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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Caritas Italiana Fondazione E. Zancan

Cittadini invisibili

 

                                       Rapporto 2002 su esclusione sociale

 

 

 

Perché parlare di 'donne'?

 

Ha senso parlare di disagio, povertà, esclusione sociale al femminile? La domanda potrebbe essere posta anche in un altro modo: il disagio, la povertà, l'esclusione sociale hanno una con­notazione di genere? Vi sono cioè delle condizioni di disagio im­putabili unicamente o prevalentemente al fatto di essere donne anziché uomini?

Queste sono domande che, nel contesto di questo volume, mi sembra possano costituire un'ipotesi di lavoro che vale la pena in­dagare. Oggi è abbastanza acquisita resistenza di una specifica "condizione femminile", su cui ormai abbonda la letteratura. Ma ciò non significa necessariamente che tale condizione, per la sua specificità, possa essere elemento favorente stati di deprivazione, quindi caratterizzati da una valenza diversa - quantitativamente e/o qualitativamente - dal disagio che colpisce il genere maschile.

Non può che trattarsi di un'ipotesi, per quanto oggi sempre più documentata, perché, ai grossi cambiamenti sociali che tutti in qualche modo percepiamo, allo sviluppo recente di studi sulla qua­lità della vita e sull'esclusione sociale in generale, non si accompa­gnano altrettanto ampie e specifiche ricerche empiriche, né elabo­razioni delle scienze sociali focalizzate sull'analisi e comprensione complessiva delle peculiarità al femminile di questi processi.

Vi sono tuttavia numerosi segnali che fanno pensare che l'esse­re donna, per lo meno a certe condizioni, esponga maggiormente, rispetto agli uomini, a rischi di disagio anche grave. Ma si tratta ancora più che altro di segnali, pur consistenti, perché la maggior parte degli studiosi (o meglio, delle studiose) sottolinea innanzi­tutto la scarsa visibilità, ad esempio della povertà, al femminile. 9

Le stesse statistiche ufficiali (dai censimenti, alla Indagine Multi­scopo e le altre indagini dell'Istat, alle diverse indagini campiona­rie dell'Europanel, fino alle varie "fonti secondarie" di statistiche) forniscono dati alquanto generali se non generici. Vi è ancora grossa carenza di ricerche longitudinali (importanti, perché, a det­ta delle esperte, sembra che le situazioni di povertà delle donne siano molto legate anche ai cicli di vita), anche se emergono alcu­ni indicatori utili. Vanno anche aprendosi interessanti spazi di ri­flessione (e relative critiche alle modalità di indagine classiche che usano approcci "neutri", anziché "di genere", nello studio dei fe­nomeni sociali come la povertà o l'esclusione) che scaturiscono da elaborazioni più attente dei dati disponibili, da confronti con ri­cerche internazionali, dal crescere di ricerche empiriche ad hoc anche di tipo qualitativo.

 

­­­

9 “Quello che ci preme sottolineare è che l’aumento e la diversificazione dei rischi di povertà al femminile non comporta necessariamente una maggiore visibilità della stessa dato che, al contempo, agiscono importanti meccanismi di occultamento: la povertà che colpisce le donne rimane un fenomeno oscuro, difficilmente rilevabile e spesso ancora invisibile” Così afferma ELISABETTA RUSPINI in “ La libertà delle donne in Italia: la ricerca, i dati, le metodologie di analisi, giugno 2000, p. 6.

 

 

2. Alcuni indicatori di genere" che pongono in­terrogativi

 

     È proprio la letteratura scientifica sulla condizione femmini­le a mettere in evidenza come la natura dei problemi di povertà, disagio, esclusione sociale delle donne sia diversa da quella degli uomini. È diversa perché diversi sono i fattori ipotizzati che con­corrono direttamente a determinare gli stati di deprivazione.

Sono stati studiati in particolare alcuni fattori che, non solo in Italia, contraddistinguono la condizione femminile e la espon­gono a particolari rischi:

*      il tipo e il grado di dipendenza cui è sottoposta la donna. È un fattore importante del disagio sociale (sia come con­causa che come conseguenza), perché tende a far perdere non solo e non tanto il possesso di beni, ma la possibilità di gestirli e controllarli;

*      l'uso del tempo, sia come risorsa scarsamente disponibile per migliorare la qualità di vita, sia come succedersi di eventi - naturali e/o sociali - alcuni dei quali mettono mag­giormente a rischio il benessere della donna;

*      la disparità nella disponibilità di risorse socioeconomiche,specialmente nell'ambito del lavoro e della famiglia, che crea an­cora forti asimmetrie tra donne e uomini.

 

Alcune considerazioni su ciascuno di questi fattori possono far luce sulla peculiarità, ma anche sulla complessità dello Stu­dio del disagio sociale al femminile. Sembrano inoltre necessarie per collocare possibilmente senza troppe distorsioni il fenomeno nel contesto sociale e culturale che caratterizza il nostro paese, e che solo in parte lo accomuna a molti altri paesi.

 

3. La dipendenza economica e familiare

 

3.1 Dipendenze e discriminazioni nell'ambito occupazionale

 

Ritenere che oggi una caratteristica delle donne sia la dipen­denza economica sembra in contraddizione con le conquiste re­centi in tema di emancipazione. In effetti, in vari settori del so­ciale le donne hanno raggiunto grossi miglioramenti in termini di posizione e di protagonismo. E aumentato il tasso di occupa­zione femminile, sono aumentate le occupate in qualifiche elevate, le libere professioniste, le imprenditrici: tra il 1993 e il 1999 le dirigenti crescono di 5 punti percentuali, le impiegate di 2 punti e mezzo, le imprenditrici di 6 punti, soprattutto grazie all'ampliarsi del mercato del lavoro nel settore terziario. 10

 

Tab. 1 - Tassi di occupazione per classi di età e sesso. Anno 1999

 

 Classi di età

Sesso

 

 

M

F

Totale

 25-34

77,2

50,5

64,0

 35-44

91,5

54,5

73,1

 45-54

84,6

43,2

63,8

 55-64

41,2

15,0

27,6

 Totale

75,3

42,0

58,5

 

Fonte: Istat

 

Tuttavia, una lettura più dettagliata dell'occupazione lavora­tiva femminile fa scorgere da un lato il permanere di una situa­zione di notevole svantaggio rispetto agli uomini, dall'altro una più forte dipendenza dai mutamenti e dalle fluttuazioni del mer­cato del lavoro. Difatti, benché l'occupazione femminile sia au­mentata negli ultimi anni, nel 1999 il tasso di occupazione fem­minile ammontava a poco più della metà di quello maschile (42% rispetto al 75,3%), mentre in Europa saliva a più del 70% rispetto a quello maschile. Di contro, la disoccupazione femmi­nile in Italia superava dell'80% quella maschile, mentre in Euro­pa in media superava solo del 36% quella maschile. 11

Rispetto poi alle garanzie e alla stabilità del lavoro, è noto co­me in caso di crisi economica le donne siano le prime a perdere il posto di lavoro, specialmente se collocate ai livelli lavorativi più bassi; allo stesso tempo, la percentuale di donne collocate a livelli bassi è consistente. In effetti, se si esaminano i dati del censimento del 1991 elaborati da uno specialista dell'Irer, Giuseppe Barile, si riscontra che le donne sono in maggioranza in alcuni ambiti lavorativi specifici, tra cui l'insegnamento, i servizi personali e alle famiglie e i cosiddetti "impieghi non qualificati" nei servizi sanitari, turistici, di pulizia, ecc...12 C'è da aggiungere poi la nota difficoltà per le donne, soprattutto delle fasce centra­li di età e a livelli medio bassi di collocazione, di rientrare nel mondo del lavoro, magari quando non hanno più il pressante impegno di accudire a figli piccoli.

Ma ancora, bisogna considerare che l'occupazione della don­na ha caratteristiche strutturali molto diverse dall' occupazione maschile. Mentre quest'ultima prevede sostanzialmente diverse possibilità di lavoro in corrispondenza dei diversi titoli di studio, l'occupazione femminile con titoli di studio bassi è fortemente penalizzata, tant'è che la grande maggioranza di casalinghe sen­za lavoro esterno è sempre più rappresentata da donne con titoli di studio basso.

Il quadro si fa più drammatico se si considera quanto le don­ne siano impiegate nel sommerso, nel lavoro nero, anche a do­micilio: ovviamente non è possibile conoscerne in dettaglio l'en­tità e le caratteristiche di tale fenomeno, ma sono alquanto elo­quenti le notizie che di tanto in tanto trapelano da indagini di studiosi o inchieste di giornalisti, anche in zone affluenti d'Italia, come il Nordest. 13

Ma un altro dato va ad aumentare la contraddittorietà di que­sta situazione (e che ha il sapore della beffa): le discriminazioni osservate nel mondo del lavoro contrastano con l'investimento e la riuscita delle donne negli studi, che, negli ultimi anni, sono cresciuti più che proporzionalmente rispetto ai maschi. È infatti fortemente aumentata la propensione delle donne a proseguire gli studi superiori: nel 1997/9S, su 100 ragazze della stessa età, quelle iscritte all'Università sono risultate il 47% del totale, men­tre tra i ragazzi tale percentuale è pari al 37% (nel 1950/51 le stu­dentesse universitarie erano meno del 3% delle 19-23enni, ri­spetto all'S,5% dei coetanei). Inoltre, il rendimento femminile èdi fatto superiore a quello maschile. 14

    In definitiva si può affermare che le donne, a parità di condi­zioni degli uomini (o addirittura a migliori condizioni se si guar­da al titolo di studio), subiscono una maggiore dipendenza eco­nomica, essenzialmente a causa dell'organizzazione e delle tra­sformazioni nel mercato del lavoro, e delle peculiarità femminili (per esempio la maternità, oppure perché "si accontentano") che "autorizzano" il mercato a discriminare le donne.

 

                                   Tab. 2 - Tassi di scolarità per sesso e livello scolastico. Anni 1950­51/1997-98.

 

 

 

Studenti per 100 giovani

 Anni scolastici

 

di 21-23 anni

 

 

 

%

Variazione %,'

 

M

F

M

F

 1950-51

8,4

2,9

/

/

 1960-61

9,3

3,4

Il,7

18,4

 1970-71

20,2

12,6

115,9

265,5

 1980-81

27,6

21,4

36,8

70,3

 1990-91

29,9

30,3

8,4

41,6

 1997-98

38,5

47,5

28,8

56,8

 

Fonte: Istat

* Le variazioni percentuali sono calcolate rispetto ai tassi di scolarità del­l'anno scolastico indicato nella riga precedente.

 

10 ZIULIANI, A.. “Trasformazioni del vivere: il lavoratore delle donne”, intervento al convegno Lavorare e vivere con pari opportunità, Napoli 28 – 29 gennaio 2000.

11 Ivi, p. 2

12 VALENTINI, C., Le donne fanno paura, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 151.

13 E’ interessante l’excursus che fa Chiara Valentini in op. cit., p. 147 e sgg.

14 ZULIANI, A. op. cit., p. 1

 

3.2 La dipendenza nella dimensione familiare

 

      La situazione si fa ancor più complessa se ci si sposta dalla realtà del lavoro a quella della vita familiare, e al rapporto tra le due realtà che le stesse donne si trovano a gestire.

Che la donna oggi, nonostante l'emancipazione, sia forte­mente dipendente dalla famiglia, è da più parti affermato e di­mostrato. Senza addentrarsi in analisi della famiglia oggi (cfr. capitolo di P. Milani in questo stesso volume), si può innanzitutto affermare che la dipendenza economica nel lavoro va ad ac­centuare (anziché attenuare!) la dipendenza della donna nel­l'ambito familiare, a causa della particolare strutturazione della famiglia italiana. Nello specifico, la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro non ha cambiato in modo ap­propriato la distribuzione dei compiti familiari né l'approccio culturale ai ruoli di genere. Il lavoro familiare rimane ancora at­tribuito alla responsabilità femminile, indipendentemente dalla presenza di un impegno extra-domestico. 15

In altri termini, è vero che da un lato la famiglia "protegge" la donna nel caso di espulsione, o non accesso, o sotto-remunera­zione nel mondo del lavoro; ma allo stesso tempo è questa una protezione che la donna paga con un'altra dipendenza, quella dal marito-capofamiglia. Ed il lavoro domestico e di cura dei membri della famiglia (compreso il partner), che continua a gra­vare in massima parte sulla donna, contribuisce a salvaguardare più l'autonomia, il lavoro, la professionalità del capo famiglia, che rimane il titolare del reddito familiare; ma non contribuisce ad aumentare il benessere femminile, inteso non tanto in termi­ni monetari, ma come qualità di vita, possesso di beni, stato di salute, vita sociale, tempo libero, ecc.

È in questo meccanismo che si innesta la spirale precari età lavorativa-dipendenza familiare-maggiore precari età lavorativa. Difatti, nei casi in cui la disoccupazione o la precari età lavorati­va della donna la costringa ad una maggiore dipendenza econo­mica e psicologica dal capo famiglia (quindi meno vita sociale, meno tempo libero, ecc.), sarà ancor più difficile cercare e trova­re lavoro, ricadendo così in una più forte dipendenza familiare.

Gli stessi sistemi di welfare, strutturati su un modello "tradi­zionale" di famiglia, tendono ad incoraggiare e quindi a legitti­mare questa dipendenza delle donne dalla famiglia, in quanto ol­tre ad essere basati sul reddito familiare (che, appunto, può esse­re distribuito in modo molto ineguale tra i membri), condiziona­no gli aiuti alla possibilità che le donne forniscano alla famiglia i servizi di care necessari.

In questo senso i processi di dipendenza femminile si tradu­cono anche in dipendenza dal welfare, in quanto la carenza di servizi per la donna da un lato (ad esempio la carenza di asili nido...), e i criteri di distribuzione degli aiuti dall'altro, tendono a scoraggiare di fatto l'autonomia economica, professionale, lavo­rativa della donna come prezzo per la salvaguardia della stabilità familiare.

È evidente che questa situazione espone grandemente la donna a rischio di povertà nel momento in cui il capo famiglia, il per­cettore di reddito, viene a mancare: tanto maggiore è il livello di dipendenza, tanto maggiore sarà il grado di vulnerabilità. 16

 

 

15 ZULIANI, A. op. cit., p. 4.

16 RUSPINI, E., op., cit., p. 4.

 

­

4. L'uso del tempo

 

4.1 la "doppia presenza"

 

Il persistere, nonostante i mutamenti avvenuti nel senso del­l'emancipazione, di quella che è stata chiamata la "doppia pre­senza", caratterizza la maggior parte della vita delle donne. Esse si trovano a dover gestire, oltre al lavoro extra domestico, anche il lavoro familiare che non viene affatto alleggerito: gli impegni ed i tempi intra ed extra familiari sono spesso di difficile conci­liazione.

Dati interessanti sul tema dei tempi della donna emergono dal rapporto dell'ONU sullo sviluppo umano per la Conferenza di Pechino del 1995 (di cui peraltro sono state diffuse in Italia notizie molto scarse), oltre che da ulteriori studi realizzati su da­ti Istat. 17

Secondo questi contributi, la lavoratrice madre occupata ha mediamente un carico di lavoro di 13 ore e mezza al giorno, di cui 7 ore e un quarto dedicate al lavoro familiare. Invece, l'uomo occupa per la casa ed i figli circa l ora di tempo al giorno, e que­sto tempo non varia a seconda della presenza o meno di figli. È poi significativo osservare che, nel caso in cui l'uomo non ci sia più, il tempo di lavoro familiare della donna scende a 5 ore al giorno: sembra davvero che mentre l'uomo trae vantaggio dalla presenza di una partner, la donna si "avvantaggia" dall'assenza di un partner. 18

C'è anche da notare che le donne italiane sono quelle che in assoluto, rispetto ai paesi industrializzati, lavorano di più: le ore giornaliere totali superano del 28% quelle degli uomini, mentre negli altri paesi occidentali le donne lavorano complessivamente il 13% di più degli uomini.

Si tratta davvero di un fenomeno di ampia portata se si pensa al costante aumento del numero di coppie in cui tutti e due i co­niugi lavorano: l'indagine Multiscopo "Famiglia, soggetti sociali e condizioni dell'infanzia", svolta nel 1998 , mette in evidenza che dal 1993-94 al 1998, tra le coppie più giovani (con donne fino a 34 anni), quelle in cui tutti e due i partner lavorano raggiungono il 70,9% nel Nordest, il 67,5% nel Nordovest, il 50,5% nel Centro. È invece diminuita la quota di coppie con donna casalinga: da 31,9% a 27,1% in soli 4 anni.

 

Tab. 3 - Coppie per condizione dei partner e classe di età della donna. An­no 1998 (per 100 coppie con donna della stessa classe di età)

 

 

Lavorano

Lui lavora,

Lui lavora,

Lui

Altre

Totale

 

entrambi

lei casalinga

lei

disoccupato

condizioni

(in

 

 

 

disoccupata

lei lavora

 

migliaia)

 15 - 24

35,3

39,2

9,7

1,8

13,9

254

 25 - 34

48,7

36,6

6,3

1,8

6,7

2.709

 35 - 44

50,4

38,4

2,8

1,4

7,0

3.600

 45-54

30,8

34,0

0,8

0,9

33,5

3.170

 55 - 64

6,4

14,8

0,1

0,2

78,4

2.561

 65 - 74

0,9

2,6

-

-

96,4

1.852

 75 e più

0,2

0,6

-

-

99,2

541

 Totale

29,8

27,1

2,2

0,9

39,9

4.688

 

Fonte: Istat

 

Le ricerche dimostrano inoltre che il tempo meno "compri­mibile" è proprio quello del lavoro familiare. Quando ad esem­pio nasce un figlio, la donna attinge ulteriori tempi al lavoro (a volte compromettendo possibilità di carriera), al tempo libero, al tempo fisiologico (mangiare e dormire). Al contrario, per l'uomo il tempo è usato in modo estremamente più rigido: quello che ri­mane dal lavoro raramente viene utilizzato a vantaggio della fa­miglia, più facilmente va a vantaggio del tempo libero, anche se a tal proposito sembra che nelle giovani generazioni maschili stia avvenendo un'inversione di tendenza. Va anche sottolineato che il tempo del lavoro familiare va assumendo caratteristiche sempre più ampie e complesse, sia per il permanere più a lungo dei figli in famiglia, sia perché il moltiplicarsi dei bisogni pro­dotto dalla modernizzazione, va ad intrecciare, soprattutto per la donna, il suo ruolo tradizionale di "responsabile" del ménage familiare con la necessità di maggiori prestazioni e rapporti. Il risultato è quello di un sovraccarico di stress psichico e organizzativo per la donna. Nel quotidiano sforzo di conciliare tempi esterni e tempi interni alla vita familiare la donna lavoratrice madre si trova pressoché sola, non accompagnata da un contem­poraneo evolversi nei modelli culturali, nelle politiche del lavoro e della famiglia, nei sistemi di welfare.

La situazione riportata appare più drammatica in Italia che altrove. Oggi si parla infatti di "tripla presenza", laddove va am­pliandosi sempre più !'impegno della donna per la cura degli anziani. Si è calcolato che, mentre nei primi decenni del ventesimo secolo la donna italiana dedicava 19 anni della sua vita ad alle­vare i figli e 9 a curare genitori e suoceri, alla fine del ventesimo secolo il rapporto si è invertito: il lavoro di cura degli anziani as­sorbe 18 anni della vita, e quello per i figli si è ridotto a 17 anni.

 

 

17 Ci riferiamo al volumetto del 1994 Tempi diversi, a cura di Laura Sabbadi­ni e Rossella Palomba, basato su un'indagine multiscopo dell'ISTAT. C. Valenti­ni, in Le donne fanno paura, op. cit., nota 4, p. 66 precisa: "Il lavoro delle due stu­diose era basato su un'indagine multiscopo dell'ISTAT, la prima inchiesta italia­na sull'argomento condotta su scala nazionale e basata su un campione di quasi ventimila famiglie. Il volume, edito dal Dipartimento per l'informazione e l'edito­ria della Presidenza del consiglio, più volte esaurito e ristampato, non ha avuto una normale diffusione commerciale."

