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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Federalismo e Solidarietà: quale impatto sul Welfare?

Studi Zancan n. 5/2003

 

di Domenico Rosati

 

Il termine «federalismo», come un tempo accadde per altre parole in voga dell'uso corrente, come «pro­grammazione» e «partecipazione», ha assunto ormai un carattere «magico», che va oltre il significato letterale e politico del termine stesso. Anche sul piano istituzio­nale è invalsa l'idea, e in alcuni casi l'ideologia, che il federalismo rappresenti la soluzione di molti problemi, mentre in realtà ne costituisce spesso una parte, diffici­le da affrontare perché meno conosciuta. Al punto da ritenere che non sia sufficiente una modifica dell'archi­tettura della Repubblica se manca una vera coscienza federale a tutti i livelli e per tutte le questioni. In pro­posito il caso del welfare risulta senz'altro esemplare, specie nella peculiare dinamica italiana.

 

Un federalismo che procede in senso inverso…

Questa non presenta infatti il classico movimento federalista costituente, dal basso verso l'alto, come de­scritto nel motto degli Stati Uniti d'America e pluribus unum, che rende l'idea del transito dalla divisione all'unità, nel senso che un ambito locale cede sovranità sulle competenze definite (la difesa, la politica estera, la giustizia, la moneta) mantenendo l'autogoverno sulle rimanenti competenze. In Italia ci si muove in direzio­ne inversa: è già costituito un ordinamento unitario, e quindi si tratta di trasferire poteri dal livello centrale al livello locale. Il tutto nel contesto di una Repubblica «una e indivisibile», che rende difficile immaginare l'in­staurazione di rapporti di natura contrattuale tra le re­gioni al fine di dar vita a una nuova struttura. È la ra­gione per cui è sempre stato considerato impraticabile il progetto di chiedere a ciascuna regione di aderire o meno a un patto federale che, a quel punto, avrebbe anche consentito la secessione dei non aderenti. Si tratta di un limite evidente, che deriva però dalla strut­tura unitaria della Repubblica, stabilita da una Costitu­zione che sarebbe violata se venisse adottata una teoria che includa un itinerario di separazioni territoriali, sia pure con facoltà di reingresso nel sistema comune.

 

Quale linea di confine per la cittadinanza sociale?...

Con riferimento al welfare, materia che, a seguito delle modifiche intervenute nel titolo V della Costitu­zione, rientra sicuramente nelle competenze regionali, un tale stato di cose pone una questione di non poco conto, che va enunciata esplicitamente anche se non può essere compiutamente definita in questa sede. Po­sto che un'articolazione di tipo federale, ancorché in­completa come quella italiana, comporta l'esistenza di differenze sia ordinamentali che di contenuto nel mo­do in cui le singole regioni intervengono sulle materie di loro dominio, può esistere una linea di confine - e se esiste, dove si colloca - superando la quale viene meno il carattere unitario della cittadinanza sociale?

Poiché è indubbio che la Costituzione del 1948 contiene il principio di uguaglianza e orienta verso la solidarietà generale, il problema del federalismo italia­no è quello di trovare in concreto un punto d'equi­librio tra l'autodeterminazione regionale e le istanze dell'unica cittadinanza sociale (e politica) degli italiani.

Tutto ciò provoca evidenti conseguenze su due temi forti della discussione in atto: quello della devolu­tion e quello della sussidiarietà.

 

Federalismo e devoluzione…

Quanto alla devolution (una parola che parte dal la­tino devolutio e si ricicla in inglese), va osservato che il suo contenuto concerne l'atto di qualcuno che devolve, cioè assegna o riconosce poteri a un altro. Implica dun­que non un «diritto di attivazione» da parte delle regioni, come sostiene la Lega Nord, ma l'esistenza di un potere superiore (nel nuovo titolo V è il Parlamento) che di­spone che tale trasmissione di poteri avvenga. È una garanzia contro forme di «secessione» che non incide­rebbero sull'unità territoriale ma sull'unità della citta­dinanza, e configura, evidentemente, una situazione in cui il soggetto che devolve si riserva una sfera d'iniziativa in caso di mancato assolvimento o di esor­bitanza nella funzione devoluta. Il fatto che la maggio­re enfasi sulla devo!ution si sia registrata nella situazione del Regno Unito con il riconoscimento dei parlamenti di Irlanda del Nord, Scozia e Galles dovrebbe far ri­flettere sul carattere improprio dell'uso di devo!ution come sinonimo di federalismo, che si è avuto in Italia. Il sistema inglese non è infatti un sistema federale, né la devo!ution in esso realizzata va oltre i limiti di un cer­to decentramento.

 

Sussiadierietà e solidarietà…

Circa l'idea di sussidiarietà, va ricordato che essa evoca un sistema di relazioni tra livelli e ambiti di po­teri e di responsabilità orientato a far sì che il più forte (lo stato verso la regione, la regione verso il comune, ma anche l'istituzione pubblica verso la famiglia o le diverse formazioni sociali) non espropri la capaci­tà/facoltà del più debole di assolvere compiutamente al compito sociale che gli è congenito. Il principio è scritto a chiare lettere nella Costituzione italiana del 1948 sia nei principi generali che in norme specifiche, compresa quella che sottolinea la funzione sociale del­la stessa proprietà privata. Né mancano, a volerle cer­care, esemplificazioni applicative di tale principio nel­l'esperienza repubblicana, in un contesto di bilancia­mento con il ruolo dello stato come riferimento gene­rale del bene comune. Tuttavia molte sono, anche qui, le accezioni del termine. Che viene adottato, ad esem­pio, con un criterio autoreferenziale quando evoca una situazione in cui l'affermazione della sfera privata, o privato-sociale, esclude quella pubblica; o con un crite­rio complementare quando si contemperano le due dimensioni in un rapporto di interdipendenza che è per sua natura articolato e flessibile. L'esperienza con­siglia in ogni caso di non lasciare mai sola la sussidia­rietà e di accompagnarla sempre ad altri criteri, come quello della solidarietà. Va ricordato in ogni caso che la solidarietà attiene all'ordine dei fini, mentre la sussi­diarietà attiene all'ordine degli strumenti. Per cui sem­bra plausibile sostenere che il massimo desiderabile di sussidiarietà è quello che consente di realizzare il mas­simo possibile di solidarietà.

 

Un discutibile senso comune sul federalismo…

Non si tratta di esercitazioni accademiche tra co­stituzionalisti. La discussione teorica non riesce a na­scondere gli aspetti pratici. Soprattutto in alcune aree del nord, e nelle forze che se ne fanno portavoce, è diffuso il senso comune per cui il federalismo, attuan­do il diretto impiego in loco delle risorse prodotte, consentirebbe di risarcire la parte del paese che è stata fin qui «derubata» dai prelievi effettuati da Roma per alimentare assistenzialisticamente le istanze parassitarie del sud e dei ceti non produttivi. Entro tali coordinate, la declinazione della solidarietà non avverrebbe più nel modo classico del prelievo da tutti per dare a chi ha bi­sogno, con una naturale funzione esercitata dal centro, ma attraverso un meccanismo di rapporti interregiona­li nel quale, si sostiene, le regioni erogatrici verrebbero ad essere direttamente interessate a che i loro soldi siano spesi seriamente dai destinatari; questi sarebbero automaticamente sottoposti alla vigilanza dei «datori», con ciò eliminando si ogni assistenzialismo. Dove l'accento cade, inevitabilmente, sulla situazione in cui verrebbero a trovarsi i «beneficiari» di una siffatta soli­darietà in dipendenza dalle disponibilità (e dagli umori locali) posti alla base di un siffatto sistema. Tracce di tale modo di vedere le cose si trovano, come si vedrà più avanti, nel Libro bianco sul welfare prodotto dall'omonimo Ministero all'inizio del 2003.

 

La visione «competitiva» del federalismo …

Esiste poi - e non va ignorata - una visione fun­zionale del federalismo, nella quale l'aggettivo sta a in­dicare che, nella tensione tra globalismo dei mercati e frammentazione della società, un ordinamento federa­le di nuovo genere potrebbe svolgere una missione di equilibrio sia sul piano economico che su quello della rappresentanza generale. In campo economico la competitività dei sistemi-paese non sarebbe più im­pacciata dall'obbligo, per le «punte», di farsi carico del­le zone di ritardo, sicché la velocità non sarebbe più determinata dalla nave più lenta del convoglio. L'idea risulterebbe particolarmente adatta alle esigenze di e­voluzione della società del duemila. Nell'era della glo­balizzazione, che pure conosce i suoi momenti forti di centralizzazione dei comandi (multinazionali, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio ecc.), più che pensare alla configura­zione di corrispondenti poteri politici si tende ad esal­tare la capacità dei territori di farsi agenti della compe­tizione attraendo, mantenendo e promuovendo in pro­prio attività economiche e risorse finanziarie. In questa logica il federalismo si pone come una variante istitu­zionale della flessibilità altrimenti reclamata negli am­biti economico e sociale.

 

Il governo ravvicinato delle politiche sociali

 

In Italia i poteri locali sono entrati nel nuovo sce­nario attraverso due ingressi: quello della presa di co­scienza del carattere «plurale» delle situazioni che in­terpellano i soggetti della tutela sociale e quello delle misure di decentramento «a Costituzione invariata» in­trodotte con le «leggi Bassanini» del finire degli anni novanta. C'è una situazione in movimento nei campi della povertà, del disagio, dell'emarginazione e dell'esclusione. In una società frantumata, tali fenome­ni si manifestano infatti in una pluralità di espressioni che vanno dai casi di miseria irreparabile alle molte versioni della precarietà, all'emergere di esigenze di in­tervento anche all'interno di condizioni «normali». Ovvie le conseguenze sul piano dell'intervento politi­co-sociale, non senza qualche sommovimento di abi­tudini culturali consolidate; e non senza rischi. Il con­cetto consolidato di povertà è legato a un deficit mate­riale che ha una corposità e una visibilità evidenti. E qui la risposta è diretta e semplice, come contromisura di una condizione di precarietà conclamata. Se invece ci si trova di fronte a condizioni differenziate di persone e gruppi sociali e, più ancora, degli stessi soggetti nel tempo, lo svolgimento del tema si fa più complicato.

