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NUMERI SPECIALI DEL M.U.R.S.T.


A cura di Stefano Canali

Canapa Indiana

Tra paradisi e follia
Breve storia della canapa indiana

La canapa indiana nella storia antica


Si suppone che l'uso della canapa indiana cominci in età neolitica nei territori situati a sud ovest del Mar Caspio e corrispondenti all'attuale Afghanistan. La conoscenza della canapa si sarebbe da qui diffusa verso la Cina, dove la sua utilizzazione è documentata nel Rhyya, un testo cinese di botanica del XV secolo a.C. Nel trattato farmacologico risalente al leggendario imperatore Shen Nung, la canapa veniva descritta come sedativo e panacea. Il testo indiano Atharveda indicava la canapa come elemento magico e medicinale.


In India la canapa era ritenuta di origine divina, in quanto derivava dalla metamorfosi dei peli della schiena di Visnu. Come tutti gli oggetti sacri essa possedeva vari epiteti tra i quali quello di Vijahia (fonte di felicità e successo) e di Ananda (che produce la vita).
La canapa era coltivata dai bramini negli orti dei templi e serviva alla preparazione di un infuso chiamato bhang, che, assunto in determinate occasioni rituali favoriva l'unione con la divinità.
Il bhang, bevanda favorita di Indra, la maggiore divinità della più antica mitologia indiana, era un preparato sacro, dotato di poteri taumaturgici e capace di portare fortuna e lavare dal peccato. La divinità Induista Shiva comandava, invece, di ripetere la parola bhang durante la semina, la raccolta e la lavorazione della canapa. Una tradizione del Buddismo Mahayana racconta che nei sei stadi ascetici verso l'illuminazione, Buddha sarebbe sopravvissuto mangiando un seme di canapa al giorno.

 
Gli Assiri bruciavano una sostanza chiamata qunnabu nei loro templi, mentre Caldei e Persiani la conoscevano rispettivamente col nome di kanbun e di kenab. Nell'Avesta persiano la canapa occupava il primo posto in una lista di migliaia sostanze terapeutiche.


La canapa non era una pianta psicotropa cara ai greci, nonostante Erodoto ne avesse svelato le proprietà narrando il suo uso in occasione dei riti funebri presso il popolo degli Sciti nel IV libro delle Storie. «Nel paese degli Sciti cresce una pianta chiamata cannabis, che assomiglia molto al lino, se non che è più grossa e più alta.

Gli Sciti se ne servono per abbandonarsi a certe pratiche loro particolari. Ecco in quale maniera essi procedono. All'interno di una capanna, accuratamente chiusa, essi spargono dei semi di canapa su alcune pietre incandescenti, posate sul fondo di una buca. Il fumo odoroso che sprigiona dai semi bruciati li inebria e li eccita al punto che si mettono a urlare.» Dioscoride, più tardi parlava della canapa nella sua Materia medica, ricordando la sua utilità tessile, i negativi effetti dei suoi semi sulle prestazioni sessuali ed il potere sedativo che essi hanno nei confronti del mal d'orecchi e delle affezioni infiammatorie, ma ignorandone completamente l'attività psicotropa. Più tardi Diodoro rivelava che le donne di Tebe preparavano una bevanda con la canapa che agiva come il nepente di Omero e di Galeno.

Gli arabi e la vicenda del "Veglio della montagna"


Nel mondo islamico la canapa era tenuta in grandissima considerazione. Hashish in arabo significa erba, anzi è l'erba per eccellenza, come se l'attività psicotropa della pianta costituisse la chiave definitoria dell'intero regno vegetale.

 
Gli arabi appresero l'uso della canapa dall'India, dalla Persia e dalla letteratura greca ed introdussero tale sostanze nella loro articolata farmacopea e nell'armamentario delle piante dispensatrici di voluttà ed evasione.