 

18 VALENTINI, c., op. cit., p. 57

 

4.2 Le conseguenze della scarsità del fattore tempo

Il problema del tempo attraversa la realtà femminile anche ri­spetto ai cosiddetti cicli di vita della famiglia. Proprio per quan­to detto finora, può accadere che una serie di problemi legati agli eventi che segnano il ciclo vitale delle famiglie e delle donne (perdita del lavoro, nascita di un figlio, allargamento della fami­glia, pensionamento, rottura della famiglia, malattie, ecc.), espongano più le donne che gli uomini a rischi di disagio; esse di fatti giocano un ruolo cruciale nel mobilitare risorse interne alla famiglia quando nascono problemi, nell'attingere a tempi e spazi ancora possibili arrivando a sottrarre tempi, spazi e consu­mi personali. Non a caso le ricerche rilevano che le donne risul­tano più esposte al rischio di deprivazione all'inizio e alla fine del ciclo di vita adulta, cioè quando sono giovani (probabilmen­te con figli minori a carico - conseguentemente penalizzate sot­to l'aspetto professionale - o vittime di una rottura familiare) o anziane. 19

Il tempo è una risorsa preziosa: consente rapporti, consente di dedicarsi ad una professione, consente spazi di libertà per sé... È una componente importante del benessere. Al contrario, la scarsità di tempo oltre un certo limite, impone di "rubare" tempi al lavoro per curare i figli, di "rubare" tempo alla famiglia per non interrompere la carriera lavorativa o professionale, di "rubare" tempo al lavoro e al resto della famiglia se vi è un membro ammalato o in difficoltà...

Lo stesso fenomeno della doppia e tripla presenza è essen­zialmente una questione di tempo: le donne imparano a gestire con flessibilità ed inventiva la complessità della compresenza di numerosi ruoli, anche se tutto ciò le espone maggiormente a ri­schi di deprivazione psicologica e sociale.

Generalmente il problema del tempo come fattore di rischio di povertà non viene utilizzato come indicatore nelle tradiziona­li ricerche sulla povertà in Italia, e questo tra l'altro è uno dei motivi della scarsa visibilità della povertà femminile. Soltanto ampliando il concetto tradizionale di povertà a fattori di depri­vazione extra-monetari (relazioni, svago, auto realizzazione pro­fessionale, autonomia, disponibilità di tempo, ecc.), è possibile approdare a misure più realistiche del fenomeno, evidenziando quell'insieme di pre-condizioni che spiegano l'emergere di sac­che - o di periodi più o meno prolungati - di povertà, di esclu­sione sociale, di disagio anche grave, cui risultano essere molto più esposte le donne che gli uomini.

 

19 RUSPINI, E., cit., p. 23.

 

5. Disparità delle opportunità

 

5.1 La percezione soggettiva della disparità

C'è da chiedersi se le caratteristiche descritte finora relative alla condizione femminile trovino le stesse donne in qualche mi­sura conniventi. La risposta non è facile, non ultimo perché an­che qui scarseggiano le ricerche.

Si è indagato ad esempio su come sentono, come vivono le donne alcuni aspetti della loro situazione. In particolare, se si considera il grado di soddisfazione per il lavoro extra-domestico delle donne fra i 20 e i 34 anni, sposate e con figli, risulta che il 45% è molto soddisfatto; mentre fra le casalinghe con lo stesso carico familiare la soddisfazione scende al 39%.20

Se ne ricava !'informazione che la conquista del lavoro è in­dubbiamente vissuta dalle donne come una cosa molto impor­tante e soddisfacente. Ma, allo stesso tempo, per quanto riguar­da invece la soddisfazione rispetto al tempo libero, il rapporto si inverte: è sensibilmente più alta la quantità di donne insoddi­sfatte tra le lavoratrici (il 53%) rispetto alle casalinghe (il 46%). In altri termini, le stesse donne avvertono il peso della "doppia presenza", ma sembrano impossibilitate a fare diversamente.

Chiara Valentini, dopo aver esaminato una ricerca condotta da Franca Bimbi nel 1990 su un campione di genitori emiliani, arriva ad affermare che esiste una specie di "senso di ineluttabi­lità" con cui in Italia vengono vissuti i ruoli maschili e femminili, a tutti i livelli sociali. Vi è come una sorta di "tacita accetta­zione", da parte tanto femminile che maschile, di una situazione che tiene insieme, pur a costi molto alti, strutture familiari tradi­zionali e innovazioni della modernità. Le bambine continuano ad essere socializzate ai ruoli domestici molto più dei maschi, anche se i dati ci dicono che le bambine leggono spontaneamen­te più dei maschi e al contrario di loro preferiscono i libri ai fu­metti. Ascoltano più musica e poi pensano di più. 21

Si potrebbe perfino aggiungere che anche la conquistata pa­rità fra i coniugi sul piano culturale vada spesa più a far funzio­nare meglio la famiglia, o al massimo a gestire più oculatamente la "doppia presenza", che non per un'autorealizzazione sociale e professionale della donna: colpisce difatti che, secondo dati Istat, nel periodo 1993-1998, le coppie giovani hanno visto un in­cremento sia della quota di donne più istruite del partner (dal 23,6 al 26,5% per le donne da 25 a 34 anni), sia di quelle con pa­ri istruzione (dal 53,3 al 54,3% per le donne della stessa età).

Viene da pensare che, diversamente da quanto succedeva nei decenni scorsi, quando i movimenti e le associazioni delle donne rivendicavano un protagonismo che poteva crescere man mano che cresceva la loro stessa consapevolezza e la loro forza di con­vincimento, oggi tutto ciò non è più sufficiente. In altre parole, non possono essere le donne da sole a premere per la costruzio­ne di migliori equilibri, in quanto il problema delle disugua­glianze di genere è un problema dell'intera collettività, che deve impegnarsi nella riduzione delle asimmetrie. 22

 

Tab. 4 - Coppie per titolo di studio dei partner e classe di età della donna. Anno 1998 (per 100 coppie con donna della stessa classe di età)

 

 

Titolo di studio della donna

 Classi di età della donna

Più alto dell'uomo

Uguale all'uomo

Più basso

Totale

 

 

dell'uomo

(in migliaia)

 15 - 24

24,2

59,3

16,6

254

 25 - 34

26,5

54,3

19,2

2.709

 35 - 44

25.1

49,4

25,5

3.600

 45 - 54

18,3

52,7

29,0

3.170

 55 - 64

11,8

60,3

27,9

2.561

 65 - 74

10,0

61,5

28,5

1.852

 75 e più

10,7

59,7

29,6

541

 Totale

19,0

55,0

25,9

14.688

 

Fonte:Istat

 

 

20 ZULIANI, A., op. cit., p.5

21 VALENTINI, c., op. cit.., p.62

22 ZULIANI, A., op. cit., p. 5.

 

 

5.2 Alcuni dati sulla disparità delle risorse

 

Proprio per questo motivo, sono sempre più numerosi gli stu­di incentrati sull'effettiva disponibilità di risorse per gli uomini e per le donne.

Un primo dato "strutturale" che colpisce, e che all'epoca era stato sottaciuto dalla stampa, emerge dal citato rapporto dell'O­NU a Pechino nel 1995. È stato quantificato il contributo econo­mico delle donne che deriva da quel "lavoro invisibile" che è il la­voro domestico, a fronte della remunerazione che le stesse don­ne ne ricevono.

A livello mondiale il lavoro domestico produceva 11.000 mi­liardi di dollari, e costituiva i 2/3 dell'intero lavoro femminile. In Italia, nello stesso periodo di riferimento dell'indagine ONU, es­so costituiva 1'80% dell'intero lavoro delle italiane, mentre la quota di lavoro retribuito era circa il 20% di tutto il loro lavoro. Normalmente le statistiche non rilevano in questi termini il lavo­ro domestico, proprio perché "invisibile", ma il dossier di Pechi­no mette il dito sulla piaga della ineguale distribuzione del lavo­ro remunerato tra i sessi.

Altre ricerche mettono in evidenza la disparità di opportunità lavorative. Il fenomeno non si materializza più nel senso di un "divieto di accesso" alle donne in settori lavorativi tradizional­mente maschili (le donne hanno accesso anche alla polizia, alla magistratura, ecc.), quanto piuttosto in una forma di "segrega­zione occupazionale". Quasi per una legge non scritta, le donne vengono ancora occupate in grande prevalenza in settori tradi­zionalmente femminili (per esempio nell'industria tessile, nei la­vori di servizio...), mentre negli altri settori tendono ad essere re­legate nei lavori più ripetitivi e subordinati. La "scalata" ai verti­ci delle responsabilità nel mondo del lavoro rimane per le donne quasi preclusa, ed eventualmente conquistata a costi altissimi. Infatti, i dati dimostrano che nelle situazioni di crisi economica e di aumento della disoccupazione, le prime ad essere colpite so­no proprio le donne.

E importante sottolineare che non si tratta di una discrimina­zione che esclude formalmente la donna da certi luoghi, ma di qualcosa di più sottile e meno immediatamente visibile, descrivi­bile nei termini di una forma di subalternità della donna all'in­terno di ciascun luogo lavorativo, una specie di ghettizzazione delle donne. 23 Paradossalmente, tale fenomeno è andato aumentando proprio da quando è cresciuta l'occupazione femminile. Ne è una riprova innanzi tutto il fatto che generalmente, a parità di collocazione lavorativa, le donne hanno uno stipendio inferio­re a quello degli uomini. Ad esempio nel settore tessile (pretta­mente femminile) lo stipendio medio è inferiore del 25% rispetto a quello dei metalmeccanici. Dai dati dell'Archivio lavoratori di­pendenti dell'INPS del 1994, si riscontra che le impiegate perce­piscono in media uno stipendio inferiore del 30% rispetto agli impiegati maschi, e che nei livelli più bassi del terziario privato si arriva al 60% del salario maschile.

Si potrebbe dire che, rispetto agli Stati Uniti, dove le donne percepiscono in media il 40% in meno degli uomini, la situazio­ne europea - e ancor più italiana - è molto migliore, anche se fin dagli anni ottanta, e ancor più lungo gli anni novanta, anche in Italia il gap è andato fortemente aumentando, al punto che è sta­to dimostrato che nella grande maggioranza dei casi le differen­ze retributive aumentano all'aumentare degli stipendio.24

Si tratta di un fenomeno esteso a livello mondiale, ampia­mente illustrato nella conferenza di Pechino. Era allora emerso che in Italia il reddito da lavoro percepito dalle donne era il 22% del totale; gli uomini percepivano il restante 78% (a fronte di un'occupazione femminile che ad esempio nel 1998 rappresenta­va il 37,3% rispetto al totale degli occupati).

Diverse sono le interpretazioni di questo fenomeno di discri­minazione: alcune studiose, come Chiara Saraceno, sostengono che si tratta d/un retaggio storico che vedeva il lavoro femmini­le come qualcosa di aggiuntivo. Secondo altre interpretazioni, lo stipendio femminile viene considerato solo marginale rispetto al principale compito di sostentamento della famiglia che spetta al capofamiglia maschio. In ogni caso, la realtà è che proprio colo­ro che sono gravate dalla "doppia" (se non "tripla") presenza, vengono ulteriormente penalizzate da una minore remunerazio­ne dal lavoro extra-domestico.

Anche in campo pensionistico sussistono analoghe discrimi­nazioni. Da un'indagine svolta nel 1996 a Roma e provincia sul Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti emerge una realtà pe­sante. Se infatti la pensione media maschile è di circa l milione e 380mila lire al mese, quella femminile è solo di 784mila lire, come a dire poco più della metà. 25

Nell' economia di questo lavoro si può solo accennare ad un'altra grave disparità che riguarda le donne nell'ambito della politica. Dopo l'impennata della quota di elette donne nelle votazioni del 1994 (arrivata al 15% delle elette alla Camera), la per­centuale è andata velocemente decrescendo (teniamo presente che le elettrici sono circa il 52% del totale!), e permangono oggi forti discriminazioni a vari livelli nei confronti delle donne che "fanno politica". 26

In sintesi, nel nostro paese la parità non si può dire né man­cata ma neanche raggiunta: è senz'altro raggiunta per quanto ri­guarda il superamento della discriminazione nella scuola, è ab­bastanza (a volte scarsamente) raggiunta nell'accesso al mercato del lavoro, è affermata ma molto scarsamente raggiunta nella carriera fino agli alti livelli, compresa la politica, non è raggiun­ta nella retribuzione e tanto meno nella distribuzione fra i sessi dei compiti di cura familiare. Come si vedrà più avanti, perfino la nuova norma che consente anche all'uomo di assentarsi dal la­voro per accudire i bambini piccoli, risulta essere tra le più inap­plicate.

Forse l'aspetto più drammatico è che questa situazione, che all' estero continua ad essere aspramente dibattuta, in Italia è perfino poco conosciuta. In un clima tutto italiano di contraddi­zioni, di grosse conquiste nel campo della proclamazione di di­ritti e insieme di inerzie istituzionali e culturali nel realizzarli, si colloca la legge n. 125/91 "Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna sul lavoro" , ritenuta tra le più avanzate in Europa. È questa, tra l'altro, la legge che ha istituito i Comita­ti Pari Opportunità in varie province e regioni italiane, coordina­ti dal Comitato presso il Ministero del Lavoro. Ma la mancata dotazione degli strumenti necessari per farla funzionare (procedure, finanziamenti...), oltre che le molte resistenze (si pensi al­l'opposizione della Confindustria), l'hanno resa una delle tante leggi inattuate del nostro ordinamento. 27 E tuttavia, là dove fun­ziona, si è tradotta in una presenza significativa (lo vedremo a proposito delle molestie nei luoghi di lavoro) che potrebbe prelu­dere a migliori prospettive.

 

 

23 VALENTINI, c., in op. cit. p. 93, cita una frase significativa di S. Welby: "[...] il patriarcato odierno  non esclude le donne da certi luoghi, ma piuttosto le rende subordinate in ciascuno di essi" (WELBY, S., "Theorizing Patriarchy", in Socio­logy, nn. 213/214, 1989).

 

24 Cfr. ALTIERI, G., " Redditi da lavoro delle donne: lontano dalla parità", in Polis, n. 6/92, citato in C. Valentini, op. cit., p. 108.

      

25 V ALENTINI, c., op. cit., p. 110.

 

26 Per un quadro d'insieme delle difficoltà e contraddizioni in questo ambito cfr. VALENTINI, c., op. cit., in particolare il cap. lO.

 

27 Anche qui il contributo di VALENTINI, C. (op. cit., p. 112) ci è utile. Osserva che, mentre ad esempio strutture tipo l'Antitrust o il Garante per l'editoria sono ricche di staff e di finanziamenti, “Organismo che dovrebbe vigilare sulle ingiu­stizie di genere è al lumicino, installato in due stanzette del ministero del Lavoro con non più di due o tre segretarie. Fare la commissaria, sia al centro che in pe­riferia, vuoi dire imbarcarsi in  una specie di lavoro volontario, senza nemme­no il rimborso delle spese di viaggio e senza il diritto all'aspettativa rispetto alla propria attività principale."

 

 

 

5.3 Disparità e propensione alla natalità

 

Un ultimo cenno va fatto, sempre a proposito di pari - o me­no - disponibilità di opportunità socioeconomiche tra i sessi, al­la questione odierna della denatalità.

Benché siano varie e diverse le interpretazioni relative al calo delle nascite in Italia, non si può negare che tale fenomeno sia iniziato a metà degli anni settanta, proprio in coincidenza con l'entrata delle donne nel mondo del lavoro. Al di là delle posizio­ni ideologiche (alcune arrivano ad attribuire il fenomeno a "fri­volezza" o a "smania di emancipazione" della donna), le statisti­che mettono in luce aspetti del fenomeno che fanno riflettere.

Ad esempio, dagli studi sui tempi delle donne (precedente­mente citati) emerge che solo le donne senza figli riescono ad avere un tempo libero paragona bile a quello maschile; mentre anche in Spagna, che è uno dei paesi europei a più bassa nata­lità, il lavoro domestico delle donne, sia occupate che non, è al­tissimo, in Svezia, che ha il tasso di occupazione femminile più alto del mondo, e in cui i ruoli fra i due sessi sono molto più pa­ritari e il lavoro domestico è equamente diviso, il tasso di natalità è in crescita da oltre dieci anni, ed ha già raggiunto i 2,02 bambini per donna (contro 1'1,3 in Italia nel 1987, che porterà nel 1993 al primo saldo negativo tra nascite e morti).

 

 

Tab. 5 - Bilancio demografico anno 2000 e popolazione residente per ses­so al31 Dicembre 2000

 

 

Maschi

Femmine

Totale

 Popolazione

 

 

 

 residente

28.003.312

29.676.583

57.679.895

 al I o gennaio

 

 

 

 Nati vivi

279.953

263.086

543.039

 Morti

280.671

279.570

560.241

 Saldo naturale

-718

-16484

-17202

 Iscritti

807.712

764.900

1.572.612

 Cancellati

715.449

675.839

1.391.288

 Saldo migratorio

92.263

89.061

181.324

 Popolazione

 

 

 

 residente

28.094.857

29.749.160

57.844.017

 Al l3I Dicembre

 

 

 

 Unità in più/meno

O

O

O

 dovute a variazioni

 territoriali

 

 

 

 Famiglie anagrafiche

 

22.226.115

 

 Fonte:Istat

 

Sembra in ultima analisi che la dipendenza, la scarsità di tempo, la disparità di opportunità si intreccino inestricabilmen­te nella vita delle donne, secondo logiche sostanzialmente analo­ghe sia dentro che fuori della famiglia. Le funzioni di mediazio­ne tra risorse disponibili cui quest'ultima assolve grazie soprat­tutto al contributo della donna, non evitano la riproduzione di disuguaglianze (anzi, a volte le accentuano) che vanno a gravare più sulla donna. Esiste nella famiglia italiana più che altrove, una diseguale distribuzione delle risorse, di cui, tra l'altro, è mol­to difficile misurare l'entità, in quanto le statistiche ufficiali tra­scurano ciò che avviene a livello individuale nelle unità familiari. In questo modo, la povertà e il disagio femminile diventano an­che invisibili, salvo verificarne poi gli effetti nelle cifre delle statistiche sulla povertà.

È come se successivamente alle conquiste emancipa tori e del­le donne maturate a partire dagli anni Settanta (in campo di nuovo diritto di famiglia, istituzione dei consultori familiari, maggior protagonismo e autonomia di scelta in vari campi) non si abbia avuto la forza di innescare meccanismi di cambiamento culturale generale.

Per concludere, credo risulti chiaro come la sperequazione di opportunità socio economiche crei le pre-condizioni per processi di depauperazione anche grave per le donne; processi che si ri­solvono sia in comportamenti di allarme sociale, quali la denata­lità, sia in maggiori rischi per le donne di cadere in situazioni di disagio anche gravi in caso di rottura del nucleo familiare, di pensionamento, di disoccupazione, ecc.

 

6. Tanti tipi di donne in difficoltà

 

6.1 Premessa concettuale e di metodo

 

Finora si è cercato di rilevare i principali fattori che creano condizioni soggettive e oggettive tali da esporre le donne a vari tipi di rischi. Si può anche pensare che l'ampiezza e la multifor­mità dei problemi connessi alla condizione femminile possano produrre forme diversificate di sofferenza, anche diverse da quelli che sono i canoni noti e tradizionali che definiscono le si­tuazioni di miseria o di povertà. Si è anche affermato che l'espo­sizione a certi rischi di disagio è maggiore per le donne rispetto agli uomini, anche se non siamo stati in grado di quantificare l'effettivo disagio, né dimostrato quanto e a quali condizioni il disagio sia maggiore o più grave per le donne.

Capacità delle statistiche ufficiali non consente grandi ap­profondimenti su quella che viene chiamata "povertà al femmi­nile", nel senso che essa non è riducibile alla verifica della quan­tità di donne definite povere, o alla percentuale di donne che si rivolgono ai servizi, ma necessita, per essere compresa, di inda­gini capaci di svelare la natura di genere del fenomeno. In altri termini, occorre contestualizzare le forme di disagio femminile in rapporto ai fattori di cui abbiamo parlato, che chiamano in causa la realtà delle famiglie, delle istituzioni, del mercato, della cultura in cui il disagio femminile si sviluppa e prende forma, perché è a questo livello che si colloca la radice di quei processi di disuguaglianza che possono anche produrre povertà.