Anche gli amministratori locali si sono dovuti confrontare con l'improponibilità di risposte uniformi e con l'esigenza di maggiore flessibilità, con il conse­guente appello alla responsabilizzazione dei livelli loca­li come garanzia di efficacia in termini di servizio alle persone. Molte sono, al riguardo, le suggestioni in campo, alcune anche non prive di fantasia terminolo­gica, come quella ultimamente lanciata dalle Acli con lo slogan del «welfare portatile», ennesima versione del municipalismo sociale. Ma gli amministratori non han­no sempre trovato persuasivi siffatti stimoli e non hanno nascosto di essere preoccupati per il rischio di sguarnire le posizioni attualmente protette senza ga­rantire a chi abbia bisogno un sistema equo e adeguato di prestazioni. Con questo spirito hanno vissuto la ge­stazione della legge quadro sull'assistenza, le fasi suc­cessive alla sua approvazione e l'irrompere in campo di fattori nuovi di segno ambiguo e comunque portatori d'incertezza.

 

Decentramento e localismo autogovernato…

All'avventura di un governo ravvicinato del welfa­re erano e sono comunque finalizzate le risposte istitu­zionali in atto o in divenire. Tutto si è mosso nel senso della delocalizzazione e del decentramento autogover­nato degli interventi sociali. L'indirizzo di fondo, con­tenuto nelle varie «leggi Bassanini», è infatti quello di una flessibilità decentrata sempre più orientata verso forme di localismo autocoordinato, dentro un quadro di garanzie minime per tutti. Di qui una legislazione che conferisce poteri effettivi agli enti locali avviando sviluppi inediti di governo del territorio e anche di par­tecipazione popolare.

Come è stato vissuto tutto questo? Aspettative e timori si intrecciano nelle valutazioni dei responsabili locali. In campo economico al decentramento delle ge­stioni corrispondono spesso manifestazioni imponenti di accentramento dei poteri effettivi. E ciò produce ri­flessi sull'organizzazione sociale e politica, in un con­testo culturale che sempre più esplicitamente domanda alla politica di limitarsi ad assecondare i processi spontanei piuttosto che pretendere di governarli. Non è detto dunque che il decentramento, e poi il federali­smo a venire, di per sé assicurino una miglior tutela dei diritti dei poveri, anche se è certo che si sono ampliati notevolmente gli spazi operativi sia delle istituzioni lo­cali che delle formazioni sociali, in una misura mai prima d'oggi conosciuta in Italia.

 

Coordinare gli sforzi per il massimo possibile di sussidiarietà…

La qualità dei risultati dipende, ad ogni modo, dal­la capacità di tutti i soggetti coinvolti nell'occupare gli spazi offerti dal «governo ravvicinato» delle politiche sociali. Tutti gli spazi: quelli dell'iniziativa solidale au­tonoma, che deve sempre dimostrare di essere in gra­do di dare ciò che promette e quindi rendersi disponi­bile a ogni opportuna verifica di qualità e adeguatezza; quelli del concorso alle scelte «di quadro», volte cioè a programmare e graduare le scelte delle politiche sociali in relazione alle esigenze delle persone in un territorio dato, ad esempio attraverso i Piani di zona; quelli infi­ne del controllo sull'attuazione delle scelte, dimensione negletta della vita democratica, da realizzare sia attra­verso i canali istituzionali sia attraverso l'uso ordinario del diritto di parola e di associazione. È questo, co­munque, il terreno più adatto per coltivare il massimo di sinergia tra soggetti sociali motivati e competenti e amministratori pubblici sensibili e rigorosi. Solo in un intreccio virtuoso di idee e di risorse può dispiegarsi quel «massimo desiderabile di sussidiarietà» che con­senta di unificare gli sforzi anziché frammentarli.

 

L’impatto sulle regioni: la n. 328 e la revisione costituzionale

 

        Volendo dare una valutazione sommaria, basata peraltro su atti verificabili oltre che su   un'impressione di fondo, si può sostenere che nel campo del welfare le regioni, nel loro complesso, si sono attenute più alla lettera della legge 328 che allo spirito (e alle potenziali­tà) della riforma del titolo V della Costituzione. Una valutazione che è ulteriormente rafforzata da quanto accaduto, o non accaduto, nei lavori di redazione dei nuovi statuti, sui quali pure le regioni godono di una completa autonomia di determinazioni: un ambito che sarà esplorato più avanti.

 

Un quadro di grande incertezza istituzionale…

Si vedrà più avanti che anche risultanze di recenti ricerche offrono dati significativi a sostegno di quanto affermato sopra. Ma fin d'ora è opportuno sottolineare che la situazione descritta trova una ragionevole spie­gazione nell'incertezza che dal 2001 in poi - e malgra­do la convalida referendaria della riforma del titolo V della Costituzione - ha circondato la prospettiva del mutamento federalista. La «misura» della riforma ap­provata è stata infatti contestata dalla coalizione vinci­trice delle elezioni del 2001 come troppo limitativa delle prerogative regionali; ma non si è manifestata una volontà politica univoca nel determinare un nuovo percorso, con grandi oscillazioni nell'indicazione degli strumenti: un principio di «devoluzione» inserito nel testo già in vigore, oppure in una legge d'attuazione ancora indeterminata, oppure in una riscrittura com­pleta del titolo V, oppure - sembra questo il punto terminale, ancorché provvisorio - in un nuovo disegno organico comprensivo della Camera, delle regioni e dell'integrazione regionale della Corte Costituzionale; il tutto mentre il Parlamento si è già due volte prodot­to nella vuota esercitazione di una prima lettura della devolution e il confronto nella maggioranza si è scatena­to sul punto se includere o meno nel nuovo testo il concetto di «interesse nazionale».

 

Una traccia utile anche se non vincolante la legge 328/00…

Con tante incognite all'orizzonte era più che plau­sibile che i governi regionali rimanessero in attesa di eventi o che si attenessero, come è in effetti accaduto, all'unica traccia disponibile di riordino del sistema, la legge 328, anche se essa aveva perduto il carattere di «legislazione di principio» ai sensi del vecchio art. 117 della Costituzione e con esso ogni significato di vinco­lo per le regioni.

A suggerire tale comportamento concorrevano due circostanze aggiuntive. La prima era costituita dal fatto che la «cultura» della legge 328 era fortemente in­fluenzata dalle tendenze autonomistiche e decentratrici che si erano affermate anche nella legislazione. Si può sostenere che le regioni erano predisposte all'applica­zione sostanziale della legge 328, della quale esse stesse avevano reclamato e ottenuto l'approvazione impe­dendo, nell'autunno del 2000, l'ostruzionismo dell'op­posizione di allora. La seconda circostanza era rappre­sentata dal fatto che il governo insediatosi nel 2001, per autorevoli dichiarazioni dei suoi esponenti, aveva più volte confermato l'intendimento di attenersi, in materia di welfare, alla traccia della legge 328. Si tratta­va di dichiarazioni importanti giacché di altre leggi che non condivideva, come la riforma scolastica di Berlin­guer, lo stesso governo aveva esplicitamente decretato l'azzeramento. Poiché per le politiche sociali non pa­revano profilarsi mutamenti di rilievo, nulla impediva che le regioni prendessero il largo con la bussola della legge 328.

 

Con il libro bianco il clima cambia…

Solo più avanti, dopo che molti si erano messi al lavoro nel senso indicato, sono venuti i segnali di cor­rezione e/o di inversione di rotta, culminati nelle pro­posizioni del Libro bianco sul welfare che hanno inve­stito radicalmente non solo l'impianto normativo ma anche la cultura della legge 328.

Per completezza espositiva va anche aggiunto che a molti amministratori locali, la cui formazione è av­venuta in un clima di «dipendenza» dal centro e che solo negli ultimi anni avevano dato vita a forme più o meno intense di dialettica, veniva più agevole mante­nersi in posizione d'attesa del «nuovo quadro» in cui inserirsi. Ciò spiega perché, salvo poche eccezioni, non vi siano state eclatanti forzature dello status quo. E spiega pure perché il dibattito sugli statuti regionali non abbia conosciuto l'impeto che caratterizzò la pri­ma stagione statutaria, quella degli anni settanta. Allora a minori poteri corrispose una maggiore discussione. Stavolta la discussione è avvenuta senza clamori, an­che se sono da prevedersi contrasti e polemiche soprat­tutto in relazione alle scelte riguardanti l'architettura istituzionale e gli assetti di potere, come è accaduto per il primo statuto approvato, quello della Calabria.

Frettolosamente si potrebbe leggere lo svolgersi in sordina dei dibattiti regionali come la documentazione del fatto che il fascino del federalismo opera più al li­vello delle architetture nazionali che non nell'ambito del concreto esercizio delle autonomie. Ma sarebbe un'ingiusta semplificazione. Probabilmente è più fon­dato sostenere che la costruzione di un ordinamento e di una cultura federalisti non sono opera d'un giorno, e che quindi è più utile seguire gli sviluppi di un pro­cesso che per sua natura deve essere graduale che non limitarsi allo scatto di qualche istantanea che misuri lo scarto tra il promesso e il realizzato, tra il progetto e l'opera compiuta.

 

Prime perizie sui lavori in corso

 

Il Rapporto di ricerca sullo stato di attuazione della riforma del weifare locale, prodotto dal Formez per con­to del Ministero del Welfare e aggiornato a febbraio 2003, e il volume dell'associazione Nuovo welfare su Il lungo cammino della riforma, aggiornato al 2002 ma ricco di spunti attuali, costituiscono utili punti di rife­rimento per un approccio analitico allo stato dell'arte nelle singole regioni in merito all'avanzamento dei la­vori di traduzione della legge 328 e più in generale di costituzione dei sistemi integrati regionali.