 
Pur senza mai venir menzionata, la canapa è stata protagonista della vicenda leggendaria del "Veglio della Montagna" e della feroce setta dei suoi assassini, narrata da Marco Polo nel Milione, una storia che ha stimolato per secoli l'immaginario occidentale, soprattutto quello dell'epoca Romantica.
Numerose ed antiche sono le varianti narrative di questa storia. Il primo resoconto testuale di questa vicenda ci viene dalla Chronica Slavorum dell'abate Arnoldo di Lubecca, del XII secolo. In essa si raccontava di come l'imam Hasan, infallibile ed onnipotente capo della città fortezza di Alamut si servisse dell'hashish per arruolare dei giovani, renderli privi di volontà e da lui assolutamente dipendenti, in modo tale da spingerli nelle imprese più pericolose, non esluso l'omicidio. Il termine assassini, con cui si indicavano in Europa i componenti di questa devotissimo corpo armato di vendicatori, derivava dall'arabo hashishen, cioè dediti all'erba. Hasan infatti dava loro l'hashish per indurre estasi e visioni fantastiche e, armandoli di pugnale, prometteva che quelle gioie sarebbero diventate eterne se essi avessero eseguito cio' che veniva loro ordinato.

Il "Veglio della montagna" di Marco Polo, invece, aveva realizzato in una valle tra due montagne "lo piu' bello giardino e 'l piu'grande del mondo", fedele riproduzione terrena dell'aldila' maomettano. Qui venivano fatti svegliare, dopo un sonno estatico provocato con un erba, i sicari scelti per le missioni delittuose.


Si faceva loro credere che quello fosse il vero paradiso di Allah, e che avrebbero potuto viverci per sempre se solo avessero obbedito a tutti gli ordini del "Veglio". Gli assassini divennero in seguito le più temute e combattive compagnie militari inquadrate negli eserciti arabi che lottarono contro i crociati. La loro dedizione divenne una sorta di simbolo letterario dei trovatori provenzali, che magnificavano la fedeltà all'amata nell'amor cortese. Anche l'Ordine dei Templari, istituito poco dopo il 1100 a protezione dei viaggi in Terra Santa, sembrerebbe aver mutato simboli e modalità associative dagli assassini.

 
Il riferimento all'erba usata per plagiare gli assassini è presente nell'ottava novella della terza giornata de Decamerone di Boccaccio. Per intrattenersi con la moglie, un abate faceva bere all'ingenuo marito, Ferondo, una pozione fatta con "una polvere di meravigliosa virtù, la quale nelle parti di levante avuta da un gran principe, il quale affermava quella solersi usare per lo Veglio della Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel suo paradiso o trarlone" (1954, p.344).

L'uso di una sostanza di nome benji, assai somigliante alla canapa nell'aspetto e negli effetti, ricorreva spesso anche negli intrighi narrati dalla bella Sheherazade nelle Mille e una notte.

Stranamente essa serviva per addormentare mariti e allo stesso tempo per ravvivare gli ardori e gli slanci degli amanti.

Nel mondo arabo la canapa tuttavia non rappresentò soltanto lo strumento per assoggettare le persone e per portare facilmente a termine gli intrighi amorosi. L'hashish era infatti la chiave di volta della mistica e della pratica spirituale nel sufismo e dei dervisci, usata per sopportare le lunghissime sedute di meditazione e per sperimentare, nell'alterazione delle facoltà mentali, il kif, la felicità e il riscatto eterno attesi dal credente.

La canapa indiana nella cultura europea


Il primo dettagliato resoconto europeo sull'uso e sulle proprietà della canapa è di Franüois Rabelais. Nel Gargantua compare infatti una minuziosa descrizione dell'erba chiamata Pantagruelion_, che testimonia come l'autore doveva avere una grande familiarità con tale pianta. Ciò dipendeva sicuramente dagli studi di medicina fatti da Rabelais, ricordiamo di passaggio che egli è stato il primo a tradurre in francese le opere di Ippocrate e Galeno, ma anche dal fatto che il padre, Antoine, coltivava la canapa nei suoi possedimenti in Turenna.
Più tardi, nell'Ottocento, il mondo e la cultura francese, riscoprendo l'hashish nelle province dell'impero Ottomano conquistate dalle truppe di Napoleone, elevavano la canapa nell'olimpo delle sostanze psicotrope dove prima regnava solitario l'oppio.