Sono comunque significativi gli sforzi finora condotti in pro­posito da alcune studiose che, sia rielaborando dati statistici di­sponibili in modo aggregato, sia conducendo limitate indagini mirate, consentono di cominciare a delineare percorsi di depau­peramento e situazioni di difficoltà specifici delle donne. Il ma­teriale perciò di cui disponiamo si presta a tracciare alcune ca­ratteristiche quantitative e qualitative di donne in difficoltà, an­che se incomplete o parziali, ma sicuramente indicative della fi­sionomia del disagio sociale oggi.

Inoltre, per tener fede alla multiformità del disagio femmini­le, sembra più agevole - solo per motivi di chiarezza dell'analisi - distinguere gli esiti di "povertà" delle donne da altri esiti della disuguaglianza, quali la violenza e le molestie alle donne, la soli­tudine, l'esclusione sociale, ecc.

Si possono così delineare una serie di "ideaI-tipi" di donne, definiti in base alla prevalenza di certi situazioni di difficoltà e di contesto, ben sapendo che vi sono spesso dei fattori che accomu­nano i diversi tipi considerati.

Si prenderanno in considerazione le seguenti "figure" di don­ne: la donna povera, la madre sola, la donna violata, la donna prostituita.

6.2 La donna povera

6.2.1 Quale povertà, e come rilevarla?

Il profilo che si vorrebbe delineare di "donna povera" è forse il più composito tra quelli scelti, nel senso che comprende tanti tipi di situazioni: può trattarsi della donna in famiglia oppure so­la, sposata o separata/divorziata o vedova o nubile, giovane o an­ziana, con o senza figli. Si può ipotizzare che ciascuna di queste diverse condizioni sia accompagnata da forme diverse di po­vertà, che quindi si cercherà di mettere in rilievo.

Certamente è prioritario definire che cosa intendiamo qui per "povertà". L'abbondante letteratura anche italiana in tema di povertà mette molto in evidenza le difficoltà di definizione di que­sto concetto, specialmente quando esso debba essere tradotto in variabili per poterne misurare l'entità, la natura, le forme, ecc. È oggi abbastanza acquisito che la povertà non si esaurisce nella carenza di risorse economico-monetarie necessarie a soddisfare i bisogni ritenuti fondamentali, in quanto altre risorse non mo­netarie contribuiscono in modo significativo al benessere delle persone e delle famiglie. Basti pensare a concetti come "qualità della vita", qualità dell'abitare, dell'alimentazione, ecc., al pos­sesso di beni di consumo o strumentali, alla disponibilità di ser­vizi, allo stato di salute, al livello di istruzione, all'accesso ad at­tività e relazioni sociali, alla disponibilità di tempo libero e per sé, ecc.

Se il solo utilizzo di variabili monetarie può creare problemi di misurazione realistica del fenomeno, ancor più problematico può diventare l'uso di indicatori non monetari, quantitativi e qualitativi, che siano sufficientemente validi e attendibili.

Sotto questo profilo, le ricerche classiche offrono scarse pos­sibilità di rilevare la fisionomia della povertà femminile, al pun­to che in alcune situazioni tali studi tendono ad occultare la pre­senza del fenomeno. Ad esempio, di norma il reddito calcolato è quello familiare; sono invece rarissimi, se non assenti in Italia, gli studi sulla povertà che assumono come livello di analisi gli in­dividui (anziché le famiglie), indagando anche come sono distri­buiti l'acquisizione, l'accesso, l'utilizzo delle risorse all'interno della famiglia, mentre, ad esempio, è noto come siano spesso le donne a proteggere i membri della famiglia dai rischi di povertà, rinunciando a soddisfare molti dei propri bisogni (e così ri­schiando di diventare povere in famiglie che non sono povere).

Inoltre, tra le dimensioni che normalmente non vengono pre­se in considerazione nelle ricerche sulla povertà, la variabile "tempo" è cruciale per le donne. Per quelle maggiormente grava­te da carichi familiari e che stanno alla base della piramide so­ciale, non c'è nemmeno il tempo ad esempio per il lavoro; o co­munque la completa mancanza di tempo per sé o per avere rap­porti sociali, può a lungo andare provocare disagi anche gravi sul piano psicofisico.

Un'ultima annotazione di carattere metodologico, che contri­buisce a rendere poco conoscibile il fenomeno della povertà al femminile, riguarda la carenza di indagini che affrontino in mo­do dinamico la povertà. I processi di depauperamento difatti col­piscono particolarmente le donne in determinati momenti o eventi del ciclo familiare (per esempio più all'inizio e alla fine), o in coincidenza di crisi economiche o di rotture familiari.

È importante infine sottolineare che la portata di questi limi­ti metodologici e di ricerca scientifica non ha effetti solo sul pia­no conoscitivo, ma impedisce l'attivazione di politiche di rispo­sta sociale aderenti alla realtà ed efficaci per combattere la po­vertà.

 

6.2.2 I dati disponibili

Come più volte sottolineato, le ricerche ufficiali non penetra­no la fisionomia della povertà al femminile. Presentano tuttavia dei dati più di "scenario", in cui la povertà è disegnata avendo come unità di analisi la famiglia con alcune elaborazioni statisti­che che fanno intravedere la variabile femminile, dati che co­munque sono significativi per collocare il fenomeno.

Ciò che appena si intravede dai dati ufficiali è che la maggior incidenza, in generale, di famiglie povere con determinate carat­teristiche (numerosità, disoccupazione, monogenitorialità, ecc.), vede spesso protagoniste le donne. In effetti, esaminando i dati dell'Indagine Multiscopo "Famiglia, soggetti sociali e condizioni dell'infanzia" del 1998, si ricavano dei dati interessanti per quan­to riguarda la povertà delle donne.

Ad esempio, 1'84% di tutti i nuclei monogenitoriali è costitui­to dalla sola madre, anche se non sappiamo quanti tra questi nu­clei siano poveri. Altrettanto si può dire per le persone che vivo­no sole, e soprattutto anziane, oggi in aumento (il 56% delle per­sone sole in Italia è costituita da anziani, e di questi il 66% è co­stituito da donne). Le donne anziane sole con più di 65 anni rap­presentano il 37% delle donne della stessa classe di età, contro 1'11 % tra gli anziani maschi; e, poiché il 79% di queste donne possiede al massimo la licenza elementare, il 47% risulta ritirata dal lavoro e il 24% sono casalinghe, è evidente la maggior espo­sizione di queste donne al rischio di povertà.

Naturalmente, la maggiore speranza di vita delle donne ri­spetto a quella degli uomini e il conseguente sovradimensiona­mento di anziane sole potrebbe spiegare la maggiore incidenza delle donne nella quota di persone sole povere. Inoltre, dato che le donne più difficilmente degli uomini ricostituiscono una fami­glia dopo la separazione o il divorzio (sia perché più frequente­mente i figli vengono affidati alle madri, e quindi hanno più dif­ficoltà a vivere con un nuovo partner, sia perché l'età relativa­mente avanzata in cui si divorzia sfavorisce maggiormente le donne), le donne separate e divorziate sono a più alto rischio di povertà dei separati e divorziati.

 

6.2.3 "Dentro" il fenomeno: qualche spiegazione

Gli studi a disposizione fanno emergere un profilo di povertà delle donne che, letto con un approccio dinamico, si caratterizza non tanto come condizione permanente, ma come una serie di percorsi ad intervalli temporali, diversi dalla povertà maschile, nel senso che sono percorsi più prolungati e più frequenti di quelli degli uomini (anche da qui la maggiore vulnerabilità delle donne).

Ad esempio, da una ricerca condotta da Francesca Zayczyk con il Dipartimento di Sociologia dell'Università di Milano, risul­ta che nel Nord Italia le famiglie povere con a capo una donna so­no il doppio di quelle con un capo famiglia uomo. Inoltre, il dato forse più significativo è che vivere sola, per una donna, comporta un rischio di povertà doppio rispetto a quello di un uomo.28

Nel Meridione d'Italia, invece, sarebbero più esposte al ri­schio di povertà le casalinghe, essendo più bassa l'occupazione lavorativa femminile, maggiore !'impegno delle donne nella cura familiare e maggiore la dipendenza dal marito. Emergono inol­tre dalle ricerche una serie di caratterizzazioni legate a specifi­che situazioni o eventi, rispetto ai quali le donne risultano molto più povere - o a rischio di povertà - degli uomini. Si tratta in particolare di madri sole (cfr. prossimo paragrafo), donne anzia­ne sole non completamente autosufficienti, donne disoccupate, donne casalinghe in famiglie con un solo percettore di reddito, donne in famiglie con grandi problemi.

 

 

28 VALENTINI, C., op.. cit., p. 109-110

 

 

6.2.4 Le anziane sole

Come già detto, le caratteristiche demografiche del nostro paese ed i mutamenti avvenuti negli ultimi anni hanno compor­tato un grosso aumento di anziane sole, specialmente vedove (per la minore speranza di vita degli uomini), molte delle quali possono vivere anche dignitosamente per l'estendersi della co­pertura previdenziale. Tra le donne anziane, sono quindi mag­giormente a rischio di povertà quelle molto anziane, titolari di pensione sociale o di reversibilità o di pensioni minime (le don­ne sono titolari di circa 1'80% delle pensioni sociali e di reversi­bilità). Nel 1996 è stato rilevato, sul Fondo pensioni dei lavorato­ri dipendenti, che a Roma e provincia la pensione media delle donne era circa metà di quella degli uomini (784.000 lire, contro 1 milione e 380.000 lire); ugualmente per le pensioni sociali o di reversibilità: 576.000 lire per le donne, 811.000 lire per gli uomi­ni. È chiaro che in questi casi si tratta di povertà ormai concla­mata. 29

L'esiguità delle pensioni delle donne va anche letta come con­seguenza di quanto illustrato nei primi paragrafi di questo scrit­to: le varie difficoltà di accesso e di carriera nel mondo del lavo­ro, le interruzioni dovute ai carichi familiari, le retribuzioni infe­riori a quelle degli uomini, non possono che preludere, più facil­mente che per gli uomini, a percorsi di impoverimento. Potrebbe essere "consolante" osservare come le donne anziane di oggi non hanno lavorato o non hanno potuto beneficiare appieno delle possibilità di acquisire titoli di studio superiori. D'altra parte però continuiamo a constatare che troppo spesso oggi il livello occupazionale femminile non corrisponde al livello di scolarità acquisito, e comunque non è dato sapere cosa succederà fra qualche decennio, quando l'invecchiamento sarà maggiore, sul fronte delle modificazioni familiari, del sistema di welfare e pen­sionistico.

La situazione delle donne anziane povere diventa alquanto pesante per l'incidenza di molti altri fattori che minano la loro qualità di vita. Per le anziane sole sono in genere negativi tutti gli indicatori della qualità dell'abitazione: per il 6,5% delle anziane l'abitazione versa in cattive condizioni, ma per le anziane sole si sale al 9%; il 17,4% delle anziane sole non ha il telefono, proprio quando sarebbe più indispensabile che per altri. Con l'aumenta­re dell' età aumentano le malattie cronico-degenerative, ma so­prattutto crescono le disabilità che, come è noto, riducendo le capacità funzionali, tendono sempre più a ridurre l'autonomia, la vita di relazione, aggravano il senso di solitudine. La disabi­lità, ad esempio, secondo l'Istat, colpisce in generale la popola­zione anziana per il 9% nell'età 65-74 anni, ma cresce al 21 % nel­l'età 75-79 anni, e al 47% oltre gli 80 anni. Ed è stato anche cal­colato che le condizioni di salute e di autosufficienza sono peg­giori in presenza di livelli di istruzione più bassi.

Ma all'interno della categoria "anziane sole" vi sono alcuni gruppi ancora più a rischio: normalmente sono le nubili e le se­parate/ divorziate, quelle insomma che non hanno mai avuto, o non hanno da molto tempo, un soggetto economicamente forte che le tuteli. Queste donne hanno più spesso delle altre redditi modesti, vivono più spesso in affitto, in case molto piccole e sen­za servizi interni, dando più spesso valutazioni negative delle proprie condizioni economiche. 30

Confrontando queste con le vedove, a parità di assenza di ti­tolo di studio, risulta che non ha il telefono il 43,7% (contro il 24,4% delle vedove); non ha riscaldamento il 32,4% (contro il 13,7% delle vedove). Un altro "vantaggio" delle vedove risiede nella pensione di reversibilità che, anche se mediamente di im­porto minore rispetto alla pensione di anzianità o di vecchiaia, è comunque superiore di quella ottenuta dalle donne, a parità di collocazione sociale, mediante il proprio lavoro.

Un ultimo cenno va fatto alle conseguenze più frequenti della situazione di solitudine al femminile. Laddove esiste la presenza e la disponibilità di familiari e parenti, i costi - non solo econo­mici - dell'accudimento si ripercuotono nelle famiglie provocan­do ulteriori problemi. E in questi casi di solito è nuovamente chiamata in causa la donna, divisa tra figli, casa, marito, lavoro, e genitori o suoceri anziani, e sarà una donna sempre più anzia­na, quasi a perpetuare quella catena che è di solidarietà ma an­che di accumulo e perpetuazione di stati di disagio. 31

Ma anche tra le donne lavoratrici sono presenti rischi di po­vertà, anche se su questo aspetto sono pochissime le informa­zioni disponibili. Alcuni studi dimostrano come siano più a ri­schio le donne del Sud, sia a causa della maggiore disoccupa­zione giovanile e adulta, sia per la maggior frequenza di fami­glie numerose, sia anche per una minor protezione da parte del sistema di welfare. Difatti, nel 1990 al Sud le coppie con mari­to occupato e moglie casalinga rappresentavano il 44% di tutte le coppie, mentre al Centro-Nord erano pari al 32%. E le giova­ni coppie meridionali (15-24 anni) con marito e moglie occupa­ti erano il 12%, mentre al Centro-Nord erano quasi la metà del­le coppie (46%). 32

Ciò significa che il maggior rischio di disoccupazione dei ma­schi al Sud, spesso unici percettori di reddito familiare, espone automaticamente a rischio di povertà !'intero nucleo, quindi an­che le mogli casalinghe, e ancor più in caso di rottura del matri­monio. Ciò è sicuramente aggravato da una più radicata cultura di dipendenza femminile dalla famiglia e dal "capofamiglia", tant'è che, viceversa, al Nord è molto più alta la percentuale di donne non sposate. D'altra parte, le probabilità di trovare lavoro per le donne del Sud, in particolare con basso livello di scolariz­zazione, sono molto inferiori di quelle delle donne del Nord: al Sud infatti è più difficile l'accesso nel cosiddetto "terziario pove­ro", perché rimane occupato dagli uomini, diversamente dal Nord, dove per i maschi questi posti di lavoro sono solo di tran­sito in vista di migliori opportunità

 

 

29 VALENTINI, C. op. cit., 110.

 

30 FACCHINI, A., Pluralità e mutamento delle condizioni economiche degli anzia­ni, in Le povertà nel Veneto del benessere, Atti Convegno del 19 febbraio 2000, Ve­nezia, a cura della Fondazione Corazzin (non pubblicati), p. 18.

 

31 Il Rapporto annuale La situazione del paese 1999 dell'Istat disegna la 'non­na tipo'; "è nata nel 1934, cioè ha più di 65 anni, ha ancora un genitore molto an­ziano, mentre la figlia o la nuora, al lavoro in un caso su due, hanno bisogno di lei per la cura e l'affidamento dei figli." (GRUPPO MELE, Annuario..., op. cit., p. 662).

 

32 ISTAT, Indagine Multiscopo sulle famiglie. Anni 1987-91. Aspetti sulla condi­zione femminile: istruzione, lavoro e famiglia, Roma 1994.

 

 

6.2.5 Quando si intrecciano povertà-salute-emarginazione

Anche se le donne vivono di più, le specifiche patologie cui sono più soggette costituiscono spesso sia causa che conse­guenza di stati di deprivazione anche economica. Varie ricer­che mettono in evidenza come il combinarsi di situazioni fami­liari difficili, di precarietà economica, o di stati di solitudine o di grande stress, coincidono spesso, nelle donne, con patologie depressive.

La depressione, molto più frequente nelle donne che negli uomini, non trova esauriente spiegazione nel diverso metaboli­smo femminile, mentre si accompagna molto spesso a situazio­ni contrassegnate da un ruolo della donna di tipo "tradiziona­le" (moglie casalinga e madre, con marito che non aiuta in ca­sa) e con basso livello di istruzione. La depressione è spesso l'e­sito di vite molto stressanti e di situazioni prolungate pesanti (figli in difficoltà, solitudine nella cura dei figli, presenza anche di anziani, disabili, malati in famiglia, traumi subiti nell'infan­zia). C'è anche da aggiungere che alcune malattie degenerative, quali l'artrosi, l'artrite, l'osteoporosi, colpiscono maggiormente le donne, riducendo anche pesantemente la mobilità, la funzio­nalità, la possibilità di relazioni sociali, aggravando gli stati di povertà.

Per entrambi i sessi, quando la povertà si intreccia con eventi personali e/o sociali molto problematici (disoccupazio­ne, perdita dell'abitazione, tossicodipendenza-alcolismo, soli­tudine, mancanza di reti familiari di protezione, necessità di accudire figli disabili senza supporti del welfare, ecc.), si inne­sca con facilità quello che è stato chiamato "il circolo vizioso della povertà"

Tuttavia, mentre per gli uomini il percorso è del tipo: perdita dell'occupazione ~ possibile caduta in stati di dipendenza (dro­ga o alcool) ~ perdita dell'abitazione, per la donna prevalgono come fattori scatenanti situazioni relazionali e familiari (vedo­vanza, separazione, divorzio), di malattie degenerative, di malat­tie psichiche. Da qui è facile l'entrata nel circuito dell'emargina­zione, che invece, per gli uomini, pare più legata, oltre che alla disoccupazione, al ricorso alla droga, ad esperienze carcerarie (Cfr. le osservazioni di Walter Nanni sul fenomeno dell'accatto­naggio, in questo stesso volume).

Sembra a questo proposito importante sottolineare che, se l'emarginazione è oggi correlata con il dissolversi delle reti di vi­cinato, di solidarietà familiari, per le donne questo è un proble­ma minore che per gli uomini. Le donne difatti riescono mag­giormente a tenere in piedi qualche legame familiare, a mante­nere l'abitazione, ad evitare la completa solitudine, e comunque la percentuale di emarginazione grave delle donne è molto infe­riore a quella degli uomini. 33

In definitiva si conferma quanto esposto nei primi paragrafi, riguardo alla stretta correlazione tra il disagio femminile e gli eventi di tipo familiare, a sottolineare i vari aspetti di maggior dipendenza della donna dalla famiglia, oltre che dalle dinamiche del mercato del lavoro e, come vedremo, dalla scarsa protezione del welfare.

Se scarseggiano gli studi sulla povertà al femminile, ancor più scarseggiano quelli sulla povertà delle donne immigrate. Si possono però formulare alcune ipotesi, dato che, all'interno del grosso fenomeno dell'immigrazione la presenza femminile va aumentando parallelamente a quella maschile (pur rimanendo il loro numero inferiore a quello degli uomini: nel 2000, secondo dati Istat, le donne rappresentavano il 45,8% degli immigrati).

Vi è in Italia una certa quota di immigrate sole (in prevalenza provenienti dall'America Latina, da cui nel 1995 provenivano so­lo 41 uomini su 100 donne, ma anche da Polonia, Romania, Rus­sia, Thailandia, Filippine), 34 per le quali al disagio dell'emigra­zione, e magari del temporaneo allontanamento dai figli e dalla famiglia, si aggiungono notevoli difficoltà economiche. In gene­re il guadagno di queste donne deve garantire sia un minimo di vivibilità in Italia che sostenere la famiglia nel paese d’origine. Allo stesso tempo, va anche aumentando la quota di immigrate che arrivano insieme ai mariti o successivamente per ricongiun­gimento familiare. Dalle notizie che trapelano soprattutto dalle domande che gli immigrati e le loro famiglie rivolgono ai servizi, vi è la percezio­ne che, se da un lato per molte donne straniere !'immigrazione rappresenta un trampolino di lancio per percorsi di emancipa­zione e socializzazione, per altre si scatenano situazioni di emar­ginazione e di crisi del legame coniugale, di cui spesso sono in­vestiti anche i figli minori.