 

La lentezza dei legislatori regionali…

In entrambi gli studi si nota che, nonostante il 10­ro continuo richiamo alla potestà legislativa regionale in materia sociale, le regioni stanno procedendo con molta lentezza in un ambito che pure hanno fortemen­te rivendicato. In linea generale mancano provvedi­menti impegnativi per configurare i sistemi di welfare sul piano organizzativo-gestionale: mancano le norme in tema di accreditamento, quelle sulle Ipab, quelle sul­l'esternalizzazione dei servizi, e così dicasi delle moda­lità per promuovere la gestione unitaria dei servizi da parte dei comuni e per i criteri per la regolamentazione dell'accesso alle prestazioni.

Queste e altre lacune, che si sommano a inadem­pienze centrali (si pensi al mancato decreto delegato per il riordino degli emolumenti economici, dal quale si sarebbero tratte risorse notevoli), non consentono tuttavia di denunciare uno stato di passività delle regioni, le quali hanno comunque fatto in modo che la materia avesse in loco una sua regolamentazione, a volte con strumenti ad hoc, a volte riciclando disposi­zioni precedenti all'anno 2000 ma ritenute compatibili con la riforma o di essa anticipatrici.

Senza affrontare qui la casistica delle scelte regio­nali, si possono indicare le due principali modalità isti­tuzionali con cui le regioni si sono mosse: le leggi di ri­forma e/o i piani regionali. Ad essi si farà riferimento per trame gli indici essenziali di convergenza o di sco­stamento dalla linea guida della 328.

 

Leggi di «trapianto» e piani regionali…

Leggi di «trapianto» della 328, o comunque di ri­ordino della materia, sono state definite o sono in via di definizione in Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Puglia, Calabria, Sardegna e Sicilia.

Altrove si è invece proceduto al riordino median­te i «piani»: Lazio, Basilicata, Marche, Umbria e Pro­vincia autonoma di Bolzano, che hanno deliberato prima della legge ma seguendone i criteri ormai noti; poi Abruzzo, Liguria, Sicilia, Toscana e Provincia au­tonoma di Trento. La Campania segue un proprio iti­nerario sperimentale, mentre Friuli Venezia Giulia e Molise sembrano in ritardo. La Lombardia opera sulla base del Piano sociosanitario.

Al di là dello strumento prescelto, quali sono gli orientamenti delle regioni sui punti sensibili della legge 328?

Volendo anche qui procedere per sintesi si può compiere una verifica su tre poli d'indagine: il territo­rio e i Piani di zona, l'integrazione degli interventi e dei servizi, i livelli essenziali e uniformi di assistenza.

 

…Il territorio e il Piano di zona

Figlio della dottrina che asserisce «un territorio, un governo», dalla quale in campo sociale sono deriva­te istituzioni unitarie, come per la sanità le aziende UsI e per i servizi sociali le «unità locali», il Piano di zona è nella legge 328 il cuore della programmazione delle politiche sociali sul territorio. Spetta ai comuni la defi­nizione dei «piani» mediante gli accordi di programma, cui partecipano soggetti pubblici e privati che «mettono a monte» esigenze e risorse per realizzare il «siste­ma integrato», da gestire mediante l'associazione dei comuni interessati. La legge punta in tal modo alla formazione di una rete di servizi, coincidente in genere con il distretto sanitario, che abbia la necessaria flessi­bilità e impieghi le risorse in modo ottimale. È dunque importante verificare come nell'esperienza delle singo­le realtà locali sia stato costruito questo essenziale mo­mento di programmazione e come esso abbia in con­creto segnato il passaggio dall'esclusiva del governo pubblico a una visione di cooperazione di una molte­plicità di soggetti pubblici, privati e privato-sociali, mi­rando nel contempo al massimo di sinergia con l'ambi­to sanitario.

 

Un quadro altamente differenziato…

Secondo la rilevazione del Formez, su questo punto le regioni «stanno procedendo a velocità diver­se: da chi ha anticipato la legge n. 328/00 con una propria normativa sui Piani di zona e sta passando alla loro nuova edizione per il secondo triennio a chi si è attivato tempestivamente dopo l'approvazione della legge quadro, ponendo scadenze precise agli ambiti, ma sostenendoli anche con accompagnamento e linee guida intesi a favorire i processi di costruzione dei pia­ni, a chi ha finora ignorato le indicazioni della legge quadro e non ha ancora, a tutt'oggi, effettuato alcun passo significativo in questa direzione».

Quanto alle scelte di governo della programma­zione, si manifestano, anche qui in sintesi, due tipolo­gie di rapporto: una di accompagnamento e una di prescrizione.

Vi sono regioni che hanno scelto di esercitare ver­so gli ambiti zonali un ruolo promozionale e di ac­compagnamento, in alcuni casi coinvolgendo nel pro­cesso le province e le aziende UsI.

 

Logiche promozionali e logiche prescrittive…

Vi sono poi regioni che hanno assunto nei con­fronti degli ambiti una funzione più prescrittiva, di indirizzo, indicando alcuni criteri e contenuti da inserire nei Piani di zona, ed esercitando controlli e verifiche per presidiare l'omogeneità delle scelte territoriali in coerenza con gli indirizzi regionali. Il ruolo degli enti intermedi in tal caso o non è contemplato o assume una funzione più ispettiva e di controllo che non di partnership finalizzata a promuovere e a condividere un'ottica progettuale e strategica a livello di ambito.

L'esempio più significativo a questo riguardo è quello della Lombardia, dove il processo è stato avvia­to attraverso una circolare che presenta indirizzi pre­scrittivi specifici e originali rispetto alla 328 (come ad esempio la richiesta di destinare, in linea tendenziale nel triennio, il 70 per cento del fondo a interventi at­traverso assegni di cura e voucher). Nella stessa circola­re è prevista l'attribuzione all'azienda UsI di un compi­to di controllo rispetto all'osservanza delle prescrizioni regionali.

 

Il diverso ruolo assegnato alle aziende sanitarie…

Il ruolo diverso dell'azienda UsI può dare l'idea della differenza d'impianto: nel primo caso l'azienda UsI è un partner alla pari di altri soggetti in fase di progettazione partecipata dei moduli integrati; nel se­condo caso è l'agente di controllo dell'esistenza dei re­quisiti fissati dalla regione. In questa seconda versione, sono evidenti le ricadute limitative sull'autonomia dei comuni, i quali rivendicano l'autonomia che la legge loro riconosce nella funzione di programmazione.

Poiché quello dei Piani di zona è anche il campo d'elezione della sussidiarietà orizzontale, sarebbe inte­ressante, a questo punto, presentare le linee di tenden­za emergenti, che tuttavia si possono soltanto intuire perché, come sottolinea il rapporto Formez, i livelli regionali non mettono a fuoco adeguatamente il siste­ma dei rapporti tra istituzioni ed espressioni del plura­lismo sociale nella costruzione delle dinamiche locali di welfare. Di certo si può ipotizzare anche qui una sca­la delle disponibilità, con regioni particolarmente sen­sibili nel promuovere questa dimensione ed altre che questa dimensione non la negano, ma neppure la sot­tolineano. In questo quadro sembra tuttavia prevalere una tendenza politica alla promozione della partecipa­zione del terzo .settore, in una logica di governance del sistema integrato.

 

Rischi di verticismo…

È corretto sottolineare che ciò marca un significa­tivo cambiamento rispetto alle prassi precedenti. Dove si è operato dentro i parametri definiti dalla legge 328, il Piano di zona è divenuto un'occasione per affermare l'innovazione nel governo delle politiche sociali verso la sussidiarietà sia verticale che orizzontale, con una funzione regionale di indirizzo, stimolo, accompagna­mento e promozione del miglioramento continuo.

Dove viceversa ci si è discostati da tali requisiti cre­scono le probabilità di una progressiva svalutazione delle potenzialità dei territori. Il rischio principale è che un esercizio della funzione regionale di governo orientata alla prescrittività e all'introduzione di vincoli configuri un verticismo di secondo livello, e quindi af­fidi alle dimensioni territoriali ruoli di mera esecuzio­ne, con la definitiva sepoltura di ogni visione munici­pale del welfare.

 

….La prospettiva dell'integrazione

Nel testo della legge 328 si deve aspettare l'arti­colo 22 per imbattersi in una «definizione del sistema integrato di interventi e servizi sociali» che non può, del resto, ritenersi esaustiva. Giova riportarla: «lI si­stema integrato di interventi e servizi sociali si realizza mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale, integrando servizi alla persona e al nucleo familiare con eventuali misure economiche, e la definizione di percorsi attivi volti a ottimizzare l'efficacia delle risorse, impedire sovrapposizione di competenze e settorializzazione delle risposte». Dietro la genericità della formula si intuisce tuttavia un dise­gno a dir poco ambizioso di riordino e di razionalizza­zione che tende a utilizzare una pluralità di competen­ze e di strumenti per il fine unitario enunciato all'arti­colo 1: «garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, nonché e­liminare o ridurre le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio, individuale e familiare, derivanti da inade­guatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione».

L'integrazione del sistema va riguardata, essen­zialmente, sotto tre profili: gli interventi e i servizi che si integrano, i soggetti che concorrono all'integrazione, le modalità dell'integrazione stessa.

    Il principio animatore è quello che vede nell'inte­grazione degli strumenti l'attuazione concreta della li­nea dei servizi alla persona, che si traduce, quando è ben intesa, nell'orientamento alla personalizzazione de­gli interventi e dei servizi, vale a dire in progetti perso­nalizzati di sostegno. Un orientamento che nella legge è esplicitato a proposito dei progetti individuali per le persone disabili, ma che fornisce la chiave di lettura logica dell'intero provvedimento.

 

L’integrazione limitata al sociale…

Rispetto a tali premesse, quali sono state le rispo­ste delle regioni? Anche qui conviene concentrare l'at­tenzione su alcune situazioni significative, non senza aver rilevato che in genere prevale un concetto di inte­grazione che si concentra sull'ambito dei servizi socia­li, escludendo tassativamente l'ambito formativo, che pure riveste una funzione essenziale, e investendo solo marginalmente l'ambito sanitario, ad eccezione della Lombardia dove, come si è visto, l'integrazione avvie­ne a partire dal «sanitario» con un procedimento di in­clusione in esso del sociale.

