, il compito della scuola è soprattutto quello di insegnare e di motivare ad apprendere per tutto il corso della vita.

Questo compito la scuola può assolvere, non tanto facendo leva sull’obbligo di apprendere, quanto coltivando l’amore del sapere.

E questo può farlo agevolmente, perché in fondo non occorre far acquisire un nuovo atteggiamento, ma basta coltivare la naturale propensione dei giovani ad apprendere, a formarsi, a crescere.

Ogni giovane nasce desideroso di apprendere e di formarsi, di diventare capace, abile, competente.

Il bambino vuole muoversi per esplorare il mondo che lo circonda, porta gli oggetti alla bocca per esplorarli, rompe le bambole per vedere come sono fatte.

Si tratta di non distruggere, ma di coltivare questo naturale atteggiamento conoscitivo, sia nella famiglia che nella scuola.

Impresa estremamente difficile, ma ineludibile.

Al limite, è preferibile il docente che non insegna a quello che, obbligando ad apprendere, distrugge l’amore del sapere.

Il primo criterio da tenere presente è di non distruggere l’innato bisogno umano di apprendere.

Il docente che si accinge a fare scuola deve per prima cosa domandarsi se quello che egli propone agli alunni non distrugge il loro desiderio di imparare (primum, non nuocere!).

Al secondo posto viene l’esigenza di coltivare la voglia di apprendere, le motivazioni già esistenti.

In questo senso, occorre muovere, non solo dalle conoscenze già possedute, ma anche dalle motivazioni già presenti negli alunni: che cosa gli alunni desiderano apprendere, quali sono i loro perché, le loro domande?

Occorre partire da queste esigenze e semmai da esse far nascere nuovi bisogni conoscitivi.

Il bambino domanda perché la barca galleggia: la risposta comporta l’acquisizione di diverse conoscenze.

Tuttavia, l’impegno più rilevante dei docenti è quello di far nascere nuovi interessi, nuove motivazioni, nuove aspirazioni.

Bruner fa riferimento a quattro motivazioni fondamentali (6).

Su queste occorre fare leva.

Bruner ha affermato che non c’è migliore motivazione che l’argomento stesso.

Ad una condizione, evidentemente: il docente può far nascere l’amore del leggere solo se egli ama leggere; può far nascere il piacere di matematizzare, solo se egli ama risolvere problemi (7); può far nascere l’amore della storia, solo se egli ama la storia.

Gli atteggiamenti non si possono insegnare: si possono solo contagiare.

Il piacere di imparare è strettamente correlato al piacere di insegnare.

Perché gli alunni conservino l’amore dell’apprendere, è necessario che i docenti amino insegnare.

Occorre creare le condizioni perché nella scuola vi siano sempre più docenti motivati, docenti che vivano la gioia di insegnare (8).

È questa la vera sfida della scuola dell’autonomia, impegnata ad assicurare a tutti gli alunni il successo formativo.

Perché gli alunni, obbligati a frequentare la scuola, imparino, è necessario fare affidamento sulla voglia di apprendere che essi portano con sé sin dalla nascita, ma che potrebbe essere distrutta da docenti che non siano motivati ad insegnare, che non siano capaci di contagiare l’amore del sapere, perché ne sono privi.

Tra le competenze da richiedere ai docenti nel corso della loro formazione, vi sono le conoscenze disciplinari, vi sono le competenze didattiche e le competenze relazionali, ma vi sono soprattutto e innanzi tutto gli atteggiamenti nei confronti dell’apprendere e dell’insegnare.

È in questa direzione che si deve guardare, se si vuole che la scuola dell’autonomia assicuri il successo formativo a tutti gli alunni, così come si propone.

Non è un caso che finanche nel mondo produttivo, oggi si dia più importanza agli atteggiamenti che alle competenze (9).


Note

1 FREINET C., I detti di Matteo, La Nuova Italia, Firenze, 1962, p. 8.

2 HODKIN R.A., La curiosità innata - Nuove prospettive dell'educazione, Armando, Roma, 1978.

3 Nati non foste

4 <<Sembra essenziale, a questo riguardo, che bambini e ragazzi non perdano il piacere del matematizzare>>.

5 <<Ma la lettura va intesa e sollecitata anche come emozione immediata e bisogno-piacere inesauribile, come scoperta di un libro che stimola la ricerca di altri libri>>.

6 Bruner J. S., Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma, 1967. Ma vedi anche ampie citazioni in UMBERTO TENUTA, La gioia ed il gusto di imparare, in DIDATTICA@EDSCUOLA.COM

Se non ne avete mai risolto uno, se non avete mai provato la tensione e il trionfo della scoperta e se, dopo qualche anno di insegnamento, non avete ancora osservato una tale tensione e un tale trionfo in uno dei vostri allievi, allora cercate un altro mestiere e abbandonate l’insegnamento della matematica>> (G. POLYA).

8 In merito cfr. La gioia di imparare / La gioia di insegnare in DIDATTICA@EDSCUOLA.COM

9 In merito cfr. GOLEMAN D., Lavorare con l’intelligenza emotiva, come inventare un nuovo rapporto con il lavoro, RIZZOLI, MILANO, 2000.