Alcuni (pochi) studi sono stati condotti in Europa, in riferi­mento soprattutto all'immigrazione dai paesi a cultura islamica: la complessità del fenomeno migratorio, e soprattutto dei vari meccanismi di conflittualità-assimilazione-esclusione-integra­zione che esso porta con sé, potrebbe indurre a pensare che l'ac­centuato status di dipendenza delle donne di cultura islamica sia tout court fori ero di accentuati svantaggi per la donna immigra­ta. In realtà ciò sembra vero solo in parte. Se negli anni Ottanta era evidente la scarsa presenza nel mercato del lavoro delle don­ne musulmane, rispetto ad immigrate di altre culture, 35 sembra che attualmente il fenomeno sia in parziale regressione, soprat­tutto in termini di "qualità". Alcuni autori infatti sostengono che le donne musulmane, stimolate progressivamente dal contatto con la "modernità", aumentano il loro grado di scolarizzazione e la conseguente entrata nel mondo del lavoro (e in alcuni paesi anche nella vita pubblica e politica, sia pure in quantità minori­taria); giungendo a costituire un possibile fattore di mediazione­conciliazione tra fedeltà alle tradizioni della cultura d'origine e adozione di elementi di modernizzazione e quindi di cambia­mento. 36

Indubbiamente, questa valutazione apre prospettive di tipo evolutivo del fenomeno migratorio, nel senso che in alcuni casi il processo di emancipazione delle donne può diventare il motore di processi di integrazione interculturale (e quindi di nuova cit­tadinanza); non possiamo tuttavia sottovalutare l'eventuale "prezzo" che, in questi contraddittori percorsi, sono soprattutto le donne a dover pagare, sia sul piano della dipendenza econo­mica, sia su quello, ad esso connesso, di forme di schiavizzazio­ne familiare, di isolamento sociale e quindi occultamento degli eventuali bisogni reali di aiuti e sostegni da parte del paese ospi­tante. Il riferimento d'obbligo è per quelle donne sole che lavora­no come domestiche o assistenti domiciliari (le cosiddette "ba­danti), e che ricongiungono i figli o il resto della famiglia. Al da­to sulla povertà economica di queste donne andrebbero aggiunti anche disagi di tipo psichico, come isolamento, solitudine, ecc., rilevati in alcune esperienze locali di ricerca. 37

 

 

33 Cfr. i dati della prima indagine nazionale sulle persone senza dimora, rea­lizzata nel 2000 dalla Fondazione Zancan su incarico della Commissione d'inda­gine sull'Esclusione sociale, secondo cui gli uomini risultano essere 1'81 % e le donne il 18% del totale considerato.

 

34 Cfr. BARBAGLI, M., Immigrazione e criminalità in Italia, li Mulino, Bologna 1998, p. 47.

 

35 In Francia dal 1987 al 1989 il tasso di disoccupazione delle donne musul­mane è molto superiore di quello di altre etnie: ad esempio mentre la disoccupa­zione delle donne portoghesi diminuiva di 2,6 punti, quello delle donne algerine, marocchine e tunisine aumentava rispettivamente del 18,2%, 33%, 25,9%. (SAINT-BLANCAT, C., L'Islam della diaspora, Ed. Lavoro, Roma 1997, p. 97-98).

 

36 Fanno riflettere le analisi riportate da Chantal Saint-Blancat in op. cit., che mettono in luce la forza propulsiva al cambiamento sociale della donna islamica: essa infatti, allenata da secoli a risolvere problemi di vita quotidiana perché ben più pressata dell'uomo da vincoli e limitazioni, più responsabilizzata a mantene­re vive ed a trasmettere ai figli le tradizioni, ma anche a trovame i punti di con­giunzione con le nuove esigenze di un mondo che cambia (le analogie, pur nella diversità, con il ruolo della donna occidentale sono evidenti), sembra preziosa portatrice di possibilità di mantenimento dell'identità socioculturale pur apren­dosi al cambiamento, e quindi a nuovi percorsi di integrazione.

 

37 Cfr. DI GruSTINO, L.; NANNI, W., Badanti e aiutanti domiciliari: la nuova for­za lavoro per l'assistenza alla persona, in OSSERVATORIO SULLE POVERTÀ, CARITAS DI MODENA E CARPI, Rapporto 2001, Centro Culturale UF. L. Ferrari", Modena 2002.

 

 

 

6.3 La madre sola

 

6.3.1 Alcuni dati di sfondo

Già più volte si è accennato al fatto che, quando certi eventi riguardano le donne sole, specialmente se con figli, i rischi di po­vertà sono molto superiori rispetto a quelli delle altre donne. In generale, la condizione di dipendenza familiare e lavorativa, la minor capacità di guadagno, la troppo scarsa protezione del wel­fare rapportata agli eventi naturali e agli svantaggi sociali della vita della donna, sono già fattori di rischio che espongono la donna al depauperamento in caso di rottura della famiglia, spe­cialmente se casalinga, o disoccupata o sottoccupata.

Gli studi condotti sulla separazione in Italia dimostrano co­me sia proprio la rottura del matrimonio a mettere a nudo quel­la disparità soprattutto economica fra coniugi che rimane occul­ta nei conteggi dei redditi familiari. È un fenomeno che riguarda tutti i ceti sociali, ma che ovviamente pesa più gravemente sulle donne (e sui figli) dei ceti più modesti e con cultura di più basso livello, proprio perché i mariti, a loro volta, hanno risorse inade­guate a far fronte ai costi di due famiglie. 38

La condizione di madre sola, priva del partner, è oggi un fe­nomeno che, per ampiezza e qualità, tende a diventare un vero problema sociale. Secondo l'Indagine Multiscopo Istat condotta nel 1998, all'interno del milione e 800 mila nuclei monogenito­riali presenti nel nostro paese (pari a circa 1'11 % di tutti i nuclei familiari) erano compresi un 84% di nuclei costituiti da donna sola con figli. E mentre va diminuendo la quota di vedove, va ve­locemente aumentando quella di separate e divorziate.

In Italia, al primo gennaio 2001, sono risultate 393.663 le donne divorziate, pari all'1,3% di tutte le donne italiane. Tra i maschi !'incidenza dei divorziati è inferiore, essendo pari allo 0,9% del totale (262.771).

Nel 1999 si sono registrati 4,5 separazioni e 2,4 divorzi ogni 1.000 coppie coniugate. La concentrazione è maggiore al Nord che al mezzogiorno; la Valle d'Aosta ha il primato di 8,4 separa­zioni e 6,1 divorzi. Viene scelta prevalentemente la separazione consensuale (85,4% dei casi) e il divorzio su domanda congiunta (73,3% dei casi), e questo più al Nord che al Sud. L'iniziativa del­la separazione è in prevalenza della donna, più del doppio del marito, invece il divorzio è richiesto più dal marito (circa il 60% dei casi).

 

Tab. 6 - Popolazione residente al primo gennaio 2001 per sesso e stato civile

 

 

Coniugati

Divorziati

Vedovi

Totale

 

 

 

 

 

 

Maschi

 

 

 

 Valori

14.693.083

262.771

684.518

28.094.857

 

 

 

 assoluti

 

 

 

 

 

 

Maschi

 Valori %

53,3

0,9

2,4

100,0

 

 

+

 

 

 

 

 

 

 

Femmine

 

 

 

 

 

 

Valori

57.844.017

 

Coniugate

Divorziate

Vedove

Totale

 

assoluti

 

 

 

 

 

Femmine

 

Valori %

/

 Valori

14.756.724

393.633

3.783.869

29.749.160

 

 

 

 assoluti

 

 

 

 Valori %

49,6

1,3

12,7

100,0

 

 

 

 

Fonte: Istat

 

 

 

Il fenomeno dell'aumento di madri sole è stato spiegato in ba­se alla concomitanza di vari fattori:

 

*      la forte tendenza ad affidare i figli alla madre in caso di se­parazione o divorzio. Nel 1998 il 91 % dei figli minori è sta­to affidato alla madre, il 4,7% al padre. Per la maggioranza si trattava di ragazzi sopra gli 11 anni (35%) e di bambini al di sotto dei 5 anni (31%);

*      la più elevata mortalità maschile;

*      la maggiore difficoltà delle donne di approdare, dopo il di­vorzio, ad un nuovo matrimonio, proprio a causa della pre­senza di figli, oltre che dell'età generalmente avanzata in cui si divorzia, che svantaggi a maggiormente le donne;

*      la propensione dei figli nati fuori dal matrimonio a rima­nere con la madre.

 

Una grossa componente delle madri sole è costituita da don­ne giovanissime. In Italia, la grande maggioranza della fili azione naturale (nata fuori del matrimonio) riguarda infatti madri al di sotto dei 20 anni. Basti pensare che tutte le nascite di donne sot­to i 15 anni sono naturali, che i nati da madri dai 15 ai 17 anni, nell'81 % dei casi, sono figli naturali e che i nati da donne di età compresa tra 18 e 19 anni sono naturali nel 30% dei casi. Data l'età, si tratta nella maggior parte dei casi (66,2%) di donne con titolo di studio di scuola media inferiore, e quindi sempre di in­dicatori che testimoniano un certo grado di disagio. 39

Se la situazione delle vedove con figli, pur in diminuzione, è meno a rischio di povertà di quella delle separate/divorziate o nubili, l'età in genere più avanzata ed il possesso di pensioni di reversibilità non sufficienti possono preludere o ad una dipen­denza dai figli grandi, o a situazioni di depauperamento.

 

 

39 RUSPINI, E., "Teenage Ione mothers in Italia: visibilità statistica, visibilità sociale",  Giornate di studio sulla popolazione, Università di Milano Bicocca, 20-22 febbraio 2001.

 

40 Si tratta di un'interpretazione "economicistica" di un passo del Vangelo di Matteo, secondo cui "Gesù dice che quelli che hanno fede aumentano la loro gra­zia e quelli che non ce l'hanno sprofondano sempre più nella dannazione, "per­ché a chiunque ha, sarà dato in abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (VALENTINI, C, op.cit., p. 165).

 

 

6.3.2 La particolare condizione delle donne separate e divorziate con figli

Certamente più problematica è la condizione di separate/di­vorziate o nubili con figli. Anche in Europa è questo un fenome­no in crescita (mentre la vedovanza diminuisce). L'Italia tuttavia sembra ancora presentare tassi molto inferiori rispetto alla media degli altri paesi, pur essendo raddoppiato il numero di separazio­ni/divorzi rispetto a vent'anni fa. È tuttavia difficile una compara­zione precisa con l'Europa, soprattutto a causa della diversa tipo­logia giuridica che presiede alla rottura del vincolo matrimoniale (in Italia, a differenza degli altri paesi dell'Unione Europea, il per­corso è "a due tappe", separazione, e conseguentemente divor­zio). In ogni modo anche in Italia si va facendo strada quella tra­sformazione per cui accanto al modello tradizionale di famiglia (che pure ha una sostanziale tenuta), vanno crescendo nuovi mo­delli (nuclei monogenitoriali e nuclei monopersonali, famiglie ri­costituite), portatori di bisogni diversificati, che richiederebbero dei cambiamenti anche nel mondo del lavoro e dei servizi.

La particolare debolezza della madre sola si manifesta in concomitanza della rottura familiare, quando alla precedente di­pendenza economica dal partner fa spesso seguito, soprattutto nel lungo periodo, l'inadempienza del coniuge nella contribuzio­ne economica; e quando il carico dei figli, soprattutto se minori, rende problematica l'occupazione lavorativa della madre.

È in questi casi che si fanno più drammatici gli effetti della si­tuazione del mercato del lavoro femminile già esposta all'inizio. Il quadro, alquanto complesso, può essere così delineato: di fronte al mercato del lavoro la madre sola che non può contare su consistenti aiuti familiari per la cura dei figli, anche se in pos­sesso di titolo di studio medio-alto, subisce quello che i sociologi chiamano "l'effetto Matteo",40 cioè accumulano svantaggi su svantaggi con molta difficoltà ad uscirne.

Incidono in questo senso diversi elementi: la crisi economica, che espelle dal mercato più facilmente le donne che gli uomini e si ripercuote pesantemente nei tagli alla spesa pubblica (e le donne lavorano in larga misura nei servizi, nel settore pubblico e terziario in generale); la rigidità del mercato del lavoro che rara­mente utilizza il part-time o orari ridotti, da cui la necessità per la donna di ricorrere ad impieghi saltuari, sottopagati (i cosid­detti cattivi lavori), o al lavoro nero domiciliare per rendere compatibili i tempi lavorativi con la cura dei figli.

Sono inoltre praticamente inesistenti le possibilità di rientro al lavoro in età matura quando i figli sono grandi. Sembra che l'auspicata "flessibilità" del mondo del lavoro, oggi alla ribalta nella realtà italiana, si vada realizzando con scarsissima atten­zione ai diritti e alle esigenze dei lavoratori; e ancor meno sem­bra perseguita la finalità di combinare esigenze di flessibilità e di competizione nel mercato con le specifiche esigenze delle fami­glie e quindi delle donne.Questa condizione "strutturale" della madre sola, maggior­mente diffusa al Sud, e cui spesso si aggiunge anche la perdita della casa (per non riuscire a pagare l'affitto, o perché la madre sola spesso preferisce tagliare i legami con altri familiari), chia­ma in causa ancor più il sistema dei servizi sociosanitari che, co­me vedremo, sembra attestato su criteri di risposta che si rifan­no a modelli tradizionali di famiglia.

6.3.3 La madre sola immigrata

Solo un cenno alla madre sola immigrata. Non esistono studi specifici, ma sembrano rare le situazioni di donne immigrate so­le con i figli. Più spesso si verifica !'immigrazione temporanea di donne (soprattutto dall'Est europeo), anche senza marito, che la­sciano in custodia i figli ai parenti nel paese d'origine, e ai quali inviano i proventi del proprio lavoro. Sembrano occupare quell'ambito di lavoro non regolamentato, di cui va crescendo la do­manda nel nostro paese (le cosiddette badanti, che si prendono cura di anziani o ammalati a domicilio). In questi casi, il proble­ma principale di tali donne riguarda la necessità di una maggio­re tutela, che spesso già vivono situazioni difficili di rapporti fa­miliari e con i figli lontani.

Potrebbe infine configurarsi come "solitudine" (che compor­ta isolamento, emarginazione, privazione di reti sociali di sup­porto...) anche quella, sopra accennata, di donne immigrate con la famiglia o in seguito a ricongiungimento, che per vari motivi non riescono ad "uscire" da forme di schiavitù maschile, pur avendo la responsabilità della socializzazione dei figli in una cul­tura nuova e sconosciuta.

 

6.4 La donna violata

 

6.4.1 Un ampio spettro di situazioni

Povertà, disagio ed esclusione sociale sono concetti che, nel loro insieme, disegnano stati di sofferenza complessi, che inte­ressano per dimensioni e intensità la società nel suo insieme.

Inserire la "violenza" in questo contesto può sembrare impro­prio, perché di per sé essa può riguardare situazioni e persone non necessariamente in condizioni di disagio sociale. Ma quan­do la violenza è rivolta a donne perché "donne", la prospettiva cambia: diventa un"ulteriore prospettiva da cui guardare le spe­cificità di genere, che nella nostra società e nella nostra cultura sono spesso inestricabilmente connesse con stati di sofferenza e di esclusione.

Anche la violenza sulle donne, come si vedrà, è un fenomeno che sta sia "a monte" che "a valle" della condizione femminile, per come essa è vista e vissuta nel nostro e in molti altri paesi.

Ma come considerare questa violenza, di cui tra l'altro si par­la solo da poco tempo, e quindi, successivamente, come misurar­la? E come mai prima degli anni Sessanta o Settanta, in Italia es­sa non era affatto all'attenzione della società civile e politica, se non per rari e gravissimi episodi?

Il crescere di studi sulla condizione femminile, insieme alle lotte e alle conquiste relative all'emancipazione sociale della donna, hanno portato alla luce la problematica della violenza al­le donne, inquadrandola in quel tessuto culturale e concettuale in cui domina il paradigma maschile, e in cui tutto ciò che ri­guarda la donna viene visto solo "per differenza".

Se si condivide il fatto che l'asimmetria tra i sessi è un tratto solamente culturale, la violenza dell'uomo sulla donna può es­serne una logica conseguenza. Ciò spiegherebbe alla radice co­me mai prima il fenomeno esisteva ma non se ne parlava, e come mai la violenza è stata spesso vista e vissuta, anche dalle donne stesse, come inevitabile, da sopportare, da tacere.

All'origine di quella dipendenza della donna di cui si parlava all'inizio, vi sarebbe secondo alcuni studiosi, il predominio fisico dell'uomo (più forte, più prestante), che nei secoli è andato legit­timando e perpetuando un potere "sulla" donna, fin da quando essa veniva considerata non totalmente persona, come i bambini e gli schiavi. Si trattava, almeno in parte, di una supremazia le­gittimata dalla sfera normativa, politica, civile della nostra orga­nizzazione sociale, che facilmente giustificava l'idea di donna come "oggetto di proprietà" dell'uomo-marito, e che in Italia ha cominciato a vacillare solo con il Nuovo Diritto di Famiglia del 1975 e con i movimenti che l'hanno preceduto.

Ma, come spesso avviene, i cambiamenti legislativi non pro­ducono automaticamente mutamenti culturali: questi hanno tempi molto più lunghi, specie se stratificati in abitudini sociali e culturali di vecchia data. Non è superfluo ricordare ad esempio quella sorta di legittima zio ne della supremazia maschile raffor­zata da certe impostazioni scientifiche, come la stessa teoria psi­coanalitica, e da una certa morale religiosa, fondata sulla dottri­na cattolica, che ha contribuito a mantenere nel tempo alcune forme di subordinazione e di abuso sulle donne.

Riemergere da questa specie di inganno culturale non è faci­le, né sul piano concettuale, né sul piano dei comportamenti quotidiani, tanto meno per chi è vittima non riconosciuta di pre­varicazioni.

Dal punto di vista classificatorio, sono compresi nella violen­za alle donne una molteplicità di atti, quali l'aggressione fisica e sessuale, ma anche quella verbale, psicologica, economica, culturale. Se è violenza l'impedimento all'autonomia e l'isolamento sociale, è anche una forma di violenza l'aggressività subdola e in­visibile che si consuma nel silenzio delle relazioni sociali.

Sono violenza sulle donne gli abusi, le molestie, le mutilazioni, la ridu­zione ad oggetto di scambio... e gli autori possono essere non so­lo i singoli, ma anche le organizzazioni, la società, lo Stato.

Si apre così un panorama di indagine ancora poco esplorato, un fenomeno complesso difficile da decifrare e da misurare, e in cui ancora si può ipotizzare un ampio "sommerso" che fatica a venire alla luce.

6.4.2 I conti della violenza alle donne

Consapevoli di queste difficoltà, e soprattutto della appurata reticenza delle vittime a riconoscere e notificare ciò che costitui­sce violenza, alcune studiose si sono cimentate nello studio della violenza alle donne, anche se con molte cautele metodologiche. La consapevolezza e la delicatezza del tema è ben motivata da Linda Laura Sabbadini che dà conto di questo settore dell'Inda­gine sulla sicurezza dei cittadini, promossa dalla Commissione Multiscopo dell'lstat nel 1998, e che segna la prima indagine uf­ficiale italiana sulla violenza alle donne.41

Sabbadini ritiene che le intricate connessioni culturali di ciò che è violenza e molestia, in particolare di tipo sessuale, produ­cano resistenze e difficoltà ad intervistare le donne, sia perché esse sono portatrici di gradi di sensibilità e di percezione molto diversi a seconda delle loro diverse caratteristiche culturali; sia perché, specialmente le violenze più "leggere" possono venir ri­mosse o dimenticate; sia perché sopravvive nelle donne violenta­te e stuprate il forte timore di essere percepite come conniventi al fatto. Questi sono anche i motivi per cui è verosimile ipotizza­re che il "sommerso" sia molto ampio.