A parte la Lombardia, differenze e accentuazioni diverse si possono cogliere comparando, tra le elabo­razioni regionali disponibili, quelle dell'Emilia Roma­gna, quelle del Veneto e quelle della Calabria, la prima già codificata in legge, la seconda e la terza in fase pre­paratoria.

 

Indicazioni dalla legislazione in fieri…

        Quanto agli interventi e ai servizi da integrare, l'Emilia Romagna, che sceglie la formula del «sistema a rete», fornisce un lungo elenco di prestazioni che fa coincidere con i «livelli essenziali» da garantire a tutti: si intende un orientamento impegnativo per la gestio­ne integrata di tali prestazioni mediante la programma­zione e la responsabilità dei soggetti coinvolti. Da par­te sua il Veneto colloca sotto il titolo «Sistema dei ser­vizi sociali» una serie di indicazioni metodo logiche per l'istituzione di «associazioni intercomunali finalizzate alla gestione associata dei servizi sociali»: si intende che le associazioni procedono autonomamente anche se la regione si riserva di sovrintendere all'andamento dei rapporti locali e al controllo della qualità dei servi­zi. Per la Calabria, infine, il testo provvisorio disponi­bile in parte parafrasa le norme della legge 328, in par­te enuncia alcune linee guida che attengono alle buone prassi da seguire, e quindi produce un vasto catalogo di «tipologie di servizi» da ritenersi aperto per via di un «tra l'altro» che lo precede e che include anche i «centri educativi occupazionali» e i «servizi di promozione culturale e per il tempo libero».

        Quanto ai soggetti che concorrono all'integra­zione, il documento dell'Emilia Romagna assegna ai comuni la titolarità «delle funzioni amministrative e dei compiti di programmazione, progettazione e realizza­zione» del «sistema locale dei servizi sociali a rete», con il compito di agire «assicurando e promuovendo il concorso dei soggetti del terzo settore» e di altri sog­getti indicati specificamente «alla progettazione e rea­lizzazione del sistema locale dei servizi», avendo cura di «valorizzare» le realtà presenti sul territorio. È previ­sta la delega alle aziende UsI della gestione di attività o servizi socio assistenziali, ma nell'ambito dei Piani di zona e con la stipula di apposite convenzioni. Il Vene­to punta a realizzare l'integrazione dei soggetti me­diante un sistema di accordi tra i vari livelli istituzionali (regione, province, comuni, comunità montane e Uni­tà locali dei servizi) e i «soggetti attivi nella progetta­zione e realizzazione degli interventi e servizi sociali», con un'elencazione che mette sotto il titolo di «terzo settore» le organizzazioni di volontariato, le associa­zioni e gli enti di promozione sociale, gli organismi della cooperazione e le cooperative sociali, le fonda­zioni, i patronati, altri soggetti non lucrativi; tutti chiamati a gestire e offrire servizi, nonché a progettare e realizzare interventi. Regione e comuni promuovono la concertazione tra tali figure e «svolgono funzioni di intermediazione tra gli interessi istituzionali e quelli dei diversi soggetti sociali». Nella scelta della Calabria «i comuni e gli enti locali programmano, progettano e realizzano» il sistema dei servizi sociali a rete «attraver­so la concertazione delle risorse umane e finanziarie locali». La «realizzazione concertata» del disegno è evocata con un rinvio che è esplicito per «il contributo delle organizzazioni sindacali e delle associazioni so­ciali e di tutela degli utenti», mentre è richiamato da un ulteriore rinvio il «pacchetto» dei soggetti del terzo set­tore e affini, desunto di peso dalla legge quadro.

 

Coinvolgimento della società civile, ma sotto controllo istituzionale…

        Le modalità dell'integrazione conseguono, in tutte le situazioni considerate, alle scelte compiute circa gli ambiti e i soggetti dell'integrazione stessa. Per quanto sia aleatorio esprimere valutazioni sulla base di ele­menti in gran parte non stabilizzati, sembra tuttavia di poter ravvisare in tutti e tre i casi esaminati un orien­tamento comune: massimo coinvolgimento delle figu­re della società civile ma con la catena di comando sal­damente agganciata alle responsabilità istituzionali, con una scala delle durezze che vede al primo posto la Ca­labria, ma non si «intenerisce» quando si passa all'Emi­lia Romagna e al Veneto.

       Se la constatazione non è infondata, due sono le illazioni alternative, o complementari, che ne conse­guono. O le regioni non credono alla suggestione della «sussidiarietà diffusa» come matrice virtuosa del nuovo welfare, oppure esercitano la regola della prudenza, vuoi per sfiducia verso l'immissione di nuovi soggetti, o per vocazione al mantenimento del potere di secon­do livello, o per altre ragioni che si possono ipotizzare ma che, nell'insieme, portano a concludere, quale che sia la valutazione del fatto, che il modello del welfare prossimo venturo sarà per lungo tempo simile a quello del passato. Almeno finché non si chiariscono aspetti preliminari come quello dei livelli essenziali delle pre­stazioni.

 

….I livelli essenziali

Quello dei «livelli essenziali» è uno degli snodi es­senziali di una riforma del welfare che voglia essere dav­vero «federalista», cioè diversamente unitaria. L'espres­sione ha due significati. Il primo è la misura «necessa­ria» delle prestazioni che debbono essere garantite a tutti e su tutto il territorio nazionale: contrasto alla po­vertà e sostegno al reddito, sussidi per la permanenza a domicilio di persone non auto sufficienti, disabili o an­ziane, sostegno ai minori in disagio, alle responsabilità familiari e alle donne in difficoltà o disabili, accoglien­za in strutture, contrasto delle dipendenze. Il secondo significato concerne gli interventi previsti in ogni am­bito territoriale (piano di zona): il servizio sociale pro­fessionale, il segretariato sociale, il servizio di pronto intervento sociale, l'assistenza domiciliare, le strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali, centri di accoglienza residenziali o diurni a ca­rattere comunitario.

In presenza di tali orientamenti, come si sono comportate le regioni? È ovvio constatare, come fa il rapporto Formez, che «hanno agito in maniera diffe­renziata». Meglio riconoscere che ogni regione ha fatto quel che ha potuto in presenza di chiare indicazioni, come quelle della legge, e in assenza di determinazioni fondamentali da parte del governo, tenuto, a norma di Costituzione, a deliberare, appunto, sui «livelli essen­ziali», unica competenza esclusiva rimasta allo stato dopo l'avvenuta regionalizzazione delle politiche so­ciali e sanitarie.

Che cosa è accaduto? Le regioni che già negli anni novanta si erano mosse verso l'integrazione si sono sentite incoraggiate a continuare. È avvenuto in A­bruzzo, dove già dal 1998 si erano indicati due tipi di prestazioni obbligatorie, il segretariato sociale e il ser­vizio per infanzia e adolescenza, da realizzare in ma­niera integrata e associata fra i comuni. La legge 328 ha consentito di rendere obbligatoria la gestione asso­ciata di tali servizi e prestazioni. A febbraio 2003, fon­te Formez, otto regioni fanno riferimento ai livelli con indicazioni in merito alle due dimensioni sopra indivi­duate (prestazioni e interventi). «Tra queste l'Abruzzo, la Basilicata, la Liguria lo hanno fatto con gli atti di programmazione più recenti, facendoli già recepire nell'ambito dei Piani di zona 2002 presentati dagli am­biti territoriali». Altre regioni, «pur non avendo ancora recepito la legge 328/00 in merito al livello dei servizi essenziali, si trovavano a fine 2002 in una fase avanza­ta di elaborazione di testi normativi o documenti di programmazione in tal senso (ad esempio, la Puglia e la Campania) ».

 

Linguaggi diversi…

C'è poi da rilevare il carattere disomogeneo delle norme regionali, nel senso che non tutte parlano la stessa lingua quando deliberano sui «livelli essenziali». Ad esempio, «in alcune norme si prevedono interventi differenziati a seconda del tipo di utenza», in altri casi ci si limita a riprodurre il disposto della legge quadro, in altri se ne offre una versione restrittiva, in altri e­stensiva. Si segnala al riguardo la Toscana, in cui il nuovo piano sociale regionale prevede anche un primo tentativo di introduzione a livello generalizzato della sperimentazione del reddito minimo di inserimento. Nelle Marche e in Umbria l'intervento di servizio so­ciale professionale e di segretariato si è incarnato ri­spettivamente in «Uffici di promozione sociale» e «Uf­fici di cittadinanza sociale», con cui si intende creare una porta di accesso unitaria ai servizi. In Campania si parla di una «porta unitaria» di accesso alle prestazioni sociali e socio sanitarie e si delineano alcuni livelli es­senziali di servizio per l'area minori e per l'area delle disabilità. Poche realtà, tra cui la Basilicata, hanno in­vece indicato specificatamente quali sono i requisiti che i singoli territori debbono rispettare nella costru­zione del livello essenziale dei servizi. Altrove, come in Umbria, si è fissato il numero degli operatori, la specifica professionalità loro richiesta e il rapporto fra pre­senza di servizi e numero di utenti/bacino demografi­co di riferimento. Per gli «Uffici di cittadinanza», ad esempio, si immagina la presenza di un «ufficio» ogni 10 mila abitanti, con una dotazione di personale carat­terizzata da due assistenti sociali, un educatore e un operatore della comunicazione. La Liguria prevede l'attivazione di «distretti sociali», caratterizzati dalla presenza di almeno 4 mila abitanti, incentivando fi­nanziariamente i comuni inferiori a mille abitanti ad associarsi per assicurare i livelli essenziali di assistenza, definiti prestazioni di base o a carattere distrettuale (sub-ambito), mentre le prestazioni più complesse as­sumono un carattere sovradistrettuale o di ambito.