Le estatiche voluttà ed il vacuo torpore, il kif, cui si lasciavano abbandonare gli islamici divenne presto esperienza comune tra i borghesi e i giovani romantici parigini.

Nascevano quindi circoli di fumatori d'hashish, luoghi consacrati ad un nuovo culto laico. In un vecchio edificio dell'isola di Saint-Louis, nel cuore di Parigi, l'hotel Pimodan, si trovava il "Club des Haschischins", forse il più noto tra questi club. Vi convenivano alcuni tra i maggiori letterati ed artisti parigini dell'epoca, come Gerard de Nerval, Th,ophile Gautier, Charles Baudelaire, Honor, de Balzac, Boissard de Boisdenier, Honor, Daumier. Dai vasti saloni di questo circolo, i soci venivano idealmente trasportati nei giardini fantastici del "Veglio della montagna".

Raccontava Gautier (1846/1979, p. 20) che era lo stesso Jaques Joseph Moreau de Tour, "il" dottore, capo indiscusso del bizzarro cenacolo - mentore infaticabile dell'hashish -, a distribuire con un mestolo un "pezzetto di pasta o confettura verdastra" agli iniziati: a dispensare una "porzione di paradiso".

Il gusto romantico dell'irrazionale e la nuova sensibilità decadente venivano così saziati con infinite sensazioni e imprevedibili trame di sogno o di incubo, e l'immagine visionaria e tormentosa del mondo propria dei movimenti culturali cui quel gusto e quella sensibilità facevano riferimento, pur evocata dall'azione stupefacente della droga, diventava finalmente realtà.

Moreau de Tours l'hashish e l'indagine della follia da dentro

Non solo teso alla ricerca dell'avventura psichedelica e dell'evasione, era l'uso che Moreau de Tours faceva dell'hashish. Egli aveva provato per la prima volta l'hashish nel 1837, nel corso di uno dei suoi molti viaggi in Oriente ed aveva immediatamente deciso di utilizzarlo "sperimentalmente", come una sorta di sonda chimica per indagare la follia dal di dentro.
Come scrive nel 1845 nel saggio Du haschisch et de l'alienation , egli aveva visto "nell'haschisch, o piuttosto nella sua azione sulle facoltà morali, un mezzo potente, unico, per esplorare le patologie mentali". Moreau de Tours si era convinto che attraverso l'haschisch "si potesse essere iniziati ai misteri dell'alienazione, risalire alla fonte nascosta di quei disordini così numerosi, così vari, così strani che si è soliti indicare col nome collettivo di follia". (1845/1980, pp. 29-30).

Per comprendere le straniate architetture del pensiero folle bisognava averci vissuto dentro, almeno per un momento, ma senza perdere coscienza del delirio, mantenendo la capacità di osservare e giudicare le alterazioni via via sopraggiunte. Secondo Moreau de Tours, questo era possibile assumendo hashish. "Man mano che l'azione dell'haschisch si fa sentire con maggior forza si passa insensibilmente dal mondo reale in un mondo fittizio, immaginario, senza perdere tuttavia la coscienza di se; così che si potrebbe affermare che avvenga una specie di fusione fra lo stato di sogno e lo stato di veglia; si sogna da svegli." (1845/1980, p. 172). Nel suo saggio egli dedicava quindi oltre cento pagine all'analisi degli effetti fisici e psicologici dell'hashish, soffermandosi con cura puntigliosa sulle anomalie alle funzioni psichiche normali che la resina della canapa provocava.

In esse infatti Moreau de Tours scorgeva il segno primordiale della follia, la fonte stessa di ogni delirio e del sogno: indebolirsi del libero arbitrio, azzeramento della volontà e retrocedere all'esercizio automatico delle funzioni psichiche. L'assimilazione della follia al sogno, già cara agli ideologues, recuperava in vesti scientifiche, ed almeno per quanto riguardava l'aspetto fenomenologico di questi due processi psicologici, uno dei temi piu' cari della letteratura romantica. L'idea della follia come travaso del sogno nella vita reale, proposta da un altro famoso consumatore di hashish, Gerard de Nerval, era infatti un luogo comune dell'immaginario dell'epoca.