Come per gli altri tipi di crimini di cui si vuole conoscere l'en­tità, anche per la violenza alle donne l'indagine dell'lstat prende le mosse dalle denunce per reati sessuali, nel periodo settembre 1997-gennaio 1998. Tale analisi però è stata integrata con inter­viste telefoniche a 20.064 donne dai 14 ai 59 anni. È noto difatti che le denunce costituiscono un indicatore molto limitato, se non distorto, di criminalità, in quanto sono più legate al grado di intolleranza sociale e di efficienza delle forze dell' ordine che non all'intensità reale del fenomeno. Se poi si ipotizza che, specifica­mente per i reati di violenza alle donne, vi siano molti e vari mo­tivi per cui le interessate non sporgono denuncia, diventa ancor più necessario adottare anche altre modalità di indagine che si avvicinino di più ad una rilevazione realistica del fenomeno.

Il primo risultato allarmante è il fatto che le donne che hanno subito uno stupro o un tentato stupro sono 714.000, mentre sono 185.000 quelle che l'hanno subito negli ultimi tre anni. Di queste 185.000, solo 1'1,3% dei tentati stupri ed il 32% degli stupri è sta­to denunciato. Ma è ben più alto il numero di non denunce nelle 714.000 donne che hanno subito violenza o tentata violenza nel­l'arco della vita: ben il 93,2% delle tentate violenze e 1'82,7% del­le violenze non sono state mai denunciate.

Se ne può solo dedurre che il relativo aumento di denunce ne­gli ultimi tre anni sia un segnale di crescente consapevolezza del­le donne e di superamento di alcuni degli ostacoli soggettivi ed oggettivi che ne hanno ostacolato per anni la denuncia.

 

Tab. 7 - Donne da 14 a 59 anni per tipo di molestia o violenza sessuale su­bita nel corso della vita e regione (dati assoluti in migliaia)

 REGIONE

Almeno 1

Molestia

Esibizionismo

Telefonate

Ricatto

Stupro tentato

 

tipo di

fISica

 

oscene

sul lavoro

do consumato

 

molestia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Piemonte

742

338

361

459

55

58

 Valle

 

 

 

 

 

 

 d'Aosta

18

lO

7

Il

l

2

 Lombardill

1.671

780

880

1.019

80

91

 Trentino Alto Adige

126

62

50

73

5

12

 - Balzano - Bozen

56

26

27

31

2

6

 - Trento

71

37

23

41

3

6

 Veneto

792

358

413

441

48

81

 Friuli Venezia Giulia

198

99

89

110

15

14

 Liguria

291

155

132

179

25

22

 Emilia Romagna

726

352

366

459

55

67

 Toscana

560

277

281

317

35

37

 Umbria

108

55

39

58

9

7

 Marche

198

105

74

109

7

20

 Lazio

985

541

400

670

53

67

 Abruzzo

173

81

62

117

13

19

 Molise

37

14

8

25

l

2

 Campania

916

379

305

704

42

62

 Puglia

614

229

216

432

25

61

 Basilicata

76

30

18

53

2

5

 Calabria

260

94

72

195

lO

19

 Sicilia

660

274

237

447

20

55

 Sardegna

267

116

89

178

9

13

 Italia

9.418

4.347

4.101

6.055

509

714

 

Fonte: Istat, Indagine sulla sicurezza dei cittadini 1997-1998

 

 

La forte entità del sommerso rispetto al numero di denunce e spiegato dagli esperti con gli ulteriori vissuti di violenza o ag­gressione psicologica che le donne subiscono nel percorso giudi­ziario, oltre che con il timore di ritorsione nei casi in cui la vio­lenza sia perpetrata in famiglia o da parenti o conoscenti. Non a caso, il 15,5% delle donne ha denunciato il fatto se la violenza era stata opera di estranei, contro il 4% nel caso di persone co­nosciute. La difficoltà a denunciare da parte della donna è quin­di tanto maggiore quanto più la persona è conosciuta, e questo anche per la paura di essere considerata consenziente e di dover­si sottomettere ad interrogatori ed esamine. 42

Tra gli episodi denunciati negli ultimi tre anni, la maggioran­za delle tentate violenze è stata commessa nei confronti di donne di età compresa tra i 14 ed i 24 anni di età (il 49,4%), mentre nel­le donne tra i 25 ed i 34 anni tali episodi ammontano al 26%. Nelle età successive il pericolo sembra diminuire.

Il fenomeno sembra attraversare indistintamente i diversi strati sociali e le diverse aree geografiche, anche se sembrano più a rischio le donne disoccupate, le single e le separate/divorziate. Una lieve concentrazione si riscontra nel Nord Est (4,9%), seguito dal Centro-Sud (3,5%), poi dal Nord Ovest e Isole. Ma anche questo potrebbe far pensare che le donne del Nord, e in particolare dei grossi centri urbani, siano più disposte a parlarne che non le altre.

Significativa è la rilevazione delle conseguenze psicologiche e sociali delle violenze subite. Il 69,4% delle donne che ha subito violenza dichiara di non aver superato l'episodio, mentre tra le donne colpite dalla violenza negli ultimi tre anni il 72% dichiara di non aver superato il trauma. Le reazioni consistono in stati di insicurezza, collera, paura, depressione, vergogna, freddezza, diffidenza; molte evitano, ad esempio, le strade isolate (1'11,3%), alcune non escono più la sera, il 3,3% ha lasciato il partner, il 2,7% ha cambiato lavoro.

L'indagine tramite interviste ha inoltre messo in evidenza co­me più della metà delle violenze sessuali (il 54,2%) è stato opera di persone conosciute ed è stata consumata in luoghi inaspettati (casa di amici, automobile, casa propria). Si tratta prevalente­mente di tentati stupri non denunciati (98, 7% dei casi). Al se­condo posto troviamo la violenza sessuale di strada (22,5%): più frequente nei centri metropolitani, più facilmente denunciata (22,4%), ed è in costante crescita. Segue la violenza sessuale sul lavoro (10,7%): si tratta di violenze perpetrate da superiori o da colleghi, spesso accompagnate da molestie fisiche e ricatti sessuali per essere assunte (23,5% dei casi), o per mantenere il lavo­ro, o per progredire di carriera (24,6%). La violenza ripetuta in famiglia viene riportata dal 4,9% delle donne: risulta chiara la maggiore resistenza a parlame e quindi il dato è sottostimato. L'età delle vittime si concentra fra i 35 ed i 59 anni, e le donne so­no di status sociale più basso della media. Diventano in questo quadro significative anche le quote di donne che esprimono grosse difficoltà a parlare di violenze subite in luoghi familiari (5,2%), e di coloro che non vogliono affatto parlarne (2,4%).

Il rapporto sulla violenza alle donne elaborato dal Panos In­stitute di Londra riporta l'esito di una ricerca condotta dalla Harvard University, secondo cui la violenza rappresenta la pri­ma causa di morte per le donne tra i 15 ed i 44 anni. Inoltre, se­condo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno una don­na su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nella sua vita, e i principali aggressori sono i familiari, seguiti dagli amici, vicini di casa, conoscenti e colleghi di lavoro o di studio. Sia le vittime che gli aggressori appartengono a tutte le classi sociali e a tutti i ceti economici. 43

Un'altra rilevazione è quella effettuata dall'Associazione Dif­ferenza Donna di Roma, che nel corso dell'anno 2000 ha rilevato, su 1.005 donne che si sono rivolte ai Centri:

485 casi di maltrattamento, pari al 49%;

175 casi di violenza psicologica (17%);

122 casi di percosse (12%);

92 casi di stupro (9%);

41 casi di induzione alla prostituzione (4%);

30 casi di inadempienze (3%);

8 casi di molestie sessuali (1 %);

per 52 casi non è stato registrato il tipo di violenza. 44

 

È intuibile, anche se non specificato nel testo, che gran parte di questi tipi di violenze siano consumati in famiglia, e questo conferma la prevalenza di violenze inflitte da familiari, parenti, partner.

Il Servizio di Soccorso alla violenza sessuale della Clinica Mangiagalli di Milano, nel periodo 15 maggio 1996 - 15 maggio 2000, ha registrato invece la seguente situazione, in base ai 673 casi pervenuti al servizio: 15 casi sono denunciati da maschi, 658 da femmine. La più alta percentuale è rappresentata da residen­ti a Milano e provincia (82%). Gli autori conosciuti sono circa il doppio di quelli sconosciuti (66%). Rispetto all'età delle vittime, i minori sono circa metà dei maggiorenni (212 su 461), e tra i maggiorenni la percentuale maggiore è nell'età 18-34 anni (il 51% del totale, il 74% dei maggiorenni). Si conferma sia il mag­gior numero di violenze perpetrate da parenti, amici, persone note, sia la giovane età delle vittime.

Eloquenti anche i risultati dell'indagine indetta dal Telefono Rosa di Torino nel secondo semestre del 1995:45 il profilo della donna violata vede prevalere le sposate, casalinghe, di età fra i 31 ed i 40 anni. Nel 68% dei casi l'autore della violenza è il marito, e il più delle volte non per droga o alcool ma per "motivi caratte­riali". Nel 79% dei casi si tratta di violenza non sporadica ma metodica e persistente: la donna spera sempre che con il tempo finisca, poi ricorre al Telefono Rosa quando la situazione non è più sostenibile.

 

 

42 Ivi, p. 10

43 Cfr. il sito: http://www.repubblica.itJonline/volontariato/donne.html

44 Cfr. GRUPPO ABELE, Annuario sociale 2001, Feltrinelli, Milano 2001

45 Cfr. il sito: http://www.it/tel.rosalpage03.htm

 

     Banche dati, documenti giuridici internazionali, iniziative per prevenire e aiutare le vittime:

A livello internazionale si possono consultare le pagine Web delle Nazioni Unite, che all'interno del loro sito dedicano alle donne un'intera sezione. Womenwatch si propone come "la finestra Internet dell'Onu sul progresso e l'aumento di potere delle donne", raccoglie documenti e informazioni sulle attività delle varie agenzie Internazionali impegnate nel settore, tra cui la pagina del CEDAW, la Commissione per l'eliminazione delle discriminazioni verso le donne.

    Passando dall'ufficialità all'attivismo politico, il NOW, la più grande organizzazione femminista degli Usa, offre materiali, anche legislativi, e un elenco delle sue iniziative. Da segnalare la sezione sulla nuova legge contro la violenza sulle donne, un ampliamento di quella del 1994.

     Una nutritissima collezione di studi, ricerche e materiali pedagogici o preventivi è invece in Rete a cura del Minnesota Center Against Violence and Abuse   

     L'impegno contro la violenza sulle donne non è una prerogativa esclusivamente femminile e in questo
senso merita una visita anche il sito del MADV (Men and Women against Domestic Violence), una "cyberorganizzazione" che ritiene che le aggressioni tra le mura di casa siano un problema che riguarda anche gli uomini. A Bologna, la Casa delle donne per non subire violenza è uno dei pochi centri antiviolenza italiani presenti su Internet, assieme al Telefono Rosa di Torino e all'associazione Artemisia di Firenze. Infine, sempre in italiano, due siti di informazioni sulle donne: lo Spazio Donne La Città Invisibile e il server dell'associazione Orlando  


 

 

6.4.3 Anche le molestie sono violenza

Un particolare tipo di violenza è costituito dalle molestie sessuali. "La molestia sessuale è una forma di violenza poiché si configura sempre come un"intrusione fisica, psicologica e/o sessuale ai danni di un" altra persona che non la richiede e non la gradisce, pur differendo dalla violenza per forma ed inten­sità".46

Le molestie comprendono una vasta gamma di azioni e com­portamenti, che possono awenire nei luoghi più diversi (strada, famiglia, autobus, cinema, dal medico, nel lavoro...), e che sono accomunati dal fatto di offendere la dignità personale della don­na e di essere da essa indesiderati. Il Codice di Condotta della Comunità Europea, recepito dal nostro paese, definisce la mole­stia sessuale "ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro tipo di comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, ivi inclusi atteggiamenti male accetti di tipo fisico, verba­le e non verbale".47

Pur menzionando la letteratura una varietà di comportamen­ti maschili (quali: telefonate oscene, esibizionismo, molestie fisi che, pedinamenti, molestie verbali, molestie e ricatti sessuali nel luogo di lavoro, ecc.), le poche ricerche disponibili trattano solo di alcune di queste forme.

    La citata indagine Istat sulla sicurezza dei cittadini presenta­ta da Linda Laura Sabbadini ha preso in considerazione solo:

*      telefonate oscene (riguardano la maggioranza delle donne,cioè il 34,4% delle molestie subite);

*      molestie fisiche (il 24%);

*      esibizionismo (il 22, 6%);

*      ricatti sessuali sul lavoro (il 4,2%).

­

In totale, le donne molestate nel nostro paese risultano essere 9 milioni e 420.000, cioè la maggioranza della popolazione fem­minile dai 14 ai 59 anni (il 51,6%). Il 22,7% di queste ha subito due o più tipi di molestie.

Le molestie, ancor più che la violenza, colpiscono indifferen­temente vari strati sociali, varie aree geografiche e vari tipi di donne. L'unica variante significativa riguarda la maggior con­centrazione di molestie subite da donne single (il 33% delle sin­gle ha subito molestie), le separate e divorziate (presentano una frequenza quasi doppia delle coniugate), e comunque le donne che escono di più, che escono la sera, che prendono più spesso mezzi pubblici. Si tratta in definitiva delle donne più indipen­denti ed emancipate, che per motivi di lavoro, di maggiore li­bertà da carichi familiari, godono di più ampie relazioni sociali e tendono a proiettarsi maggiormente fuori della famiglia.

Per quanto riguarda gli autori ed i luoghi in cui avvengono le molestie, la situazione è opposta a quella delle violenze. Le donne sono molestate prevalentemente nei mezzi pubblici (il 34,4%) e per strada (il 20,3%), da persone estranee. Nei luoghi in cui si verificano maggiormente le violenze vi è una bassa percentuale di molestie: ad esempio, in casa propria il 5,3%, in casa di amici o parenti il 4,8%. C'è da dire che, specialmente per le molestie subite per strada o nei mezzi pubblici, la per­centuale di donne molestate si innalza notevolmente se si con­sidera come arco di tempo l'ultimo triennio, molto probabil­mente perché, come già accennato, le vittime tendono a dimen­ticare o rimuovere il fatto.

Un'attenzione particolare merita la questione delle molestie sul lavoro. Sia la ricerca appena menzionata, sia !'indagine con­dotta da C. Ventimiglia, 48 sia alcuni studi condotti dalla Com­missione Europea per il Codice di Condotta, 49 convergono nel denunciare la diffusione di tali comportamenti nei luoghi di la­voro, che però risultano ancora in gran parte sommersi.

     La ricerca di Venti miglia raggruppa i più frequenti compor­tamenti molesti in vari tipi:

*      "molestia verbale" (apprezzamenti verbali, scherzi pesanti o umilianti, insulti, ecc.);

*      "molestia relazionale" (richieste esplicite e implicite di rap­porti sessuali);

*      "molestia visiva" (esposizione di oggetti e messaggi a chia­ro contenuto sessuale);

*      "molestia fisica" (contatti intenzionali con il corpo o parti

         del corpo femminile).

 

Viene sottolineato come in quasi il 90% dei casi le intervista­te abbiano subito sia "molestie fisiche" che "relazionali".

La ricerca Istat che, come accennato, prende in considerazio­ne solo alcuni tipi di molestie (in sostanza quelle più facilmente identificabili e descrivibili, anche perché l'inchiesta era telefoni­ca), stima che siano 728.000 le donne che hanno subito molestie sul lavoro nell'arco della vita, cioè il 4,2% della popolazione fem­minile. Si tratta di molestie fisiche, ricatti sessuali e violenze ses­suali. Non sono state considerate quindi le molestie verbali, che invece sono piuttosto comuni.

Nel mondo del lavoro, circa mezzo milione di donne hanno subito ricatti sessuali, e di queste quasi i due terzi si trovavano in situazione di prima assunzione. Le altre hanno subito ricatti per il mantenimento del posto o per progredire in carriera. La mag­giore frequenza riguarda le libere professioniste e le lavoratrici autonome, che quindi hanno meno garanzia di mantenere il po­sto di lavoro e sono più ricattabili. La concentrazione maggiore è al Centro Nord, nelle aree di grande urbanizzazione.

È evidente in questo caso come quella dipendenza di cui si parlava a proposito dei rischi di povertà esponga le donne anche a ricatti sessuali, solitamente perpetrati da superiori e datori di lavoro. E si conferma anche la maggiore vulnerabilità di quelle donne che, già colpite da altri problemi quali separazione/divor­zio, ricerca di occupazione, oltre che a quelle affette da meno­mazioni o di diversa etnia, costituiscono la netta maggioranza rispetto a quel 72% di donne molestate tra le donne intervistate nei vari paesi dell'Unione Europea.

Se le conseguenze delle molestie sono probabilmente meno traumatiche delle violenze sessuali, possono comunque arrivare a provocare stati psicofisici anche di grave sofferenza, oltre che cambiamenti forzati nello stile di vita e nelle scelte lavorativo­ professionali. In particolare nel posto di lavoro, specialmente se ricorrenti, le molestie possono creare vissuti molto stressanti nelle relazioni, nel clima, nello svolgimento complessivo del la­voro, con ripercussioni anche nella molteplicità di ruoli (es. fa­miliari) che la donna deve continuare a gestire. Ma a queste con­seguenze si accompagna una percezione soggettiva che, forse ancor più che per le violenze, contribuisce a tenere sommerso il fenomeno. Le donne molestate facilmente si auto-colpevolizza­no, perché questo è lo stereotipo che ancora vige nella nostra so­cietà: la paura si mescola alla vergogna, l'accusa di "essere pro­vocanti" nel vestire, nel sorridere, nel dare troppa confidenza in­duce a cambiare stili di vita; il sottile confine tra il desiderio di essere apprezzate anche per la propria femminilità e l'essere og­getto di aggressione può confondere e disarmare le donne più sprovvedute, spesso con esiti di perdita di fiducia in se stesse, nelle proprie capacità. E così il non reagire o la reazione inade­guata provoca una sorta di legittima zio ne nell'uomo che ha mo­lestato: il 47,6% delle intervistate nella ricerca condotta da Ven­timiglia manifesta all' atto molesto "reazioni schermo" (cioè fa finta di non capire), il 42,8% ha "reazioni di delegittimazione" (cioè banalizza o prende in giro il molestatore). Le molestie sessuali, il tentato stupro o lo stupro consumato non sono violenze uguali alle altre. Vi è infatti una sorta di para­dosso della violenza, in particolare sessuale, alle donne: il senso di colpa, il paralizzarsi di fronte al fatto, il ricatto affettivo nel caso di violenza di un familiare, il ricatto lavorativo, il timore di non essere credute, la vergogna, la paura delle conseguenze, e anche a volte la difficoltà a penetrare il mondo oscuro dell'ag­gressore (non è sempre facile farsene una ragione, capire fino in fondo perché lo fa...), sono sentimenti forti e contrastanti, che nella maggioranza dei casi si risolvono nel silenzio. E il silenzio a sua volta si risolve in un perpetuarsi dell'indifferenza culturale e sociale, se non in un'implicita legittimazione dell'aggressione. Del resto la riprova di un retaggio culturale che "ignora" la gra­vità e la devastazione provocate dalla violenza sessuale è data dal fatto che in Italia solo nel 1996 è stata varata la legge che defini­sce la violenza sessuale un reato contro la persona, anziché sem­plicemente un reato contro la morale.

Si è più volte sottolineato come questo tipo di fenomeno in­neschi un meccanismo perverso che si autoalimenta: gli stereoti­pi culturali tollerano la violenza e inducono il silenzio della vitti­ma, il silenzio della vittima riconferma gli stereotipi generando nuova violenza... Alla base troviamo nuovamente il problema della disuguaglianza fra i sessi che non è semplicemente diffe­renziazione, ma è asimmetria, è predominio del maschio anche in forme comunemente accettate e approvate.