 

La mancata definizione dei livelli essenziali in sede nazionale…

Il rapporto Formez osserva che le regioni avreb­bero potuto meglio esercitarsi nella definizione dei «li­velli essenziali» se avessero modulato la propria inizia­tiva sulla base dei decreti ministeriali relativi al com­parto sanitario, usando i «Le a» quale «primo elemento per comprendere una successiva fissazione dei Liveas, i livelli essenziali di assistenza appunto». E aggiunge che un numero molto limitato di regioni ha recepito le indicazioni nazionali in tema di Leas, mentre le altre regioni sono in una fase di recepimento o attendono ulteriori possibili modifiche operate a livello nazionale. La tesi è opinabile, e comunque c'è un dato da consi­derare che indebolisce l'argomento: si tratta della man­canza di una determinazione governativa sulla materia specifica dei Liveas; un'omissione che si aggrava con il solo trascorrere del tempo perché toglie fondamento alla prospettiva universalistica del sistema integrato. Non è solo questione di risorse ma anche di orienta­mento politico generale. Questo viene confermato dai contenuti del Libro bianco, sopraggiunto a precisare gli intendimenti del governo in materia.

 

Il problema del finanziamento…

Anche il Cnel, Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, si è occupato dei Liveas con «Osserva­zioni e proposte» in data 18 luglio 2002, sottolineando in particolare il problema del loro finanziamento in modo che «siano usufruibili da ciascun avente diritto su tutto il territorio nazionale». A tale proposito si au­spicano l'ampliamento dei «fondi integrativi» e l'inter­vento delle fondazioni bancarie, avendo però cura di rilevare che, data la concentrazione delle risorse nelle aree più sviluppate del paese, ne potrebbero derivare «problemi di equità distributiva». Di qui la proposta di creare un «fondo aggiuntivo» con il coinvolgimento «del più ampio sistema organizzato dai soggetti collet­tivi e dagli operatori sociali del settore». Il fondo an­drebbe poi ripartito «in modo da assicurare un pari ac­cesso ai servizi e un pari esercizio dei diritti». Si cerca­no insomma nuove fonti di finanziamento, nel pre­supposto che quelle disponibili non siano sufficienti, e ci si affida ai meccanismi della concertazione sociale e istituzionale per il più efficace conseguimento degli obiettivi. Un atteggiamento in cui è trasparente il desiderio di dare una mano per alleviare le difficoltà finan­ziarie del governo, non però fino al punto da lasciare in deperimento (come purtroppo sta avvenendo) una garanzia dei diritti che «è il tratto caratteristico del­l'identità di una comunità politica».

 

La questione dell’esigibilità…

Il ristagno del tavolo di lavoro governo-regioni sui Liveas toglie motivazioni all'impegno delle regioni nel­la costruzione del sistema integrato. È la ragione per cui anche là dove si è deliberato in materia di «livelli essenziali» si preferisce non applicare gli standard in modo vincolante, lasciando ai comuni le scelte opera­tive. È questo un passaggio non adeguatamente messo a fuoco nelle rilevazioni sin qui effettuate. In effetti, la determinazione dei Liveas è la condizione di esigibilità dei servizi da parte dei cittadini. La questione dell'esi­gibilità fu posta durante e dopo il varo della legge 328 che si regge, per il punto specifico, su un equilibrio condizionato. Le regioni e i comuni, infatti, sono tenuti a garantire le prestazioni dovute, ma nell'ambito delle risorse disponibili. Ne nasce un meccanismo a tenaglia che funziona soltanto se ciascun livello fa il proprio dovere. Per il livello nazionale, si tratta di indicare i pa­rametri universali da realizzare per tutti, e ciò compor­ta il correlativo approntamento delle risorse. Che non debbono necessariamente coprire - è importante rile­varlo - l'intero fabbisogno, ma debbono almeno forni­re ai livelli di programmazione e gestione l'ordine di grandezza degli impegni ai quali far fronte, ricorrendo poi, come è logico in un ordinamento federale, alla contribuzione locale.

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Scelte strategiche destabilizzanti

La presa di distanza dalla legge di riforma…

Nel quadro già complesso di una riforma annun­ciata ma non vincolante ed esposta alle insidie di una devoluzione senza argini, si sono inserite, nel corso dell'ultimo anno, due novità che denotano come la vo­lontà politica del governo si stia disco stando dal­l'iniziale asserita aderenza al quadro della legge 328 e si stia avviando verso territori meno conosciuti e proba­bilmente più insidiosi. La prima novità è l'abbandono da parte del governo dell'impegno, contenuto nella 328, di procedere alla generalizzazione del «reddito minimo d'inserimento». La seconda è l'orientamento strategico del Libro bianco del Ministero del Welfare, che si attesta su una linea chiaramente deregolatrice del welfare e comunque anch'essa esplicitamente diver­gente dalle scelte della «legge quadro», specificamente in tema di «livelli essenziali».

 

Addio al reddito minimo di inserimento…

A proposito del reddito minimo d'inserimento (Rmi), che nell'impianto della legge 328 rappresentava il primo gradino dei livelli essenziali come strumento di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale, l'o­rientamento governativo è quello per cui, «per l'anno 2003, scaduta la sperimentazione... il sistema di soste­gno al reddito è completato [ma cosa c'era da comple­tare?!] da uno strumento di ultima istanza, caratterizza­to da elementi solidaristici e finanziato dalla fiscalità generale». Sono le stesse parole contenute nel «Patto per l'Italia» del luglio 2002, e la loro semplice ripeti­zione mostra che non si è voluto tener conto delle molte obiezioni manifestate da più parti alla duplice decisione che allora fu presa: quella di troncare la spe­rimentazione e soprattutto quella di non generalizzare il reddito minimo d'inserimento come primo livello es­senziale di assistenza, misura esplicitamente prevista dalla legge 328.

 

Motivazioni poco convincenti..

Del tutto assertive le motivazioni addotte per l'abbandono della pista: «lI reddito minimo d'inserimento ha consentito di verificare l'impraticabilità di individuare attraverso la legge dello stato soggetti a­venti diritto a entrare in questa rete di sicurezza socia­le». In realtà, la legge fissava solo dei criteri in base ai quali gli enti locali hanno indicato le figure da immet­tere in questo circuito di solidarietà, sui cui risultati sperimentali esistono due contrastanti pareri: quello del governo, mai reso noto in Parlamento, che è to­talmente negativo, e quello delle regioni, che è invece di segno opposto.

In più occasioni il ministro Maroni ha criticato il reddito minimo di inserimento perché non ha facilitato l'ingresso degli assistiti nel circuito lavorativo. In effetti ciò è avvenuto per due ragioni: la prima è che il fine del reddito minimo di inserimento non era quello di immettere soggetti nel mondo del lavoro ma di favo­rime in molti modi il reingresso nella società; la secon­da è che il reingresso nel lavoro c'è stato là dove c'erano opportunità lavorative, mentre non poteva es­serci là dove il lavoro era carente.

Ora si attende di conoscere quale sarà la costru­zione dell'annunciato - ma mai illustrato - «reddito di ultima istanza», sapendo che l'espressione può coprire realtà diverse: dal salario sociale al reddito di cittadi­nanza al sussidio di povertà. È certo peraltro che al­le regioni si chiederà di cooperare con risorse proprie, oppure - non è stravagante immaginarlo - con nuovi vincoli posti sulla destinazione del fondo sociale na­zionale. Che «indistinta» non è più da quando è stata utilizzata per finanziare asili nido e provvidenze per le giovani coppie, secondo un criterio centralistico che le regioni hanno invero debolmente contrastato.

Un passaggio decisivo del Libro bianco riguarda il problema dei livelli essenziali di assistenza, che vengo­no collocati in un discorso sulla sussidiarietà oriz­zontale da affermare e sviluppare alla luce delle rifor­me del titolo V della Costituzione. In realtà, come s'è visto, la definizione dei «livelli essenziali», in una visio­ne universalistica del welfare, non dovrebbe essere le­gata a parametri variabili ma discendere da una consi­derazione omogenea di alcune esigenze primarie da soddisfare comunque e dovunque, avendo coscienza che senza tale base di uniformità tutto sarebbe rimesso al caso e all'arbitrio. Qui le presenze e le forme sussidia­rie, in una corretta gerarchia di valori, non appartengo­no all'ordine dei fini da perseguire (nel caso i «livelli es­senziali»), ma precisamente all'ordine degli strumenti per raggiungerli. E in materia sociale il prodotto cambia se si inverte l'ordine dei fattori.

 

Verso un sistema universale delle differenze?..

In assenza di una definizione governativa di tali livelli essenziali delle prestazioni sociali, le regioni, come pure s'è visto, stanno da tempo elaborando una propria proposta da contrattare con il governo stesso, ma in realtà molte regioni si sono già mosse in via au­tonoma, precostituendo soluzioni e assetti istituzionali che sarà difficile far rientrare in uno schema nazionale.Il rischio è che il sigillo centrale venga posto su un confuso e ingiusto «sistema universale delle differenze».

Giova anche ricordare che nel dibattito parlamen­tare l'idea dei «livelli essenziali» venne contrapposta a quella di «livelli minimi», e dunque affermata come si­nonimo di «appropriatezza» degli interventi e dei so­stegni. Come pure va detto che, per contrastare la cri­tica di quanti lamentavano l'assenza, nella legge 328, di una certezza giuridica a proposito delle esigibilità dei diritti, si usò l'argomento dei «livelli essenziali», da as­sicurare a tutti in modo che tutti potessero fruirne. L'esempio più pertinente, al riguardo, era ed è quello del servizio sanitario nazionale, nel quale articolazioni e differenze esistono tra regione e regione, ma è fatto salvo dovunque il nucleo primario, essenziale appunto, della tutela della salute.

 

Le torsioni del Libro bianco sui livelli di assistenza…

Rispetto ai riferimenti indicati e alle stesse proce­dure in corso, il Libro compie una significativa torsio­ne quando scrive che «si tratta di attività che richiedo­no una conoscenza approfondita della domanda socia­le non solo a livello nazionale, ma anche a livello re­gionale e locale. In altri termini, nel processo di fissa­zione dei livelli essenziali dovrebbero confluire ele­menti legati alla situazione generale e alle specificità presenti a livello locale». Per cui: «Occorre porsi in un'ottica di prospettiva e di evoluzione del sistema e porsi dei target di efficienza/equità dello stesso». Vale a dire: «Fissazione dei livelli essenziali significa anche attivare un processo per orientare le situazioni regiona­li più arretrate verso le posizioni dei migliori, in una strategia di miglioramento continuo e progressivo delle proprie prestazioni (benchmarching) ». E ciò perché «il processo di fissazione dei livelli sociali essenziali non è un'operazione di facciata, consistente nella media aritmetica dell'esistente o in un esercizio puramente ne­goziale, ma un compito che deve contare su analisi so­lide, disponibilità di dati e strumenti comuni per la mi­sura delle prestazioni». In definitiva, secondo il gover­no, «la responsabilità formale dell'atto prevista a livello centrale deve essere quindi preparata e attuata attra­verso modalità di confronto e dialogo sociale con i di­versi soggetti implicati».