Guarire il male somministrando la sostanza che provoca sintomi ad esso simili: questo è l'ineffabile razionale della medicina omeopatica. Seguendo la stessa logica, dato che la resina della canapa provoca quadri psicotici, Moreau de Tours tentava la somministrazione dell'hashish nella cura delle malattie mentali.

Castoldi (1994, p. 65) fa notare come ciò suscitò già l'ilarità di alcuni contemporanei come il romanziere Esquiros, che in un articolo del 1845 intitolato "De l'hallucination et des hallucines" scriveva: "Abbiamo avuto modo di seguire noi stessi ultimamente l'impiego dell'haschisch su tre allucinati; il risultato dell'assunzione di questa sostanza e' stato quello di cambiare le visioni solite di questi malati con altre visioni: il fatto e' senz'altro curioso, ma ci sembra lontano dall'essere concludente. Dislocare la natura della follia non significa guarirla."

Dumas, Gautier e Baudelaire

L'esperienza dell'hashish ebbe una risonanza profonda nella temperie culturale di metà Ottocento. Essa era descritta da straordinari interpreti della narrazione e della poesia, come Dumas padre, Gautier e Baudelaire. Il primo dava un notevole contributo all'affermazione del fascino esotico dell'hashish nella cultura francese col celebre passaggio del Conte di Montecristo in cui si racconta l'esperienza dell'hashish di Franz d'Epinay.

 "Il suo corpo sembrava acquisire una leggerezza immateriale, la mente s'illuminava in modo straordinario, i sensi sembravano raddoppiare le loro facoltà; l'orizzonte si dilatava sempre piu', ma non già quell'orizzonte cupo su cui planava un vago terrore, e che aveva contemplato prima di addormentarsi, bensì un orizzonte blu, trasparente, vasto, con tutto ciò che il mare ha d'azzurro, con tutti gli splendori del sole, con tutti i profumi della brezza [...]
Segui' un sogno di voluttà incessante, un amore senza tregua, come quelli promessi dal Profeta agli eletti."

 (Dumas, 1962, pp. 409-12). Gautier pubblicava dei reportage ("Le Hachich", Presse, 10 luglio, 1843; "Le Club des Hachichins" Revue des deux mondes, 1846, 16, pp. 520-35, raccolti e tradotti in italiano in Gautier, 1979) sulle pratiche dei circoli dei fumatori d'hashish e ritraeva minuziosamente le sensazioni e le allucinazioni provocate dalla droga che Moreau de Tours gli aveva procurato. Prima il kif, l'estasi, la agognata liberazione dall'io e dal corpo, le visioni fantastiche straordinariamente dilatate nel tempo. Ma subito dopo l'incubo, la disperazione e l'angoscia, una gelida pietrificazione delle membra e della volontà, la malefica trasfigurazione dei compagni della tossica avventura, da comiche maschere strepitanti di irrefrenabile riso, in personaggi dalle fattezze mostruose e dai modi terrorizzanti. Infine il buio dell'incoscienza, prima del risveglio della ragione.

Gautier prendeva quindi una posizione critica nei confronti dei molti sostenitori dell'uso delle droghe a fini creativi. Nei Recits fantastiques, egli rivendicava l'autonomia e l'autosufficienza dell'artista nel processo creativo, affermando che il vero letterato non gradisce che la sua mente subisca l'influenza di un qualsiasi agente, in quanto ad esso bastano i suoi sogni naturali.
Questa posizione veniva condivisa anche da Baudelaire, che più di ogni altro forse mise in evidenza i pericoli, per l'arte e la letteratura, provocati dalla sempre piu' diffusa dedizione alle sostanze stupefacenti. Non esiste nessuna chimica scorciatoia all'ispirazione poetica e non e' possibile "creare il paradiso con la farmacia", affermava Baudelaire nelle appassionate pagine de I paradisi artificiali. Secondo l'autore de Le fleurs du mal, l'hashish costituiva indubbiamente "uno specchio che dilata, ma un semplice specchio".