È facile quindi dimenticare che si tratta di un fatto culturale e non "naturale", che ha la forza di imprimere comportamenti conseguenti non solo negli uomini ma anche nelle donne che ne sono le vittime.

Dalle ricerche esaminate appare chiaro che il complessivo fe­nomeno della violenza alle donne è estremamente diffuso, ma che in gran parte rimane non detto, nascosto, sopportato. E pro­prio il tipo di violenza più allarmante e devastante, quella consu­mata tra le mura domestiche (che spesso comincia a colpire fin da bambine, determinando vite spezzate), è quello che emerge meno. Al contrario, là dove l'aggressione non coinvolge legami affettivi e familiari con i conseguenti sensi di colpa, ricatti, sud­ditanza fisica e affettiva, le donne possono dire di avere paura, e si comportano di conseguenza.

L'indagine Istat ha potuto rilevare a questo riguardo il mag­gior senso di insicurezza delle donne rispetto agli uomini, a tutte le età, in tutte le aree del paese: mentre il 78,5% degli uomini si sentono sicuri ad uscire da soli di sera, le donne lo sono nel 47,9%. Queste assumono comportamenti di precauzione in mi­sura doppia dei maschi (evitano luoghi o persone "pericolose", non escono di sera da sole, evitano il buio), e coloro che hanno subito molestie da ignoti hanno un senso di insicurezza molto più alto delle altre donne (il 54%). È allora evidente che, da que­sto punto di vista, i comportamenti femminili vanno letti come spia, segnale di un malessere diffuso, che si concretizza nel fatto che una donna su due nel nostro Paese ha subito nel corso della vita almeno una molestia sessuale.

Sembra, in conclusione, che proprio nel momento in cui l'e­mancipazione femminile ha avuto una forte accelerata, la donna si è "liberata" diventando più autonoma, inserendosi nel mondo del lavoro e delle professioni, allargando la sua sfera relazionale al di là dell'ambito familiare, debba a pagare un caro prezzo an­che per gli abusi di potere fisico, rischiando di essere confinata in una nuova dipendenza.

 

 

46 SIMIONATO, C., Le molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Analisi ed interventi,Tesi di laurea, Trieste 1999/2000

p.13

 

47 G.U.C.E. N.L. 49 del 24.2.92, "Codice di Condotta allegato alla raccomanda­zione 92/131/CEE della Commissione della Comunità Europea", 27 novembre 1991. Questo provvedimento venne assunto in seguito agli esiti dell'indagine co­noscitiva affidata ad una commissione dal consiglio dei ministri del lavoro e de­gli affari sociali. Dall'indagine emerse che in Europa le donne che hanno subito molestie nel lavoro sono: in Spagna 1'80% delle lavoratrici, in Germania, Olanda, Gran Bretagna il 70%, in Belgio il 34%.

 

48 Gli esiti sono riportati in VENTIMIGLIA, C., Nelle segrete stanze. Violenze alle donne tra silenzi e testimonianze,

 F. Angeli, Milano, 1996.   Si tratta di una ricerca condotta a   Modena, in   collaborazione   con il  Coordinamento

 femminile della CGIL di Modena e la FIOM regionale dell'Emilia Romagna.

 

49 I risultati compaiono in RUBINSTEIN, M.; DE VRIES, M.I. (a cura di), "Guida pratica per l'attuazione del

Codice di Condotta", in Documentazione sui materia­li informativi, formativi e normativi sulle molestie sessuali,

 Casa della Cultura, Ro­ma 1993.

 

 

 

6.5 La donna prostituita

6.5.1 La conoscenza del fenomeno

La prostituzione è un problema noto, antico, che però va as­sumendo nel nostro paese connotazioni nuove. Proprio queste preoccupano sotto il profilo dei rischi di disagio per le donne, sia perché il forte aumento dell'immigrazione fa aumentare la "trat­ta" di ragazze, sia per gli intrecci con la criminalità organizzata, sia per le conseguenze sul piano della salute (diffusione del­l'AIDS) e delle difficoltà di vita nelle grandi metropoli.

Dai pochi dati a disposizione si evince che tutte le implicazio­ni ed i rischi legati alla prostituzione femminile sono molto infe­riori per coloro che hanno "scelto" di prostituirsi e che si autoge­stiscono. Ci si riferisce difatti qui alla donna "che viene prostitui­ta", che cioè subisce imposizioni dirette e indirette che configu­rano quindi una violenza.

La conoscenza del fenomeno è alquanto carente, soprattutto per le ovvie difficoltà di rilevazione, che ne fanno ancora una volta un fenomeno in gran parte sommerso.

L'Indagine conoscitiva sulla prostituzione in Italia, promossa dalla Commissione Affari Sociali della Camera nel 1999 e realiz­zata dal Parsec, stima una presenza di 50-70.000 donne, di cui 20.000 immigrate. 51 Nel 1998 la tratta riguardava dalle 1.100 alle 1.400 donne e ragazze; ma altre fonti (ad esempio il Dipartimen­to per le Pari Opportunità) parlano di 2.500 vittime della tratta.

Il Parsec definisce come vittime del "trafficking" "quelle don­ne che subiscono violenza e coercizione in almeno una delle fasi del percorso con cui arrivano dal loro paese fino all'Italia"; vio­lenza che può consistere anche in raggiri, ritorsioni verso la fa­miglia, o anche la promessa di altri lavori. La prostituzione viene stimata come la terza voce di guadagno per il crimine interna­zionale, dopo le armi e la droga, e, valutando che in media il la­voro delle prostitute è di circa tre sere alla settimana, si calcola che ognuna di esse renda circa 10 milioni al mese.

Da uno sguardo al panorama del traffico internazionale del sesso risulta chiaramente come esista in varie zone del mondo un "terreno" che favorisce oggi più che mai tale commercio. Esi­stono paesi come quelli asiatici in cui il permanere di zone di grande miseria e sottosviluppo favorisce uno sfruttamento bie­co, abbondante, a basso prezzo, spesso crudele: l'UNICEF stima che complessivamente in Asia, negli ultimi 30 anni, la compra­vendita di donne e bambini a scopi sessuali abbia riguardato ben 30 milioni di persone. Nella sola India sono 2-3 milioni le prosti­tute, di cui almeno un quarto sono minorenni; nelle Filippine si parla di 400.000 prostitute. Dopo il crollo dell'URSS del 1991, la Russia ha assistito ad un vertiginoso aumento del traffico, favo­rito da una dilagante disoccupazione (quella femminile nel 2000 era del 60-70%). Le intricate connessioni del traffico di esseri umani a scopi sessuali con le attività di organizzazioni mafiose, con il turismo del sesso dei paesi ricchi, con l'industria della por­nografia, con il commercio della droga, con le spinte migratorie incoraggiate dai forti squilibri socioeconomici, ne fanno un fe­nomeno radicato e diffuso a livello mondiale.

 

 

5I PARSEC; UNIVERSITÀ DI FIRENZE, Il traffico delle donne immigrate per sfrutta­mento sessuale: aspetti e

problemi. Ricerca e analisi della situazione italiana, Ro­ma, aprile 1996.

 

 

6.5.2 La componente straniera del fenomeno

In Italia le prostitute straniere, secondo il Dipartimento per le Pari Opportunità, provengono per il 48% dai paesi dell'Est euro­peo (soprattutto Albania), il 22% dall'Africa, il 16% è costituito da italiane. Il 65% delle prostitute lavora in strada, il che aggrava tutta quella serie di rischi e di problemi di cui sono vittime. Il bu­siness in Italia si aggira sui 180 miliardi di lire al mese, e sui 50.000 miliardi annui. Si stima che le persone "occupate" nel mercato della prostituzione si aggirino sulle 80.000.

L'attivazione di una serie di iniziative promosse dalla Com­missione interministeriale presso il Ministero Pari Opportunità nell'ambito del Programma di protezione sociale, ha fornito un osservatorio quantitativo sul fenomeno abbastanza significativo. Da Marzo a settembre 2000 sono state prese in carico 2.900 don­ne (di cui 80 minorenni) in seguito ai circa 13.500 contatti degli operatori di strada. Le straniere provenivano soprattutto dalla

Nigeria e dall'Albania.                                                              .

Il "Numero verde" attivato tra luglio 2000 e gennaio 2001 ha ricevuto 114.600 chiamate, di cui 27.600 "gestite" (le altre o si so­no interrotte perché cadeva la linea, o erano improprie). Di que­ste:

 

. 3.150 provenivano da vittime di traffico;

. 2.100 da vittime della prostituzione;

. 3.400 da clienti;

. 12.200 da cittadini, da parenti, forze dell'ordine, sospetti

sfruttatori.

 

La Commissione interministeriale ha sottolineato l'elevato numero di chiamate al Numero Verde provenienti da donne ita­liane che dichiarano di esercitare la prostituzione in condizioni di grave sfruttamento" 52

Le richieste giunte al Numero Verde, spesso formulate con vissuti di disperazione e di forte tensione emotiva, sono relative alla ricerca di opportunità lavorative per uscire dalla prostituzio­ne, di aiuto economico da parte di minorenni.

Questi dati fanno poco intravedere le condizioni di disagio, di sofferenza, di schiavitù in cui molto probabilmente gran parte delle donne, soprattutto giovanissime, vivono. Uno degli indica­tori è ad esempio la bassa percentuale di donne (908 su 2.900) che, pur prese in carico dai servizi, non chiedono il "permesso di soggiorno per protezione sociale" previsto dall'art. 18 del Testo Unico sull'immigrazione n. 286/98. 53 La motivazione può essere tanto il timore di rappresaglie da parte dei trafficanti e sfruttato­ri, quanto la difficoltà personale a maturare tale decisione.

Anche il disagio per così dire estremo, e cioè l'omicidio di prostitute, è fortemente aumentato negli ultimi anni. Il Rappor­to sulla sicurezza in Italia del 2000 registra che fra le persone uc­cise la percentuale di immigrati è molto più alta della loro inci­denza sulla popolazione; e delle 188 donne vittime di omicidio nel 1999 poco meno di un quarto erano immigrate, mentre ad esempio nel 1993 le donne erano il 6% degli immigrati uccisi. Come è intuibile, questi omicidi sono generalmente la conse­guenza dei tentativi delle donne di sfuggire alla schiavitù.

Analogo aumento si registra fra le persone denunciate per istigazione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione: nel 1994 erano 737, nel 1999 sono arrivati a 1.551. La crescita è illustrata nella tabella seguente:

 

Tab. 8 - Andamento delle denunce per istigazione, sfruttamento e favoreg­giamento della prostituzione. 1990-2000

 

 

 Anni

1990

1994

1999

2000

 

 

 

 

(dati provvisori)

 Totale denunciati

664

737

1.551

2.552

 Percentuale

 

 

 

 

 immigrati

24%

ll.r.

56%

56%

 

Fonte: Istat

 

 

52 GRUPPO ABELE, Annuario..., op. cit., p. 727.

 

53 Questa norma, unica in Italia specificamente contro il traffico  di esseri umani, prevede la possibilità di ottenere uno speciale permesso di soggiorno temporaneo, anche nei casi in cui non siano stati denunciati gli sfruttatori.

 

 

6.5.3 Vittime e carnefici

Marzio Barbagli rileva che, mentre l'aumento della criminalità in Italia non è affatto imputabile agli immigrati (che spesso ne so­no le vittime), indubbiamente sono andati molto aumentando gli autori stranieri di reati legati al traffico e allo sfruttamento anche minorile della prostituzione, soprattutto nigeriani e albanesi. E si tratta di immigrati che occupano spesso anche posizioni medio­alte, in termini di potere e di ricompense economiche. 54

Il Parsec, nella ricerca citata, 55 rileva che agli 890 imputati con procedimenti giudiziari in corso sono stati contestati delitti di as­sociazione mafiosa, associazione per delinquere, sfruttamento della prostituzione, sequestro di persona, sequestro di persona a scopo di estorsione, riduzione in schiavitù/tratta di donne.

Rispetto alla nazionalità gli imputati sono così distribuiti:

 

Tab. 9 - Nazionalità degli imputati per denunce per istigazione, sfrutta­mento e favoreggiamento della prostituzione. Provvedimenti in corso al 1999. (9 principali nazionalità)

 

Nazionalità

Numero

 Italia

349

 Albania

293

 Nigeria

37

 Marocco

33

 Ungheria

19

 Ex- Yugoslavia

19

 Cina

17

 Pakistan

17

 Germania

lO

 

Fonte: Istat

 

Nel Protocollo sul traffico di persone siglato a Vienna nel 1999, si riconosce che il traffico è un delitto tipico della crimina­lità organizzata ed ha caratteristiche proprie rispetto alla viola­zione delle leggi sull'immigrazione. Era inoltre menzionato nello Statuto della Corte penale internazionale a Roma nel 1998 come crimine contro l'umanità. 56

Il ritornello del potere, del predominio maschile, e del corri­spettivo stato di dipendenza e di subordinazione della donna, si concretizza qui nel modo più brutale. Questo elemento è rintrac­ciabile, anche se in modo diverso, nelle motivazioni che spingo­no i clienti della prostituzione, che in Italia rappresentano il 9% della popolazione adulta di sesso maschile. I dati sui clienti sono pochi e non sempre disponibili ad un elevato livello di rappre­sentatività statistica. Una indagine promossa dall'Istat sui com­portamenti sessuali degli italiani, e condotta dal Censis, eviden­zia tra i clienti un'alta quota di anziani (il 13% hanno dai 70 agli 80 anni), di residenti nelle grandi città del Nord, di laureati ri­spetto ai possessori di titolo di studio basso. Secondo il Diparti­mento Pari Opportunità i clienti sono per il 21,43% giovani dai 19 ai 25 anni, e la maggior parte dei clienti sono impiegati, com­mercianti e professionisti.

Una ricerca qualitativa curata dall'antropologa Luisa Leonini per conto dell'assessorato provinciale di Milano, 57 illustra le ca­ratteristiche di una trentina di clienti di prostitute "di strada": si tratta di "maschi normali", di classe media, con una posizione sociale stabile e una famiglia alle spalle. Le persone di elevato rango sociale e i "marginali estremi" sono raramente clienti.

 

 

54 BARBAGLI, M., Immigrazione e criminalità in Italia, op. cit., p. 75.

55 PARSEC; UNIVERSITÀ DI FIRENZE, Il traffico delle donne immigrate..., cito

56 Per approfondimenti sulla tratta di esseri umani in generale cfr. CARITAS ITALIANA, FONDAZIONE E.

ZANCAN, Gli ultimi della fila. Rapporto 1997 sui bisogni di­menticati, Feltrinelli, Milano 1998.

 

57 Cfr. LEONINI, L., Sesso in acquisto, Unicopli, Milano 1999.

 

 

 

7. Le risposte per le donne in difficoltà: le politiche, la normativa, i servizi

 

7.1 Premessa

 

Alla scarsa visibilità statistica ed in parte anche teorica del fe­nomeno delle donne in difficoltà, corrisponde in modo speculare una debolezza, frammentazione, se non spesso dei vuoti nelle politiche di welfare, per lo meno nella realtà italiana. Così come la lettura del fenomeno si "confonde" con le analisi complessive delle famiglie, anche la normativa e le risposte, soprattutto di ti­po assistenziale e previdenziale, tendono se mai a privilegiare come "soggetto" destinatario di aiuti la famiglia, non sempre ga­rantendo necessarie e specifiche tutele alle donne "nascoste" in queste famiglie.

Qui però, sia pur brevemente, è necessario fare delle precisa­zioni e delle distinzioni.

È chiaro che qualsiasi supporto, di natura formale o informa­le, teso a migliorare le condizioni socioeconomiche della fami­glia, ha in qualche misura una ricaduta su tutti i membri, quindi anche sulla donna. Ma innanzi tutto bisogna precisare che, a monte, il forte carattere residuale delle politiche per la famiglia in Italia sottintende e rafforza la concezione di famiglia "eroga­trice di servizi", un compito gravoso, che ricade quasi integral­mente sulle donne e costituisce la più importante componente del lavoro familiare.

Ora, fra le debolezze di questo sistema di offerta politica, bi­sogna operare alcune constatazioni:

*      la "visione" sottostante alle politiche e alle modalità di of­ferta dei sostegni socioeconomici alle famiglie è quella di una famiglia di tipo tradizionale, per cui ad esempio preva­le la concezione della donna prima di tutto come madre­moglie, e implicitamente come custode dei valori tradizio­nali;

*      la spesa dello Stato per la protezione sociale, tanto di natu­ra previdenziale che assistenziale, privilegia in larga misu­ra le erogazioni monetarie piuttosto che l'offerta di servizi. Questo criterio contrasta chiaramente con la natura multi­ fattoriale della povertà. Certamente l'aiuto economico può essere utile a chi attraversa un periodo di difficoltà, mentre interventi di sostegno, che rafforzino, appoggino, compen­sino le eventuali debolezze della risorsa "famiglia" dovreb­bero avere caratteristiche più continuative e strutturali di "servizio";

*      le prestazioni economiche erogate dagli enti centrali ope­rano per categorie di utenti/fruitori, spesso senza una particolare attenzione alla condizione dei carichi familia­re, anche se le soglie di accesso prendono generalmente in considerazione il reddito familiare. In altre parole, la titolarità dei sostegni più consistenti, spetta ad individui meritevoli di particolare tutela (per esempio, anziani non autosufficienti, disabili, malati mentali, tossicodipenden­ti... ) ;

*      è sempre latente il rischio di orientarsi verso un gonfia­ mento di interventi di tipo assistenziale (oggi in un'ottica anche di una malintesa solidarietà, che va confondendosi con la "beneficenza"), a fronte di una certa latitanza nel correggere storture più di tipo strutturale (per esempio ine­renti il mercato del lavoro, la scuola ed i servizi per tutti...).

     L'aver evidenziato questi punti aiuta a comprendere come, an­che gli interventi di sostegno al nucleo familiare, siano in realtà carenti e insufficienti se si vogliono risolvere davvero i problemi reali delle famiglie, specialmente se legati alla dipendenza, alle dispari opportunità, alla gestione dei tempi delle donne. Con queste precisazioni, si tenta ora di entrare nel merito del complesso sistema di offerta, per tracciare una panoramica della normativa e degli interventi che, direttamente o indirettamente, possono avere una ricaduta positiva per le donne in difficoltà. È importante, a questo riguardo, distinguere gli interventi di svi­luppo strutturale dagli interventi di supporto/sostegno per situa­zioni di rischio o già patologiche.

 

7.2 L'affermazione dei diritti e delle pari opportunità, dall'Italia all'Europa

 

7.2.1 La situazione in Italia, in prospettiva storica

Nel nostro paese, la stagione di progressiva affermazione ed estensione di diritti concernenti la donna è iniziata verso gli an­ni Settanta, con la legge n. 1204/71 sulla Tutela delle lavoratrici madri, ritenuta una delle migliori in Europa, cui sono poi segui­te analoghe leggi per le lavoratrici autonome (L. 546/87), le libe­re professioniste (L. 379/90). Ancora per quanto riguarda il lavo­ro, nel 1977 viene varata la legge n. 903 sulla parità di trattamen­to tra uomini e donne, che prevede: il divieto di adibire le donne al lavoro notturno (tranne casi particolari), l'estensione alle lavo­ratrici-madri adottive o affidatarie dell'astensione obbligatoria dal lavoro e il diritto di assentarsi per malattia del bambino, l'e­stensione al padre, anche adottivo o affidatario, della facoltà di astenersi dal lavoro per malattia del bambino entro il primo an­no di vita. Certamente un ruolo centrale per l'affermazione dei diritti delle donne (oltre che dei figli) l'ha avuto la riforma del di­ritto di famiglia (L. 151/75), che pone in situazione di parità i co­niugi sia nella direzione della famiglia, sia rispetto alle potestà e agli obblighi nei confronti dei figli.