La sequenza dei concetti del Libro, che per molti aspetti espone considerazioni ovvie, si segnala per il suo accentuato carattere metodologico. Viene indicata infatti una procedura per stabilire (o meglio raggiunge­re) i livelli essenziali, ma non si fa un passo avanti nella definizione. Né si accenna all'urgenza di essa e ai peri­coli di disgregazione insiti nell'ulteriore ritardo. Si dice solo, fuori dal testo, che i «livelli» dovranno essere de­finiti con una legge perché l'intervenuta modifica co­stituzionale impedirebbe l'esercizio della delega. Al che si potrebbe obiettare che quella delega è stata lasciata cadere e che la fissazione dei livelli essenziali per l'ese­cutivo centrale è ormai un inderogabile dovere costi­tuzionale. Ma non è questo l'approccio più utile per mettere a fuoco la portata della svolta governativa.

 

Chi aiuterà i corridori?...

Ciò che più preoccupa, al riguardo, è infatti l'e­quazione che il Libro stabilisce tra livelli essenziali e target da raggiungere. In mancanza di precisazioni si può intendere più o meno come segue: a chi è in testa si dice di andare avanti (non deprimere le punte), a chi sta indietro si dice di raggiungerlo ai livelli che, nel frattempo, quello avrà toccato e superato. Natural­mente non mancheranno gli opportuni consigli per chi deve partecipare alla rincorsa, ma non ci saranno risorse di solidarietà generale, perché ognuno ha diritto di usare per sé e solo per sé quel che produce.

Come si vede, quello dei «livelli essenziali», insie­me con quello del reddito minimo d'inserimento, è il passaggio nel quale le soluzioni adombrate recano l'impronta più profonda dei principi enunciati nelle premesse del Libro. Peraltro, l'amministrazione centra­le si ritaglia, nel sistema, il ruolo di promotrice di un «coordinamento aperto», con un'accentuazione della funzione di cinghia di trasmissione delle direttive eu­ropee. Ma ciò non tocca la sostanza della critica se non si chiarisce che tale ruolo non può limitarsi a indicare percorsi senza assumere la responsabilità di assicurare concretamente, come prescrive la Costituzione, le basi operative della solidarietà generale.

 

Un new deal poco solidale

 

Nella molta letteratura prodotta sul Libro bianco sul weifare è mancata un'adeguata considerazione delle sue premesse concettuali, che vanno viceversa reputate come la chiave interpretativa delle singole scelte. A partire dal fatto che con il Libro il governo ha manife­stato la volontà di azzerare gli orientamenti maturati nelle precedenti elaborazioni legislative e condensati nella legge n. 328/00 come architettura organica dei contenuti, delle forme e degli strumenti della tutela so­ciale. La logica del ricominciare daccapo dovrebbe trovare sbocco in una «legge delega» a somiglianza di quanto accaduto per il mercato del lavoro. In ogni ca­so, si preannuncia lo svuotamento pratico della legisla­zione esistente in nome di due esigenze asserite: quella della modernizzazione e quella del rispetto delle com­petenze regionali stabilite dall'intervenuta modifica delle relative disposizioni del titolo V della Costituzione.

Ma quale «dottrina» fa da sfondo alle indicazioni pratiche della svolta che si intende compiere?

«Una politica sociale realmente moderna - si legge nella prefazione del Libro - non può più essere quella di un'offerta indifferenziata di prestazioni e servizi» (uguali per tutti, su tutto il territorio nazionale). Uni­versalismo e selettività non sono più termini contrap­posti. Occorrono misure flessibili, «ritagliate sulle esi­genze delle comunità territoriali e gestite con efficien­za a livello locale».

Contrariamente a quanto si leggeva nella legge 328, che pure introduceva tale criterio (diritto univer­sale, accesso condizionato), ora si sostiene che le poli­tiche di protezione sociale non possono più essere de­finite in modo univoco dal centro, per cui «livelli di coesione sociale e di standard accettabili possono scontare significative differenze tra comunità terri­toriali». Il che è corretto se è una risultante, inaccet­tabile se è un obiettivo.

Ma la scelta fondamentale del documento è quella che colloca il we/fare (e quindi non solo le politiche so­ciali in senso stretto ma anche la sanità e la previden­za) all'interno di un regime di concorrenza totale. Il vero cambiamento è cosi indicato nel fatto che «la concorrenza rende obsoleta qualunque politica sociale e salariale di tipo egualitaristico. Proprio a causa dei vincoli originati dalla concorrenza, oggi non è più pos­sibile pensare di perseguire la giustizia sociale limitan­dosi a trasferire ricchezze dai settori o dalle aree a piùalta produttività verso quelli meno produttivi. E ciò per il semplice motivo che i primi, per poter continuare ad esistere, hanno bisogno di reinvestire il loro surplus economico o quantomeno di conservarlo per il futuro».

È un impianto concettuale su cui è interessante soffermarsi. Il criterio dell'assorbimento locale delle ri­sorse prodotte in un determinato territorio appartiene alla visione propria di peculiari tendenze politiche co­me in Italia quelle rappresentate dalla Lega Nord. Da essa discende la predisposizione di figure istituzionali, come la devolution, che legittimano la rottura dei siste­mi nazionali di tutela sociale. L'arresto, in linea di principio, della pratica delle politiche redistributive, in aggiunta alla riduzione dei prelievi fiscali, mira a realiz­zare un «consenso degli agiati» attorno a un disegno che favorisce l'uscita dei ricchi (persone e territori) dal­la rete protettiva generale per dar luogo a protezioni separate. Con un arricchimento di prestazioni nelle zone più dotate e un impoverimento in quelle meno favorite.

L'argomento usato per sostenere la tesi descritta, che potrebbe definirsi come «autarchia sociale», è che una sottrazione di «surplus» per fini non immediata­mente produttivi menomerebbe le capacità competiti­ve delle aree interessate. Una tale affermazione merita due chiose. La prima è che non è detto che i profitti in questione vengano destinati a investimenti produttivi e non a operazioni finanziarie che, in un'economia mon­dializzata, ne dislocano i benefici fuori delle aree d'ori­gine. La seconda chiosa è che il massimo di coerenza con una simile impostazione comporterebbe la predi­sposizione di apparati protezionistici e di frontiere ag­giuntive, in aperto contrasto con le esigenze di un'eco­nomia senza frontiere. Con un corollario da tenere in evidenza: e cioè che la concezione descritta, che sot­tende il ripristino di qualche «confine» economico e sociale, riduce in frantumi non solo l'indivisibilità della Repubblica ma anche l'indivisibilità di una cittadinanza sociale che, per definizione, è tale se è unitaria o tende quantomeno all'unità.

In proposito è interessante seguire il Libro nel­l'indicazione di ciò che accade a valle di tale scelta pre­liminare. In mancanza di organiche politiche redistri­butive, «le differenti collettività cercano di difendere i rispettivi modelli di solidarietà attraverso peiformances di sistema». Tradotto: le «differenti comunità» rispar­miano e, dove non basta, tagliano, oppure aumentano i tributi a carico degli utenti. In parole povere: ognuno fa quel che può. A tale conclusione si giunge in perfet­ta coerenza con l'affermazione per cui «il sistema delle politiche sociali è una componente essenziale per lo sviluppo sostenibile e la competitività della società».

Il ragionamento del Libro sembra svolto a misura di devolution nella versione più aspra: quella per cui, appunto, ogni regione «fa quel che può»; e chi non può si arrangi. C'è da chiedersi quali potrebbero essere le conseguenze sociali, politiche e costituzionali di una tale impostazione.

 

La cittadinanza sociale negli statuti regionali

 

È un interesse eminentemente culturale quello che induce a prendere in considerazione i nuovi statuti delle regioni italiane, in corso di rifacimento dopo le intervenute modifiche costituzionali che non solo han­no conferito alle regioni stesse piena autonomia statuta­ria, ma hanno rovesciato lo schema istituzionale pre­cedente, basato sull'enumerazione delle attribuzioni, affermando la potestà regionale su tutte le materie non altrimenti riservate a diversi ambiti dell'ordinamento. Con riferimento all'orientamento delle politiche sociali può essere infatti produttivo mettersi in cerca dei dati di stabilità/continuità e di quelli di innovazio­ne/ discontinuità, avendo come unità di misura la «.lo­gica» della Costituzione vigente. Essa mantiene il pro­prio valore obbligante, tant'è che uno statuto non con­forme può (anche se non «deve») essere impugnato dal governo davanti alla Corte Costituzionale. Ma a saperli cercare nella massa delle parole scritte nei documenti regionali di ristesura degli statuti, si possono trovare spunti che denotano, di volta in volta, una volontà di conferma dell'acquisito o una volontà di modifica di strutture e forme dell'intervento sociale, anche se non immediatamente operative.

 

Voglia di ripensare il welfare…

D'altra parte, un dibattito di grande respiro è in corso da tempo, nel paese, su tali temi, sull'ampiezza dell'intervento pubblico e sul ruolo dell'iniziativa pri­vata e/o privato-sociale, sulla sussidiarietà e sull'in­tensità del suo rapporto con la solidarietà, sul significa­to delle «regole» in ordine alla libertà delle imprese e dei mercati. Innovazioni significative si sono introdot­te anche nel linguaggio tecnico con la sostituzione del termine «servizio» con il termine «azienda» in campo sanitario e con la valorizzazione delle strategie di effi­cienza economica anche nell'ambito delle prestazioni sociali. Sull'insieme domina poi la preoccupazione de­gli equilibri di bilancio, e con essa si affermano le stra­tegie limitative: i tagli, le restrizioni, gli sbarramenti d'accesso. E c'è pure, come s'è visto, un impulso di revisione che ricolloca l'intero welfare in uno scenario di sostegno della competitività economica, con inevita­bili riflessi sull'impostazione che vedeva in esso il sup­porto di una condizione umana più dignitosa e giusta.