Le allucinazioni che tale droga induceva, infatti, erano assimilabili a quelle del "sogno naturale", il sogno popolato dall'esistenza quotidiana, "dai desideri, dai vizi, combinati in modo più o meno bizzarro con gli oggetti intravisti durante la giornata e che si sono indiscretamente fissati sulla vasta tela della memoria" (Baudelaire, 1979, p. 408). Alla banalità del sogno naturale e delle visioni drogate, Baudelaire opponeva il carattere divino e rivelatorio del "sogno assurdo, imprevisto, senza rapporto n‚ connessioni con il carattere, la vita e le passioni del dormiente": il "sogno geroglifico". Da quest'ultimo erompeva, secondo Baudelaire, nei segni di un linguaggio strutturato, ma ancora sconosciuto, la verita' dell'essere, il fondo mistico della vita: "Nell'ebbrezza dell'hascisch non v'e' nulla di simile" (Baudelaire, 1979, p. 409). Ma non solo. Usare la droga per pensare e creare meglio, inevitabilmente portava, secondo Baudelaire, al non poter più pensare e creare senza di essa.

Oltre al deterioramento delle facoltà psicologiche l'hashish portava, secondo Baudelaire, alla disgregazione e alla corruzione sociale, in quanto i suoi particolari piaceri spingevano all'ozio e all'isolamento. Colui che forse meglio tra gli altri intellettuali conosceva le magnetiche seduzioni delle droghe, rinnegava così un elemento fondamentale della sua "maledetta" esistenza. Le pagine de I paradisi artificiali sono comunque segnate da vistose e profonde contraddizioni. Baudelaire infatti, pur denunciando la nefasta azione delle droghe sulla coscienza, sulla morale e sulla volontà, inneggiava ai divini rapimenti prodotti dalle sostanze psicoattive. Ciò, tuttavia, non costituiva un caso singolare della moderna esperienza drogata. Ne I paradisi artificiali troviamo infatti descritto in maniera penetrante e paradigmatica l'atteggiamento ambivalente dell'uomo della civiltà industrializzata di fronte alle droghe, tra misticismo ed evasione, tra sacro e voluttuario, tra fascinazione e terrore.

Bibliografia

 

Baudelaire C. : "Les paradis artificiels"

in Oeuvres completes, Gallimard, Paris, 1975.

Boccaccio : "Decameron"

UTET, Torino, 1956.

Castoldi A. : "Il testo drogato"

Einaudi, Torino, 1994.

Dumas A. : "Le Comte de Monte-Cristo"

Libraire Generale Francaise, Paris, 1962.

Gautier T. : "Il club dei mangiatori di haschisch"

Serra e Riva Editori, 1979, Milano.

Moreau de Tours J.J. : "Du haschisch ed de l'alienation mentale"

Masson, Paris, 1980.

 

Opere di riferimento generale

 

Abel E.L. : "Marihuana, the first twelve thousand years"

Plenum Press, New York, 1980.

Arnao G. : "Erba proibita"

Feltrinelli, Milano, 1979.

Brunner T.F. : "Marijuana in ancient Greece and Rome?"

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        survey" in Furst, P.T., Flesh of the gods, the ritual use of
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Lewin L. : "Phantastika"

Vallardi, Milano, 1928.

Mecholaum R. : "The pharmacohistory of Cannabis Sativa"

in Mecholaum, R., (a cura di), Cannabinoids as Therapeutic agents, ORC Press, Boca Raton, 1986.

Pogliano C. : " Pharmakon". Storia della psicotropismo, 2 voll.

Casamassima Editore, Udine, 1991.

Schultes E. - Hofmann A. (a cura di) : " Plants of the gods "

Healing Arts Press, Rochester, 1992.

Touw M. : " The religious and medicinal uses of cannabis in China, India

       and Tibet" Journal of Psychoactive Drugs, 1981, 13, pp. 23

                     


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