Sono andati negli ultimi anni aumentando anche una serie di provvedimenti relativi a:

*      i congedi parentali (L. 53/2000: flessibilità nei tempi di astensione obbligatoria da lavoro per maternità, agevola­zioni in caso di parto prematuro, diritto di astensione dal lavoro del padre nei primi 3 mesi dalla nascita del figlio in casi particolari, facoltà anche per il padre di astensione dal lavoro per 10 mesi nei primi 8 anni di vita del figlio);

*      i congedi di cura (riposi giornalieri per alcune ore di accu­dimento dei figli e per parti plurimi, astensioni per malat­tia dei figli, per gravi motivi familiari, ecc.);

*      i congedi formativi (per completamento della formazione di base e per la formazione continua);

*      una serie di diritti nel rapporto di lavoro (divieto di licen­ziamento a causa dei congedi sopra accennati, anticipazio­ne del trattamento di fine rapporto per sostenerne le even­tuali spese, flessibilità dell'orario di lavoro per conciliare tempi di vita e tempi di lavoro);

*      promozione di attività per il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città (orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici, degli uffici periferici delle pubbliche amministrazioni) .

 

Indubbiamente si tratta, nel loro complesso, di provvedimen­ti che tendono a differenziare le condizioni lavorative in base al­le diverse esigenze di cui sono portatrici le donne rispetto agli uomini. Ma è noto, ed è stato anche qui accennato, come molti di questi provvedimenti siano in realtà poco applicati o addirit­tura inapplicati. Anche per quanto riguarda gli interventi di supporto/soste­gno di natura assistenziale-sanitaria degli anni Settanta hanno se­gnato sostanziali mutamenti rispetto al passato. In sintesi si può dire che nasce proprio in quegli anni una concezione dell'assi­stenza non più come elargizione discrezionale a categorie di bi­sognosi (spesso previo "etichettamento" per entrare in possesso della titolarità dei requisiti per avere assistenza), ma come dirit­to di tutti i cittadini in quanto tali. La progressiva affermazione di una serie di diritti (che oggi chiameremmo "di cittadinanza") va impegnando lo Stato nel prefigurare l'attuazione di un com­plesso di moderni servizi, che tengano anche conto dei muta­menti sociali in atto (comprese le trasformazioni della realtà del­la famiglia). Vari autori hanno letto questi cambiamenti nella politica sociale italiana (sempre più in linea con altri paesi euro­pei) come un cammino - pieno tuttavia di contraddizioni e di re­sistenze anche sotto il profilo culturale - verso un alleggerimen­to dei sempre più gravosi compiti familiari, attraverso la promo­zione di interventi rivolti alla cura dei membri deboli: anziani, minori, disabili. Secondo questo tipo di interpretazione, l'esternalizzazione di funzioni tradizionalmente considerate di pertinenza familiare costituisce un processo di defamilizzazione del­le responsabilità di cura. 58

      Sembra di poter leggere in questa prospettiva due provvedi­menti legislativi di quegli anni: innanzitutto la L. 1044/71, istitu­tiva degli asili nido, ampliata negli anni Novanta con la previsio­ne di altri "servizi innovativi" tesi alla socializzazione, educazio­ne, crescita psicofisica dei bambini fino a tre anni. Nonostante la legge, l'armonizzazione delle due finalità - quella di fornire un sollievo alla donna-madre lavoratrice e quella di garantire uno sviluppo psicosociale dei bambini - fatica ancora ad essere rea­lizzata. Ma soprattutto è nota la grave carenza di asili nido (sul territorio nazionale ne sono stati realizzati poco più di 2.000, e soprattutto al Centro-Nord, mentre la legge ne prevedeva almeno 3.800 in 5 anni), con lunghe lista di attesa e costi molto alti.

Ancor più innovativa, e rilevante per la salute psicofisica del­la donna, è stata !'istituzione dei consultori familiari con legge n. 405/75. Alcune delle funzioni dei consultori familiari rappresen­tano forse il maggiore investimento diretto specificamente ai bi­sogni delle donne, sia in relazione alla loro realtà di genere sul piano fisico, sessuale, psicologico, sia con riferimento ai loro ruoli di madre, di moglie, di lavoratrice. Le numerose attività di prevenzione, di sostegno e consulenza, di informazione, di sensi­bilizzazione, di cura, di terapia - e spesso anche di osservazione e studio di fenomeni mai o poco indagati precedentemente - rea­lizzati dai consultori familiari in questi anni, hanno certamente contribuito a creare una "cultura" al femminile, risolvendo pro­blemi di salute personale e familiare e rendendo concreti alcuni obiettivi di prevenzione.

La svolta qualitativa nelle politiche socioassistenziali degli anni settanta, con l'attribuzione agli enti locali della centralità nella progettazione e gestione di servizi per tutti i cittadini, ha vi­sto l'avvio nel decennio successivo di un'ampia produzione legi­slativa a livello regionale, anche di specifico sostegno alle fami­glie - e quindi indirettamente alle donne - riassumibili in gene­rale in:

*      sostegni economici (prestiti agevolati, prestiti per l'acqui­sto della casa, riserve di alloggi di edilizia agevolata, contri­buti per l'abbattimento dei canoni di affitto, assistenza eco­nomica, ecc.);

*      servizi vari di assistenza domiciliare, ricoveri flessibili nel­le strutture per anziani, strutture di accoglienza per le vitti­me di violenze sessuali, centri per la famiglia, ecc.;

*      incentivi per la formazione di nuovi nuclei familiari: mutui a tasso agevolato per le giovani coppie;

*      opportunità a favore delle famiglie: accesso flessibile ai ser­vizi, integrazione e coordinamento tra servizi, sperimenta­zione di nuovi servizi per la famiglia e per !'infanzia.

È noto come fin da allora si sia assistito ad attività ed orien­tamenti molto diversi non solo tra Nord e Sud, ma anche tra re­gione e regione. 59 I successivi tagli alla spesa pubblica sembrano poi aver penalizzato il settore, che continua a soffrire di incom­pletezze e frammentazioni.

Un più dettagliato esame di alcuni provvedimenti - e delle re­lative carenze - verrà presentato in relazione ai sopra descritti profili di donne in difficoltà.

 

 

58 FARGION, V., Geografia della cittadinanza sociale, Il Mulino, Bologna, 1997, n.53.

 

59 Fargion nel volume citato dimostra proprio come le politiche innovative e le conquiste sul piano dell'attuazione di servizi e dell'esigibilità di diritti - anche proprio in favore delle donne - si siano distribuite "a macchia di leopardo" nella realtà italiana, mostrando situazioni molto avanzate e attive, e realtà invece del tutto carenti. Anche tenuto conto di ciò non sembrano oggi esserci ancora forti garanzie di "riequilibrio" fra le realtà regionali, data la maggiore autonomia del­le Regioni nel settore sociosanitario.

 

 

 

 

7.2.2 Uno sguardo all'Europa

La Comunità Europea ha iniziato ad interessarsi della condi­zione femminile dal 1976, con l'emanazione di una Direttiva che stabiliva la parità di trattamento tra uomini e donne nel lavoro e la rimozione delle discriminazioni basate sul sesso. Sono seguiti altri atti -le Raccomandazioni del 1984 e del 1991, la Risoluzio­ne del 1994 - tra cui l'elaborazione di un "Codice di condotta" che indica una serie di linee-guida per lavoratori/lavoratrici, da­tori di lavoro, organizzazioni sindacali finalizzate a stabilire il ri­spetto della dignità nei luoghi di lavoro. La produzione normati­va europea, 60 così come quella statunitense, è stata accompagna­ta da un vivace dibattito delle organizzazioni di donne, pur nella consapevolezza che altri strumenti ed altre azioni sarebbero sta­ti necessari per rendere operativa ed efficace una reale cultura delle pari opportunità.       

      Il recepimento da parte del nostro paese della normativa eu­ropea ha avuto fasi alterne e non si può dire sia approdato a ri­sultati soddisfacenti. Il primo coraggioso atto legislativo risale al 1977, quando Tina Anselmi riesce a far approvare la legge n. 903, la prima sulla parità, che stabilisce il divieto a discriminare le donne sia in ordine all'accesso al lavoro, sia alla retribuzione, al­l'attribuzione di qualifiche, alla progressione di carriera. Nel 1991 viene emanata la legge n. 125, una delle più avanzate in Eu­ropa. Gli esperti concordano nel riconoscere a questa legge il merito di aver focalizzato non solo le discriminazioni "dirette" che possono avvenire nella scuola, nei luoghi di lavoro, rispetto ai compiti di cura familiare, ma anche quelle "indirette" che so­no difficilmente rilevabili perché legate ad una "situazione di sfavore per l'appartenenza ad un gruppo" (tipiche sono le dise­guaglianze retributive o i vari impedimenti alla progressione di carriera). Vengono allora istituiti la figura della Consigliera na­zionale di parità ed un Comitato pari opportunità presso il Mini­stero del lavoro, prevedendo un'analoga articolazione territoria­le a livello regionale e provinciale. Nella maggior parte delle con­trattazioni del lavoro, sia pubblico che privato, viene prevista la costituzione dei Comitati per le Pari Opportunità, e nel contratto 1998-2001 ne vengono specificamente indicati i compiti, tra cui quello di promuovere azioni e proposte in tema di molestie ses­suali nei luoghi di lavoro. I comitati vanno oggi diffondendosi, soprattutto nel pubblico impiego, con il rilevante sostegno delle rappresentanze sindacali unitarie, che promuovono anche l'ado­zione delle disposizioni suggerite dalla Comunità Europea.

Contemporaneamente assistiamo al fenomeno della vanifica­zione, di fatto, di gran parte della normativa, a causa, come già illustrato precedentemente, della carenza di finanziamenti e di indicazioni precise sulle procedure e sugli strumenti per realiz­zarla.

Sembra che la strada da fare sia ancora molta. Da un lato le fasi alterne, le crisi, l'attuale turbolenza nel mercato del lavoro e dell'occupazione, insieme ad una cultura organizzativa ancora incentrata su modelli "neutri" anziché sulla realtà delle differen­ze di genere, tendono ad occultare o dimenticare i problemi e le conseguenze (anche sul rendimento lavorativo!) delle discrimi­nazioni sessuali. Dall'altro lato, le ricerche sul lavoro delle donne e più in generale sulla condizione femminile, oltre alle testimo­nianze di gruppi di donne - compresi i Comitati Pari Opportu­nità, là dove funzionano -lanciano segnali di presa di coscienza e di protagonismo delle stesse donne: come molte autrici sosten­gono, è urgente la necessità di garantire i punti di vista delle donne, la cui tutela e la cui affermazione di pari dignità è realiz­zabile a condizione che esse si facciano soggetto attivo e propo­sitivo di nuove politiche, e non semplicemente oggetto di prote­zione.

 

 

60 Per una esaustiva panoramica della normativa europea, oltre che naziona­le, sulla questione delle "pari opportunità" cfr. BASSO, L. (a cura di), Parità, pari opportunità uomo-donna e lotta alle discriminazioni, Materiali di documentazio­ne, Coop. Libraria Editrice Università di Padova, Padova 2001

 

 

 

7.3 Le risposte alla “donna povera”

 

Come già accennato, il diffondersi di iniziative di sostegno economico al nucleo familiare vede spesso di fatto come princi­pali destinatarie le donne, specialmente se anziane con scarso reddito e sole.

In particolare, dal 1995, prendono avvio interventi di politi­che fiscali in rapporto alla famiglia, quali: detrazioni fiscali per persone a carico, assegni al nucleo familiare in sostituzione dei precedenti "assegni familiari". Inoltre è stato introdotto l'ISEE (Indicatore di situazione economica equivalente, L. n. 449/97; D.Lgs. n. 109/98), cioè uno strumento di valutazione della situa­zione economica per l'accesso ad agevolazioni e prestazioni nor­malmente erogate a livello locale, come ad esempio l'assegno di maternità, erogato dai Comuni alle madri senza copertura previ­denziale, o l'assegno al nucleo familiare con 3 o più figli.

Anche la sperimentazione del reddito minimo di inserimento costituisce un potenziale strumento di contrasto della povertà e dell'esclusione, attuato mediante sussidi economici di integra­zione del reddito. Nella sperimentazione portata a termine in quasi 40 comuni italiani, l'erogazione del reddito minimo di in­serimento è stata subordinata ad un controllo preliminare dei ri­chiedenti e alla definizione di un progetto finalizzato di inseri­mento sociale.

Ma con ogni probabilità l'intervento più diffuso in favore so­prattutto delle anziane sole e delle donne con scarso reddito è l'assistenza economica, erogata dai Comuni in diverse forme (contributi per il "minimo vitale", sussidi una tantum, assegno di accompagnamento per la cura di persone non autosufficienti, contributi per il pagamento dell'affitto e delle utenze, ecc.). Si tratta di interventi prettamente assistenziali, che tendono a com­pensare, troppo spesso in modo insufficiente o appena sufficien­te, le pensioni molto basse o i carichi familiari per la presenza di persone disabili, malate, non autosufficienti.

     Anche le varie forme di servizio domiciliare (assistenza domi­ciliare per la cura della persona e dell'abitazione, assistenza do­miciliare integrata sociosanitaria, spedalizzazione domiciliare, pasti caldi a domicilio, trasporti, ecc.) contribuiscono a sollevare le famiglie, e soprattutto le donne, dalla gestione di situazioni problematiche evitando il più possibile il ricovero delle persone più deboli.

     Vi è però da sottolineare che, oltre alla natura residuale e alla diseguale distribuzione sul territorio nazionale di questi provve­dimenti, gli interventi compensativi del reddito sono in genere esigui e tendono quindi a creare dipendenza dalle istituzioni ero­gatrici. Che poi questa dipendenza colpisca particolarmente le donne lo si ricava da quanto già esposto circa la minore capacità di guadagno delle donne nel mercato del lavoro, la percentuale maggiore di donne anziane, gli esiti della loro dipendenza dal reddito del marito o ex marito capofamiglia.
     Indubbiamente, tra le varie misure di contrasto alla povertà messe in atto, il reddito minimo di inserimento (RMI) sembra presentare importanti vantaggi, sia perché rivolto con criteri "universalistici" a qualsiasi cittadino che presenti un complesso di disagi o di rischi, anziché a prede finite categorie di poveri; sia perché non si limita ad un sussidio monetario ma innesca per­corsi concreti di integrazione sociale. Il limite più evidente del RMI è dato dall'entità del supporto economico, molto al di sotto della soglia di povertà relativa, e dalla evidente difficoltà dei co­muni nell'attrezzare adeguati percorsi di inserimento e socializ­zazione per le famiglie coinvolte dalla misura.
     Ad aggravare questa situazione, vi è il fatto che gran parte de­gli interventi di natura assistenziale è strutturata su un modello "tradizionale" di famiglia, in cui è data per scontata da un lato la dipendenza della donna dal marito e dall'altro la responsabilità femminile del lavoro di cura. Paradossalmente, la dipendenza economica delle donne è stata assunta come una sorta di prote­zione dalla povertà; tale logica è più che mai inadatta a cogliere le necessità di tutte quelle donne che vivono sole (single, madri sole, vedove, anziane sole) e che, conseguentemente, non hanno accesso alla fonte di reddito "maschile". Può esserne considerata una riprova la tendenza degli erogatori di servizi ad incoraggiare innanzi tutto l'impegno di familiari e parenti (naturalmente di solito donne) per la cura di membri deboli, anziché compensare l'eventuale assenza della donna-lavoratrice con la predisposizio­ne di servizi di supporto.

     In questo modo, come già accennato, il sistema di welfare, anziché promuovere opportunità di emancipazione della donna, tende ad accentuarne la dipendenza sociale e istituzionale.
Anche la donna immigrata o a rischio di povertà rientra, al­meno a livello teorico, nei destinatari degli interventi descritti. Ma le sue esigenze particolari (a cominciare dalla difficoltà della lingua) sono difficilmente comprensibili e trattabili dai servizi rivolti ai cittadini italiani. Per questo motivo, in molte località italiane, soprattutto nei grandi e medi comuni del Nord, sono stati costituiti uffici per i cittadini stranieri, che offrono, oltre ad aiuti materiali, anche opportunità culturali, interventi di media­zione, sostegno ed informazione.


 7.4 Le risposte alla madre sola

 

     Ovviamente, vale anche per la madre sola quanto illustrato nel paragrafo precedente. Tuttavia, in questo caso, il sistema di risposte può apparire maggiormente adeguato, in quanto negli ultimi anni le politiche per !'infanzia si sono notevolmente evo­Iute, sia sul versante sociale che su quello più strettamente sani­tario. Basti pensare alle iniziative promosse con l'emanazione della legge n. 285/97 per la promozione dei diritti ed opportunità per !'infanzia e 1'adolescenza.
Evidenti sono poi i risultati di una serie di politiche di tipo sa­nitario, accompagnate da un veloce aumento del benessere com­plessivo della popolazione, inerenti la tutela materno-infantile: ne sono testimonianza il calo del tasso di mortalità infantile (nel 1994 era del 6,5 per mille, mentre tra gli anni 1931 e 1940 rag­giungeva il 122, 7 per mille). Ma qui c'è da precisare che la mor­talità perinatale (cioè nei primi giorni di vita) è calata meno ve­locemente della mortalità infantile: poiché quest'ultima è mag­giormente determinata dalle condizioni ambientali "esogene" in cui viene a trovarsi il bambino (mentre la mortalità perinatale è essenzialmente dovuta a cause cosiddette endogene, in ultima analisi legate più alla qualità dei servizi ostetrico-ginecologici, neo-natali e pediatrici offerti dal sistema sanitario), è stato di­mostrato che la diminuzione della mortalità infantile è avvenuta in larga misura per i miglioramenti delle condizioni socio-am­bientali, mentre i fattori legati alla organizzazione dei servizi ne rivelano tutta la storica arretratezza, che secondo alcuni autori, solo molto lentamente è stata affrontata con specifiche politiche di intervento. 61

     Anche il tasso di mortalità materna si è fortemente ridotto ri­spetto alla prima metà del secolo scorso (è oggi pari al 7 per 100.000 casi), pur presentando le varie zone del paese situazioni molto diversificate, ed essendo i livelli di salute materno-infanti­le complessivamente inferiori a quelli dei paesi del Nord Europa.

     I progressi scientifici e le politiche di protezione della mater­nità e dell'infanzia hanno certamente aumentato il benessere an­che delle donne madri, promuovendo insieme anche processi di modernizzazione sul fronte culturale, di cui spesso sono state protagoniste e promotrici le stesse donne (ciò vale in particolare in Italia per la "conquista" delle leggi di istituzione degli asili ni­do e dei consultori familiari). In questo contesto anche lo status di "madre sola" ha in gran parte perso quella connotazione stig­matizzante che relegava la "madre nubile" o la "divorziata" ai margini della normalità sociale. Eppure, una sorta di inerzia cul­turale che ancora tende ad identificare la donna innanzi tutto in quanto madre (e sposa), sembra permanere nelle scelte di politi­ca e di investimenti sociali. Il già citato problema degli asili nido diventa per la madre sola determinante, sospingendola spesso ad accontentarsi di lavori precari, saltuari, mal retribuiti, e scon­trandosi così con l'altro problema della rigidità e delle sperequa­zioni del mondo del lavoro. Risultano perciò più svantaggiate le madri di bambini fino ai tre anni, perché poi subentra la scuola materna che, a differenza dei nidi, è di fatto un servizio ad ac­cesso universalista.
     Va infine sottolineato che molti degli interventi di cui neces­siterebbero le madri sole, proprio in quanto sole, raramente esplicitano fra i criteri preferenziali di accesso quello dell'essere "madre sola": ciò vale ad esempio per il reddito minimo di inse­rimento ed in generale per gli asili nido.62

 

 

61 FERRARIO, P., Op. dt., p. 233.

62 RUSPINI, E., Teenage lane mothers..., op. cit..

 


7.5 Le risposte alla donna violata


7.5.1 Gli interventi contro la violenza sessuale

 

     L'ampia gamma delle violenze, con particolare riferimento alle donne, sul piano normativo è disciplinata da alcuni articoli del Codice Penale e dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66:

*      art. 591 c.P., Abbandono di persone minori o incapaci: sta­bilisce pene per chi - genitore, figlio, coniuge, tutore - ab­bandona una persona non in grado di provvedere a se stes­sa per varie cause;

*      art. 571 c.P., Abuso dei mezzi di correzione: regola i com­portamenti familiari di maltrattamento fisico o psicologico per l'eccesso di correzione;

*      art. 572 C.P., Maltrattamenti in famiglia: regola tutti gli al­tri maltrattamenti in famiglia;
L. 66/96 "Norme contro la violenza sessuale": punisce i rea­ti di violenza sessuale sia intra che extra familiare. Sono considerati reati di natura sessuale sia il reato di violenza carnale sia gli atti di libidine violenta, configurando così come "violenza sessuale" qualsiasi atto che contrasti la libera autodeterminazione sessuale della persona. Il valore più innovativo della legge riguarda l'acquisizione che non si tratta più di un reato contro la morale bensì contro la persona.