Una rilevazione precisa degli indici al riguardo non è consentita per il fatto che le singole regioni han­no lavorato con tecniche e tempi differenziati e hanno pure compiuto scelte metodologiche non uniformi nel declinare i «principi» dai quali desumere il segno della conferma e/o dell'evoluzione. Tuttavia, qualcosa si può comprendere e vale la pena portarlo alla luce. Non senza aver preliminarmente rilevato due circo­stanze significative. La prima è data dal ritardo di ela­borazione degli statuti, uno solo dei quali, quello della Calabria, è arrivato al traguardo nell'estate 2003. La ra­gione è da trovare principalmente nell'ingorgo delle ri­forme annunciate (e temute) che paralizzano quelle già fatte. Vi sono poi, ed è la seconda circostanza, Consi­gli regionali che lavorano su proposte definite, altri che sono ancora alle fasi preliminari di studio, altri infine, come la Sardegna, che in nome della «specialità» dell'isola hanno demandato il tutto a un' Assemblea costituente del popolo sardo che dovrebbe essere con­vocata con una legge apposita del Parlamento nazionale.

 

Sobrietà nei richiami ai valori…

I «prodotti» disponibili, pur con i limiti accennati, presentano alcune caratteristiche distintive rispetto alla precedente fase statutaria del 1970. In generale si sono evitati i cataloghi analitici dei «valori», come prima s'era fatto non senza retorica. Spesso ci si ferma a un richiamo dei principi della Costituzione italiana, di quella europea (anche se non esiste ancora) e delle di­chiarazioni universali dei diritti. Con la variante dina­mica (regione Lazio) dell'incorporazione nello statuto delle sentenze della Corte Costituzionale in tema di di­ritti di cittadinanza. Né la declinazione delle specificità regionali oltrepassa la soglia del giusto riconoscimento della storia, dell'economia e della cultura dei territori rappresentati. La stessa evocazione di una legittima­zione particolare (ad esempio: «in nome del popolo lombardo») non supera il significato di una compren­sibile accentuazione. I richiami ai valori fondanti della convivenza repubblicana, Resistenza compresa, sono meno enfatici o mancano addirittura, e non si sa se ciò avviene per logoramento dei concetti, per dimentican­za o per scelta consapevole. Ma siccome il fatto non si lega al colore politico delle regioni (la Resistenza figura anche in alcuni testi di centrodestra), non se ne posso­no trarre conclusioni dirimenti.

Si direbbe che nella maggior parte dei casi siano stati seguiti i suggerimenti contenuti nelle relazioni di un convegno promosso nel 2002 dalla Conferenza dei presidenti dei Consigli regionali e delle province auto­nome in collaborazione con il Censis. «Nello statuto, vi si leggeva tra l'altro, non dovrebbero cristallizzarsi delle verità sempiterne, quanto definirsi degli impegni procedurali». E si invitavano i Consigli regionali a non aver paura di fronte all'eventualità di un «modello a­simmetrico di autonomia», sempre che fossero ben saldi «due paletti posti ad argine di inaccettabili derive disgreganti», vale a dire «le generali ragioni etiche della democrazia; l'uniformità dei livelli essenziali dei servizi concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti prescindendo dai confini territoriali dei governi locali, la cui definizione è sancita come potestà esclusi­va dello stato nel nuovo titolo V della Costituzione».

 

…conferme e variazioni nei testi disponibili

Senza neppure immaginare un'improponibile gra­duatoria di sensibilità sociale tra le regioni, un primo contatto con i testi disponibili (esiste una ricerca del Servizio studi del Senato della Repubblica, aggiornata a febbraio 2003) consente di meglio delineare il quadro dei distinti, anche se non sempre differenti approcci in tema di cittadinanza sociale. Essi si rinvengono essen­zialmente esaminando le proposizioni di principio dei singoli statuti, dei quali s'è già segnalata la sobrietà, es­sendo la maggior parte degli statuti stessi dedicata all'organizzazione istituzionale e al funzionamento de­gli organismi legislativi, di governo, amministrativi e di garanzIa.

Evitando pretese esaustive, si possono classificare in quattro gruppi le principali scelte compiute o in cor­so di definizione da parte delle regioni, avvertendo che spesso le differenze sono di semplice accentuazione: un gruppo di (relativa) continuità, un gruppo di (relati­va) variazione, un gruppo di (relativa) innovazione, più un gruppo di... ritardatari o non classificati.

 

I fautori della continuità…

Nel primo gruppo si collocano le regioni che fanno esplicito richiamo alla Costituzione della Repubblica assumendone più o meno compiutamente i principi fondamentali in ambito sociale. Tale è il caso dell'A­bruzzo, che «informa il proprio ordinamento ai principi di libertà, democrazia, giustizia, promozione della persona umana e a quelli derivanti dalla Costituzione della Repubblica, nata dai valori della Resistenza, e dal­la Carta dei diritti dei cittadini dell'Unione Europea», con una sottolineatura che impegna a promuovere l'uguaglianza dei diritti e a garantire pari opportunità tra uomini e donne. Sulla stessa linea si colloca lo sta­tuto della Calabria (il primo approvato formalmente e subito oggetto di polemiche per le varianti inserite nei meccanismi istituzionali), che espressamente sancisce «i diritti delle fasce deboli... al superamento delle cau­se che determinano disuguaglianze e disagio» e, con evidente richiamo alla legge n. 328, prospetta «la rea­lizzazione di un sistema integrato di servizi per tutti i cittadini e particolarmente per le persone che vivono situazioni di disagio, favorendo l'associazionismo e le attività di volontariato». Assai sintetiche anche le pro­posizioni della Puglia: «La regione tutela e promuove la qualità della vita, garantisce la sicurezza sociale e il diritto alla salute, agisce responsabilmente nei confron­ti delle generazioni future». Con una suggestione meri­tevole di chiarimento a proposito dell'eventuale istitu­zione di «autorità indipendenti di garanzia» a «tutela dei diritti dei bambini, dei minori e dei cittadini», dove l'inclusione dei cittadini in quanto tali, senza ulteriori specificazioni, lascia quantomeno il sospetto di una mancata trascrizione di altro che si voleva dire.

 

I fautori di un moderno cambiamento…

Nel secondo gruppo si possono collocare quelle re­gioni che, come la Basilicata, hanno sviluppato in mo­do analitico la descrizione dei principi e delle finalità sociali della regione, fino alla codificazione della «liber­tà di scelta dei cittadini» tra servizi pubblici e privati, questi ultimi oggetto di una particolare «promozione» in tutti i casi «in cui [il servizio] sia reso in maniera più ef­ficiente ed efficace e offra risposte adeguate ai bisogni della popolazione, anche non abbiente». Meno dettaglia­to ma egualmente importante è lo sviluppo dei «criteri di governo» dell'Emilia Romagna, che ricapitola i prin­cipi costituzionali e li include in una scelta di metodo ­«la programmazione democratica» - che può apparire anacronistico, ma che ha dalla sua il peso di risultati non trascurabili anche in campo sociale. Sulla stessa li­nea l'Umbria, il cui progetto di statuto mira alla tutela delle «fasce più deboli della popolazione al fine del su­peramento delle cause che ne determinano la disugua­glianza», operando altresì «a favore delle persone che si trovano in situazioni anche temporanee di svantaggio». Si fa esplicito riferimento ai bambini, ai minori, agli an­ziani e ai disabili. Eguaglianza e connessione tra svilup­po economico e rapporti sociali illustrano le motivazioni sociali contenute nelle bozze statutarie delle Marche, mentre dal Molise si promette un'«enunciazione detta­gliata degli obiettivi dell'azione pubblica regionale».

 

Gli innovatori…

Nel terzo gruppo entra di diritto la Lombardia, an­che per via delle linee operative già definite in materia di politiche sociali (di cui s'è già trattato) e che sem­brano trovare nelle elaborazioni statutarie, peraltro an­cora provvisorie, gli ancoraggi di «dottrina» che ne chiariscono il senso. Così è quando si afferma che la regione promuove «l'effettiva libertà dei cittadini di scegliere e realizzare i propri progetti di vita», sostiene il criterio dell'«uguale libera scelta» e qualifica «la liber­tà d'iniziativa economica individuale e collettiva e l'autonomia dell'impresa [come] manifestazioni della libertà del lavoro e del diritto al lavoro», dove l'enfasi sull'impresa, da coordinare «mediante mercati compe­titivi», rivela un'evidente assonanza con le elaborazioni sul «capitalismo democratico» di Michel Novak che ri­leggono in chiave privatistico/imprenditoriale l'intera dottrina sociale della chiesa.

Anche la regione Toscana presenta buoni argo­menti per stare in questa cerchia, ma con una differen­ziazione che, fatti salvi i diritti sociali, si inoltra su un percorso della «tutela delle diversità» che conduce a un enunciato sui «rapporti familiari», il quale aggiunge alla tutela della famiglia la promozione dei diritti e il rico­noscimento delle «altre unioni, frutto di scelte libere e consapevoli di ogni persona». Pieno diritto all'assi­stenza e alla salute, nonché protezione dell'infanzia e della terza età sono gli impegni di sviluppo civile e so­ciale della regione Lazio, che al degrado «sviluppa i servizi pubblici e nel contempo favorisce l'iniziativa privata diretta allo svolgimento di attività e servizi di interesse generale, con particolare riferimento alle for­me non profit», seguendo un criterio di attivazione com­petitiva che si ritrova anche per la sanità e l'istruzione.

