IL RECUPERO DELL’ORALITA’

Renzo Stio

 

Si possono gettare alle ortiche ottanta anni di istruzione pubblica liquidandoli come esperienza fallimentare o addirittura di limitazione allo sviluppo personale? Sicuramente no! Si può sostenere con piena responsabilità che la scuola italiana gode di perfetta salute, e il suo impianto strutturale si conferma utile e vantaggioso per la formazione delle prossime generazioni? Ovviamente no! In medio stat virtus. Il solito motto – obbietterebbero in molti. E ne avrebbero ben ragione, non tanto per il principio generale in sé, che è fondamentalmente condivisibile, quanto perché la massima – ogni massima – va riempita di significato. Nel nostro caso è quel "media" che turba. Trovare soluzioni che conciliano posizioni antitetiche è possibile con relativa semplicità quando quello spazio mediano è abitato da soggetti forti, elementi cardine capaci di rappresentare termini affidabili di riferimento, tali da poter meritare la fiducia di ogni attore coinvolto nei processi che vengono attivati.

Negli studi sul passaggio dal mondo dell’oralità a quello alfabetico, emerge con chiarezza la sostanziale differenza dell’idea di uomo che ciascuna delle due forme di cultura esprime. «Apprendimento e conoscenza in una cultura orale significano identificazione stretta, empatica, con il conosciuto. La scrittura separa chi conosce da ciò che viene conosciuto, stabilendo così le condizioni per l’oggettività, il distacco personale» (1). L’uomo orale è l’uomo naturale, integrale, vero; l’uomo alfabetico è l’uomo della distanza, dell’analisi razionale, della frammentazione tipica della produzione di massa. Recuperando la lezione profetica della Galassia Gutenberg di Marshall McLhuan, le profonde riflessioni di Oralità e scrittura di Walter J. Ong, le tracce del messaggio che Platone ci ha lasciato nel Fedro a difesa di una verità che solo nella "parola" trova giustizia, a fronte delle mistificazioni e della corruzione che genera la scrittura, si va riproponendo nell’attuale clima in cui vive la scuola il tema della ricerca del fondamento e della legittimazione etica delle scelte e dei comportamenti.

Nel mondo della scuola oggi il verbo è assente, la scrittura è labile e diafana, il testo non convince più. Come il cane che si morde la coda, così gli insegnanti sembrano disarmati, sprovveduti, demotivati quando dovrebbero invece essere decisamente pronti a sostenere la sfida. I dirigenti scolastici, novelli Prometeo, non sono stati educati a sottrarre il fuoco agli dèi, ma solo a quanto basta per poter accendere qualche fiammella tra coloro che cercano la via. Il fuoco olimpico non può essere conquistato con super corsi di formazione para manageriale, né tanto meno esistono le condizioni per poterlo prometeicamente rubare (a quali dèi, poi!).

Eppure quello spazio intermedio va assolutamente colmato. Da chi? Da che Cosa? Con che cosa? Forse c’è spazio perché la parola possa riappropriarsi di un antico primato, mediandolo con le nuove istanze antropologiche della società globale. Tornano prepotentemente alla ribalta il ruolo e la centralità della persona e delle persone, ciascuna in forza della parola che incarna. Senza la schermatura tutelare della norma scritta, puntuale e vincolante, davanti ad un orizzonte incerto che si struttura e ristruttura quotidianamente sotto i nostri occhi, di fronte alle crociate contro il passato e all’esaltazione del nuovo (che non esiste!), la verità viene a galla. Quella di chi si espone e di chi crede ancora di potersi nascondere. Una verità precaria, contingente, limitata e tuttavia popperianamente aperta al confronto e all’elaborazione di teorie per spiegare perché le cose vanno come vanno. Una verità che è lontana dai modelli olimpici della razionalità da scopo e che fa della consapevolezza dei suoi limiti il motore che sostiene l’incessante ricerca di un mondo migliore. Una verità per la quale proprio contingenza e debolezza possono diventare criteri guida delle umane condotte, allorquando si accompagnano a rigore, coerenza e trasparenza. Rigore e coerenza che pagano nel tempo, ma solo quando non degenerano nell’ostinazione e nella coazione a ripetere di atteggiamenti che seppure paiono rassicuranti, sconfessano la loro natura orale e quindi reale, essenziale.

Il migliore dei discorsi «è quello che, accompagnato da scienza, è scritto nell’anima di chi apprende ed è capace di difendere se stesso e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere. […] Il discorso vivente e animato di chi sa, rispetto al quale il discorso scritto potrebbe dirsi giustamente un’immagine» (2).

E’ un terreno che conviene arare sul versante della formazione, cominciando da lontano, almeno dalla formazione universitaria, dalle forme del reclutamento e non dall’aggiornamento in servizio che dovrebbe invece essere l’ultimo segmento di un solido percorso di maturazione professionale. Serve a poco – a niente – scandalizzarsi di fronte alla "concorsopoli" nazionale, cercare la vittima sacrificale che metta pace fittizia nelle coscienze perché abbiamo tutto sommato il dovere di guardare ancora a questo mestiere come a qualcosa di molto particolare, perché ha a che fare con la libera espressione dell’arte e della scienza, delle esperienze più eccelse che l’uomo può produrre. Serve, invece, ad ogni livello di responsabilità, un onesto accostarsi al problema riconoscendo in prima istanza che oltre alla indiscutibile necessità di mutare il sistema di accesso al ruolo docente, occorre ancor di più riconoscere, ad esempio, che il rapporto tra prova scritta e prova orale andrebbe rivisto alla luce di una effettiva riconsiderazione della seconda a fronte della prima. Tento il paradosso: più si va verso l’affermazione di strumenti di valutazione oggettivi, formalizzati e schematizzati e più diventano essenziali e indispensabili le occasioni in cui in gioco ci sia la persona, con tutto ciò che essa sa esprimere e rappresentare. Questo era, ad esempio, nella natura del cosiddetto "concorsone" per il merito degli insegnanti, il mostro che più di qualcuno ha comunque cavalcato, al quale pochi hanno risparmiato fendenti. Chi non sarebbe d’accordo con l’idea che la qualità del lavoro del docente è il risultato della sapiente miscela di sapere, saper fare e saper essere? Perché non dover verificare oltre al possesso di adeguate conoscenze anche il cosiddetto know-how, la tecnica o la capacità relazionale e di condivisione che deve instaurarsi tra docente e discente? Certo è pur vero che laddove manca un’adeguata cultura capace di sviluppare e far crescere certe idee, forse è meno dannoso vederle perire sul nascere. «Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé, com’ogne altra semente / fuor di sua region, fa mala prova» (Dante, Paradiso, VIII, 139-141).

Il concorsone, per questa ma sicuramente anche per altre fondate ragioni, doveva avere la sorte che ha avuto, e chissà quando lo rivedremo riproposto sotto mentite spoglie. Nel frattempo potrebbe essere utile spingere oltre la riflessione sui corpi professionali della scuola dei prossimi anni con la consapevolezza di non poter più contare su quella sicurezza che secoli di cultura testuale e tipografica hanno finora potuto garantire.

 

1 W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, p.75.

2 Platone, Fedro, 276-a, in Dialoghi filosofici, vol. II, UTET, Torino, 1981.