     Grazia Le Mura riporta nel suo volume interessanti conside­razioni circa i costi, non solo economici, riconducibili alla vio­lenza, da cui però non è possibile estrapolare l'entità dei costi specificatamente economici. Il costo più evidente è quello psico­logico e umano pagato dalle vittime - nel nostro caso donne e bambine - e che si traduce sia in prospettive di vita drammatiche o problematiche, sia nei corrispettivi costi sociali, culturali, poli­tici, giuridici, di sicurezza sociale. Si stima che in Canada l'ap­prontamento di servizi diretti a garantire la tutela dalla violenza costi circa 1 miliardo di dollari canadesi all'anno. Gli Stati Uniti spendono dai 5 ai lO miliardi di dollari. Da alcuni studi recenti della Banca inter-americana di sviluppo su 6 paesi dell'America Latina si sono individuate 4 categorie di costi:


     1) costi diretti a carico dello Stato: comprendono gli inter­venti di assistenza psicologica e cure mediche alle vittime, i servizi di sicurezza e di polizia, sistemi di protezione le­gale e di funzionamento dell' organizzazione giudiziaria, interventi e programmi di prevenzione, sensibilizzazione, ascolto, formazione del personale. Si tratta di costi abba­stanza facilmente quantificabili;

     2) costi non monetari totalmente a carico delle vittime, quali stati patologici, possibilità di aumento della mortalità, de­pressione fino al suicidio, eventuale ricorso alla dipenden­za da sostanze stupefacenti o alcoliche;

     3) effetti di moltiplicazione monetaria: riguardano l'inciden­za della violenza nel rendimento lavorativo, nell'occupa­zione, nella produttività inter-generazionale, dovuta alla compromissione delle capacità partecipative della vittima alla vita economica e sociale;

     4) effetti di moltiplicazione sociale: riguardano l'impatto del­la violenza sui rapporti generazionali, sulle relazioni inter­personali, sulla qualità della vita e sulla partecipazione al­la vita democratica.
 
     In base a tali informazioni, è possibile dedurre la gravità ma anche la multidimensionalità delle implicazioni, che impongono risposte molteplici e su più fronti, che abbracciano momenti preventivi, di cura, sostegno e tutela, con forti implicazioni an­che del "pubblico", della società nel suo insieme.

     La preminenza della creazione di una cultura della non vio­lenza suggerisce interventi che coinvolgano più soggetti, profes­sionisti e non, individuali e collettivi, informali e istituzionali. Cruciale è da ritenere anche il coinvolgimento dello stesso ag­gressore, e naturalmente quello della donna-vittima o potenziale vittima. Non possiamo pensare all'aggressore solo come "carne fice", unico e assoluto responsabile del reato. Non vi sono dati statistici in proposito, ma l'esperienza di lavoro nei servizi dimo­stra spesso che è possibile (e necessario) riflettere sui fattori, in­terni ed esterni alle persone autrici di violenze, che richiedono appropriati interventi anche di aiuto. Grazia Le Mura sostiene a proposito che "Occorre creare, anche, dei servizi per gli aggres­sori: spazi in cui visualizzare la propria realtà, luoghi in cui ela­borare le proprie abitudini, ambiti in cui ricostruire la propria relazionalità".63

     La questione del coinvolgimento attivo della donna-vittima è ugualmente cruciale. Non è possibile promuovere cultura di non violenza sulle donne senza l'apporto delle stesse. Come abbiamo già accennato, gli ostacoli sono molti, soprattutto per le vittime, ma è importante riflettere sul fatto che il farsi "soggetto" della propria riabilitazione ed in generale di nuova cultura porta a prefigurare interventi e servizi che abbiano come principale fi­nalità non un aiuto pietistico, foriero di nuova dipendenza, ma attraverso progressive prese di coscienza e sostegni, la promo­zione di autonomia e di protagonismo.

     Sono sempre più numerose le iniziative che sorgono nel pae­se, sia relative all'istituzione di servizi (Centri antiviolenza, Te­lefono Rosa, Centri donna, Case di accoglienza, ecc.), sia a pro­getti ed attività di studio, sensibilizzazione, diffusione, condotti da associazioni, cooperative, ecc.. Di particolare rilievo è ad esempio il progetto pilota "Rete Antiviolenza Città URBAN - Ita­lia". Si tratta di un progetto finanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, che ha coinvolto varie città italiane, allo scopo di individuare indicatori di analisi ambientale rispetto al­la violenza sulle donne, definire protocolli di intervento comune, individuare metodologie per la riorganizzazione dei servizi terri­toriali che si occupano di problemi di violenza alle donne.

     I servizi esistenti (Centri Antiviolenza ecc.) sono prevalente­mente gestiti da associazioni, da cooperative, da organizzazioni religiose, da Province ed altri enti locali. Purtroppo non esistono rilevazioni sistematiche e complete che diano una fotografia del­le iniziative esistenti.

 

 

63 LE MURA, G., La violenza sulle donne, Edizioni Paoline, Milano 2001, p. 178.

 


 
7.5.2 Normativa e interventi contro le molestie sessuali nei luoghi di lavoro

 

     È nell'ambito della normativa, sia europea che italiana, rela­tiva alla lotta contro la discriminazione sessuale che trovano spazio una serie di specificazioni sulle molestie sessuali nel lavoro, 64 anche se ad oggi manca in Italia una legge che disciplini ta­li comportamenti. Pertanto le norme cui in genere si ricorre per denunciare e tutelare le azioni di molestia, oltre alle due citate leggi del 1977 e del 1991 , sono:

*      l'art. 660 del codice penale, che tratta in generale di molestie o disturbo alle persone;

*      l'art. 609 bis del codice penale, che riguarda le violenze ses­suali.

     È evidente che molti dei comportamenti molesti nei luoghi di lavoro non sono configurabili nelle fattispecie previste da questi due articoli. Inoltre resta sempre problematico per molte donne avviare un'azione penale, a causa delle note implicazioni e ri­percussioni che tali azioni comportano, anche solo a livello psi­cologico. Più frequentemente difatti si ricorre all'ambito civile, utilizzando l'art. 2087 del codice civile che regola qualsiasi pro­blema di rapporto tra lavoratore e datore di lavoro.

      Occorre sottolineare che, oltre alla scarsa ricettività del con­testo socioeconomico e politico, la regolazione giuridica del fe­nomeno delle molestie sessuali è un' operazione molto delicata e problematica. C'è sempre il rischio che interventi di tutela si ri­solvano in prezzi troppo alti da pagare per le stesse vittime inte­ressate. J. L. Cohen sintetizza in questo modo il dilemma: "o uguaglianza al prezzo della riservatezza e della repressione o li­bertà e confidenzialità al prezzo dell'ineguaglianza; non sembra possibile avere libertà, riservatezza ed uguaglianza assicurate dalla mano pesante della legge". 65

     Certamente importante, anche se la sua diffusione è ancora li­mitata, è il riferimento al Codice di Condotta, suggerito dalla nor­mativa europea, che consente di ricorrere "a procedure informali e conciliative, capaci di dare soluzione alle contese, ripristinando i necessari equilibri all'interno del posto di lavoro attraverso in­terventi interni all'azienda. L'impegno anche normativo dei Co­mitati è accompagnato dalla promozione di attività sia conosciti­ve che di diffusione di informazioni e sensibilità sul fenomeno (attraverso campagne informative, corsi di formazione spesso or­ganizzati dal sindacato, osservatori regionali e locali, ecc.).

     Il problema delle molestie alle donne sul luogo dei lavoro, co­sì come il complessivo fenomeno della violenza sessuale, è dun­que strettamente legato alla condizione di "dispari opportunità" che contraddistingue ancor oggi la convivenza sociale. Forse è importante riflettere sul fatto che, così come sono numerose le implicazioni e gli ostacoli da rimuovere nei diversi contesti per raggiungere condizioni più eque, è altrettanto vero che migliori condizioni di parità di diritti e di rispetto delle differenze non potranno che migliorare complessivamente la convivenza socia­le, consolidare il concetto di cittadinanza, arricchire di nuovi va­lori e relazioni umane i vari ambiti del vivere civile.

 

 

64 Un'illustrazione completa e dettagliata del fenomeno e delle iniziative in atto per contrastarlo è reperibile in

REGIONE VENETO, AUSER VENETO, Tutela della dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro.

Disposizioni e iniziative delle istituzioni europee contro le molestie sessuali. La situazione in Italia, CLEUP, Padova

2001

 

65 COHEN, J. L., AUTONOMIA PERSONALE E DIRITTO, in "Genere e cittadinanza donne sulla scena politica",

Info anno VI, n. 7-9/2000, p. 15, citato in SIMIONATO, C., op. cit., p. 33.

 

 

 


7.6 Le risposte alla donna prostituita

 

     Nel panorama europeo la tendenza etico-politica di contrasto ai problemi legati alla prostituzione presenta un carattere preva­lentemente "abolizionista". La maggior parte dei paesi dell'Unio­ne Europea tollera la prostituzione solo se svolta come attività li­bera esercitata individualmente, e punisce gli sfruttatori. Se ne discostano paesi come la Germania, la Spagna e la Grecia che adottano un sistema di "regolamentazione" dell'esercizio della prostituzione, e in qualche misura lo adotta anche l'Olanda, mentre la Svezia, nell'ambito della tutela della parità uomo-don­na, va assumendo una tendenza "proibizionista", prevedendo la commina zio ne di pene (multa e reclusione) per i clienti sorpresi a chiedere prestazioni sessuali.

     In Italia il problema si è fortemente acuito negli ultimi anni, con l'arrivo delle donne straniere sul marciapiede, assumendo le connotazioni allarmanti di traffico e tratta di donne (e minori). Per questo motivo nel 1998 è stato istituito il Comitato Intermi­nisteriale di coordinamento delle azioni di governo contro la tratta di donne e minori ai fini di sfruttamento sessuale, presie­duto dai ministri per le Pari Opportunità e della Solidarietà So­ciale.

     Il dipartimento per le Pari Opportunità ha proposto ed otte­nuto che il Testo Unico sull'immigrazione (L. n. 286/98) conte­nesse un articolo di contrasto al traffico di esseri umani. Si trat­ta dell'art. 18, che consente alle donne che desiderano sottrarsi ai trafficanti, di ottenere uno speciale permesso di soggiorno, rin­novabile per motivi di lavoro o di studio, con possibilità di usu­fruire di programmi di assistenza e di tutela. Il valore di questo articolo, che, come già accennato, è scarsamente utilizzato dalle interessate, è anche quello di aver innescato iniziative dirette a contrastare la tratta e a sensibilizzare la popolazione. Difatti le azioni previste, e in parte attuate, riguardano progetti di accoglienza sul territorio, con la collaborazione degli enti locali e del­le organizzazioni non governative; azioni" di sistema", cioè l'isti­tuzione di un Numero Verde contro la tratta, e iniziative di infor­mazione e sensibilizzazione tramite TV, radio, manifesti.
I progetti di accoglienza attivati fino al 2000 sono stati 47, di cui la maggior parte in Lombardia, Veneto, Puglia, e consistono in attività di lavoro di strada, segretariato sociale, supporto per !'integrazione sociale, accoglienze residenziali, inserimenti in fa­miglie, "case di fuga".
Gli organismi che gestiscono questi interventi sono circa 200, di cui un quarto è costituito da amministrazioni pubbliche, e si stima che gli operatori coinvolti siano dai 500 ai 700. Sono state "accolte" 2.900 persone, quasi esclusivamente donne (di cui oltre 80 minorenni), provenienti soprattutto dalla Nigeria e dall'Alba­nia; 41 donne e due bambine sono italiane. I permessi di sog­giorno concessi fino al 2000 per motivi di protezione sociale so­no stati 729. Da parte delle Questure vi è notevole resistenza al rilascio, che spesso richiede faticose mediazioni con le diverse associazioni.

      Lo "spaccato" del fenomeno aperto dall'attivazione del Nu­mero Verde offre anche spunti di inedite risposte: risulta che la postazione Piemonte-VaI d'Aosta, gestita dal Gruppo Abele, ha ricevuto 48 telefonate di clienti (su 160 contatti) che, "emotiva­mente molto coinvolti e spesso psicologicamente fragili, hanno richiesto e ottenuto aiuto per un sostegno psicologico prolunga­to, oltre a un lavoro di "contenimento" e mediazione quando la ragazza viene accompagnata. [...] Ma il supporto del cliente si è rivelato il più delle volte una risorsa, soprattutto nella prima fase di aggancio". 66

     Altre iniziative, prevalentemente attivate da organizzazioni non governative, vanno diffondendosi nel paese. Significativa è la nota esperienza di don Oreste Benzi che ha tolto dalla strada un migliaio di donne. Va anche citato il Gruppo Nazionale di Coordinamento per le azioni contro la tratta, cui appartengono la Caritas Italiana, il Gruppo Abele, la Fondazione Migrantes della CEI, l'USMI: vengono offerte reti di servizi, occasioni for­mative, azioni promozionali verso gli enti pubblici per la realiz­zazione di leggi, servizi, forme di cooperazione con altri paesi.
     Quello comunque che si può osservare sul panorama italiano è da un lato l'obiettiva difficoltà (forse insieme anche allo scarso investimento) a "misurare" e monitorare il fenomeno, ma dall'al­tro la frequente emersione - come una punta di iceberg - di se­gnali preoccupanti: lo si ricava ad esempio da una rassegna-stampa del 2001, in cui compaiono numerosi episodi e testimonianze spesso raccapriccianti di vittime del racket, o consistenti azioni di polizia che scoprono quantità difficilmente immaginabili di s&-uttatori e di incassi. Ma parallelamente sembra crescere anche una grande vivacità di iniziative, sia pubbliche che private, di cui sono maggiormente protagoniste alcune regioni: vi si intrecciano varie ed inedite sperimentazioni di interventi di tutela delle vittime, e azioni repressive dei trafficanti e degli organizzatori.­

 

 

66 GRUPPO MELE, Annuario..., op. cit., p. 729.

 

 


8. ...allora ha senso parlare di povertà al femminile!


     Nel tentare una visione di insieme conclusiva, balza all' oc­chio !'incompletezza dei dati e quindi la difficoltà di disegnare profili e percorsi di povertà o di esclusione sociale delle donne in quanto tali. Ma allo stesso tempo abbondano i segnali che, ma­gari indirettamente, tendono a confermare l'esistenza - o i forti rischi - di problemi legati alla specifica condizione femminile nel nostro paese.

     È’ ampiamente dimostrato, in altri termini, che c'è un som­merso consistente, tangibile, molto variegato, con cui prima o poi le politiche sociali si troveranno a fare i conti. È un sommer­so che talvolta assume la forma delle scatole cinesi: dentro la schiera delle donne povere ci sono le anziane, le madri sole, le donne disoccupate... e dentro a queste ci sono quelle che hanno avuto o hanno lavori precari e sottopagati, ci sono le immigra­te... E dentro le immigrate ci sono le giovani (e le bambine!) ven­dute, strappate, schiavizzate. E in tutti gli strati sociali delle don­ne, forse soprattutto proprio delle più emancipate, ci sono le donne violate, stuprate, molestate...
     Si è visto che le diverse facce del disagio femminile, per qua­lità e dimensioni, non sono decifrabili solo scavando all'interno del mondo femminile; tanto meno si tratta di un disagio aggredi­bile e risolvibile solo dall'interno della condizione femminile. È’ un fenomeno che investe tutta la società e tutte le manifestazio­ni organizzate che strutturano la convivenza sociale: dalla fami­glia, alle istituzioni socioeconomiche, alle politiche di welfare, alle aggregazioni e movimenti della società civile.

     Ma forse l'aspetto più peculiare che emerge dalle ricerche e dagli studi esaminati riguarda la necessità di adottare un punto di vista di genere nel guardare alla realtà. E qui si vorrebbe sgom­brare il campo da possibili equivoci: dare voce al "punto di vista" delle donne non equivale necessariamente ad assumere atteggia­menti rivendicativi di contrapposizione (forse enfatizzati da frange dei movimenti femministi), ma nemmeno a considerare le donne meritevoli di una tutela speciale che prelude all'innescarsi di meccanismi di protezione... e alla fine di nuova dipendenza. Si tratta piuttosto di promuovere una soggettività della donna che è co-protagonismo nella costruzione del sociale, fin dal momento dell'analisi e dell'interpretazione della realtà che tutti viviamo.
     E difatti, una lettura della realtà con un' ottica di genere pre­senta indubbi caratteri di originalità, che una lettura "neutrale" non può svelare con la stessa forza. Gli studi delle donne e sulle donne sono resi possibili dall'adozione di modalità di analisi che potremmo dire "di natura trasversale e disciplinarmente mi­sta", 67 nel senso che esaminano essenzialmente connessioni: scoprono gli interstizi che si frappongono fra realtà micro e ma­cro-sociale, svelano le falle e le contraddizioni dei rapporti tra Stato - vita familiare - vita privata, tra lavoro (domestico/extra­domestico) - cura familiare - riproduzione sociale.

     Perciò gli studi, pur avviati negli ultimi anni anche in Italia, abbisognano di sviluppo e approfondimento su questa linea, in una posizione di integrazione con la cultura tradizionale, troppo spesso connotata solo al maschile. Il potenziale in un certo senso rivoluzionario che ciò comporta, e quindi le resistenze che vi si frappongono, sono ben visibili su vari fronti: se parliamo ad esempio di diritti di cittadinanza, è evidente che, accanto alle conquiste sul piano dei diritti civili già illustrate, molta strada re­sta da fare sul piano dei diritti politici e sociali. Paola Di Cori e Donatella Barazzetti, nell'opera appena citata, sottolineano co­me in Italia, analogamente ai paesi sud-europei - ma anche a Francia e Gran Bretagna - la partecipazione delle donne agli or­ganismi politico-isituzionali non raggiunga il 10% del totale, mentre nei paesi scandinavi essa si avvicini al 50%. Nel campo poi dei diritti sociali si è dimostrato quanto le discriminazioni sia orizzontali che verticali nel mercato del lavoro svantaggino le donne, come esse siano sospinte in lavori di economia sommer­sa, e come la protezione del welfare tenda a privilegiare le rispo­ste in denaro piuttosto che in servizi, "occultando" nei problemi di reddito familiare i problemi di doppia presenza, di maggior vulnerabilità, di deprivazione delle donne. Forse, man mano che crescerà questa soggettività femminile, indissolubilmente legata all'esigibilità di tutta la gamma dei di­ritti di cittadinanza, si farà più visibile la povertà al femminile, e così sarà più aggredibile, e allora... diminuirà?

     Quello che è certo è che una maggior sensibilizzazione, an­che delle stesse donne, e lo sviluppo di una cultura della socialità più coerente con il fatto che il mondo è costituito di uomini e di donne, non potranno che tornare a vantaggio di tutti

 

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67 La tematica della soggettività delle donne in questo ambito è ampiamente analizzata in DI CORI, P.; BARAZZETTI, D., Gli studi delle donne in Italia, Carocci, Roma 2001: le autrici esaminano in particolare le conquiste, ma anche il perma­nere di difficoltà nell' entrata delle donne - e di una cultura teorica al femminile ­ nell'istituzione universitaria italiana, particolarmente connotata dal potere tradi­zionale maschile. Anche il saggio di E. Ruspini sulla povertà delle donne, più vol­te citato, ruota intorno alla necessità (e alla carenza in Italia) dell'adozione di metodologie e tecniche di ricerca 'al femminile' per poter decifrare l'entità e la qualità del fenomeno della povertà femminile.

 

 

 

 


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