 

I ritardatari e i non classificabili…

In un quarto gruppo vanno a situarsi d'ufficio le regioni di cui mancano elaborati significativi, come il Piemonte, il Friuli Venezia Giulia e il Veneto (dove sono depositate tre proposte organiche che non risul­tano messe a confronto), o che hanno centrato la re­dazione statutaria essenzialmente sulla messa a fuoco delle peculiarità territoriali, etniche e geopolitiche, co­me la VaI D'Aosta e per certi aspetti la Liguria. Va pu­re annotata qui la posizione della regione Campania, dove l'apposita commissione preparatoria ha deciso di non procedere all'esame dei temi attinenti agli obiettivi e alle finalità della regione, alle funzioni amministrati­ve, ai rapporti con gli enti locali e alla cooperazione con lo stato, l'Unione Europea e con le altre regioni. Questo per la mancanza di «un quadro costituzionale ben definito». Della Sardegna e della sua richiesta di assemblea costituente s'è fatto cenno. Della Sicilia va detto che sta procedendo a emendare lo statuto vigen­te per gli aspetti propriamente organizzatori e che lo ha fatto precedere dalla proposta - redatta invero in modo alquanto sciatto - di un preambolo nel quale si enuncia la «tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e l'apertura alle i­stanze delle fasce più deboli e alle nuove esigenze del Mezzogiorno, della società italiana e del mondo con­temporaneo nell'avvio del terzo millennio».

 

Una nuova voglia di welfare

 

Da tutto quel che precede si possono ricavare in­dicazioni relativamente affidabili sull'intreccio delle contraddizioni che si registrano attorno ai temi del wel­fare e della sua riforma. A livello centrale prevale l'idea di una modernizzazione che punta su un forte proces­so di destrutturazione, di cui enuncia i presupposti dottrinali e annuncia quotidianamente, spesso in modo velleitario, le misure e le tappe: riduzioni, tagli, decentramenti senza risorse. A scala regionale le fonti con­sultate (modi di leggere la «legge quadro» e statuti re­gionali in elaborazione) rivelano, in media, un perdu­rante attaccamento alle forme di un welfare fortemente strutturato e domandano allo stato le risorse per at­tuarlo, pur nella varietà delle procedure individuate. I temi dell'occupazione, degli anziani, della salute, del sostegno alle aree fragili della società e della famiglia ricorrono con frequenza significativa.

C'è già quanto basta per affermare che, anche a li­vello istituzionale, non prevale tranquillamente la scel­ta ideologica del welfare minimo, funzionale alle istan­ze di una competitività che per sua natura ignora la dimensione sociale. La sottostante dottrina che fa coincidere riformismo con individualismo e che bolla come «collettiviste» perché troppo «sociali» le idee del~ la destra e della sinistra (p. Ostellino, in «Corriere della Sera», 12 agosto 2003), per quanto non sul terreno i­deologico, non sembra far proseliti sul piano pratico. Stenta insomma a prevalere, in ambito culturale, un concetto di «riformismo» che eviti di mettere in di­scussione l'ordine esistente in nome di un valore di so­lidarietà sociale, mentre l'ipotesi di un «individuo» che sia «pontefice a se stesso» trova riscontri più nel­l'ambito etico-personale che in quello della prospettiva della società. Dove anzi si propende per una forte a­pertura di credito verso le «formazioni sociali», dalla famiglia in poi, in cui gli individui si realizzano facen­dosi persone; formazioni sociali che sono esse stesse frutto di libere scelte e luoghi di espressione dei diritti umani. Molti dei fattori di crisi dell'economia, con gli annessi timori di perturbazioni sociopolitiche, induco­no poi a riflettere se non sia il caso di rivalutare l'op­portunità di politiche pubbliche d'intervento, di corre­zione e di orientamento dell'economia, come è acca­duto in un passato in cui mercati e competitività han­no prosperato anche in presenza di ragguardevoli e­sperienze di «compromesso sociale». Erano i tempi in cui la «grande crisi» del 1929 era ancora nell'orizzonte della memoria comune. E l'analisi politica, al contrario di oggi, ne teneva debito conto.

Inoltre, con specifico riferimento ai temi del we!fa­re, sono attualmente disponibili elementi empirici che acquistano un valore... probatorio al di là del contrasto apologetico delle opinioni e delle posizioni in conflitto. Ai primi di luglio 2003 sono stati pubblicati i risultati di una ricerca sul we!fare che gli autori definiscono come «la più vasta mai fatta in Italia», con oltre 20 mila inter­viste realizzate su tutto il territorio nazionale e con una media di mille per ogni regione. Il titolo è significativo, «Quale we!fare per l'Italia delle regioni», con il sottoti­tolo «Indagine sulle aspettative e priorità degli italiani». Condotto dall'Istituto Unicab e dall'associazione Nuo­vo welfare, e pur nei limiti ben noti dei sondaggi d'opi­nione, lo studio fornisce indicazioni attendibili su al­cuni punti di rilievo dell'attuale dibattito, nel quale im­mette un elemento che in genere è trascurato nell'ela­borazione delle strategie politiche: il senso delle aspetta­tive popolari e le relative disponibilità di consenso.

Rinviando per ogni approfondimento alla pubbli­cazione dell'indagine (curata da Avverbi Edizioni), si può convenire con la valutazione dei presentatori per cui «ne emerge un quadro del tutto nuovo, che rove­scia luoghi comuni e false rappresentazioni, disegnan­do un'Italia delle regioni che esprime una nuova voglia di sociale». Se infatti non sorprende che in un'ideale graduatoria della qualità della vita il giudizio degli ita­liani metta ai primi posti l'Emilia Romagna, la Lom­bardia, la Toscana e il Veneto, può destare meraviglia constatare che 1'83 per cento degli intervistati ritiene di stare molto/abbastanza bene nella regione in cui vive, anche se è agli ultimi posti della graduatoria. Parrebbe una disponibilità ad accettare differenze e dislivelli senza particolari manifestazioni di invidia regionale.

Altrettanto scontato può apparire l'atteggiamento sfavorevole della maggior parte degli intervistati (75 per cento) all'idea di tagli alle politiche sociali. Si rima­ne invece colpiti dalle reazioni registrate sulle due frasi alternative riguardanti il rapporto tra servizi e tasse. Alla proposizione «è meglio pagare più tasse e avere più ser­vizi» va il 64 per cento dei consensi, mentre la proposi­zione opposta, «è meglio pagare meno tasse e avere meno servizi», ne raccoglie solo il 22 per cento. Può essere interessante, ai fini di opportune valutazioni sul senso civico, rilevare che «la percentuale di quanti hanno dichiarato che è meglio pagare più tasse e avere più servizi è risultata più alta tra coloro che hanno di­chiarato di non partecipare mai a funzioni religiose ri­spetto a coloro i quali, invece, hanno dichiarato di par­teciparvi regolarmente». A patto di non dedurne che la propensione al binomio più servizi più tasse abbia un fondamento....ateo.

A quali condizioni funziona la formula più servizi più tasse? Le risposte sono inequivoche. Per la sanità si enunciano quattro parametri: copertura universale, ac­cesso universale, efficienza, responsabilità pubblica (solo il 14 per cento propende per la privatizzazione). Identico orientamento per la scuola pubblica (86 per cento). Se alla sanità e alla scuola si aggiunge il lavoro, che è percepito come il terzo pilastro essenziale del welfare (il «resto» delle politiche sociali si stempera in un lungo catalogo di prestazioni e di ambiti di cui non si percepisce ancora il valore «integrato»), se ne ricava un orientamento decisamente opposto alle tendenze che portano alla deresponsabilizzazione pubblica verso i comparti del welfare. E ciò anche se non sono altissi­mi gli indici di fiducia verso le istituzioni, dove si regi­stra una graduatoria con al primo posto il comune, se­guito da regione, provincia e stato. Al contrario, è ele­vata la fiducia nella famiglia (oltre il 90 per cento), nel­le organizzazioni non profit (85 per cento) e nella chie­sa (70 per cento), mentre è bassa per i sindacati (37 per cento) e per i partiti (17 per cento).

Non è agevole indicare a quale modello di we(fare portino, nei limiti del loro respiro, le indicazioni di un sondaggio come quello citato, e non è neppure neces­sario. Si può viceversa dedurre che l'immaginario col­lettivo in Italia (ma anche in Europa) resta saldamente ancorato all'idea della necessità di una sicurezza che sia «sociale», cioè non individuale, come garanzia dello sviluppo delle qualità personali e di gruppo presenti nella società.

L'esistenza del welfare è percepita come un dato storico non fungibile, ed è qui che all'esistenza si asso­cia un'idea di resistenza come opposizione ai tentativi di manomissione del we/fare compiuti in nome di i­stanze esterne alla sua funzione fondamentale. I tratti peculiari di un sistema «plurale», cioè regionale e loca­le, sono ancora indefiniti e gli assetti dovranno essere ricercati in esperienze che realizzino la miglior combi­nazione degli interventi e delle risorse con le aspira­zioni e le disponibilità delle persone e dei gruppi socia­li. Probabilmente l'architettura finale somiglierà di piùa quella descritta dalla legge 328 che a quella delineata nel Libro bianco del governo. Ma non è questo il pun­to decisivo. Ciò che conta è che siano in campo ele­menti sufficienti per confutare la tesi, largamente ac­creditata dai centri di potere e dai media che ne sono espressione, per cui l'idea centrale del we/fare sarebbe da considerare superata nella coscienza dei cittadini prima che nell'orientamento della politica economica. VuoI dire che se è giusto mettersi alla ricerca di forme più adeguate e duttili di protezione sociale che correg­gano i difetti e riducano gli sprechi dell'attuale impian­to, e se è conveniente che siano i livelli regionali a promuovere le dinamiche di nuove sperimentazioni, tutto questo non può avvenire sulle macerie di una struttura della quale, semmai, si può auspicare un per­fezionamento nella direzione di una migliore capacità redistributiva.

La disponibilità dei cittadini a farsi carico degli one­ri dell'impresa va naturalmente verificata sul campo e messa in relazione ad altre priorità della vita privata e pubblica. Ma l'averla accertata, sia pure nella forma problematica del sondaggio, è già un punto di forza per un governo centrale e per quei governi regionali che non avessero timore di percorrere questa via del con­senso. Che risulterebbe tanto più credibile e solido se diventasse terreno di rilancio di un nuovo ciclo di parte­cipazione, dove il binomio «più servizi più tasse» si ar­ricchisce di un passaggio tanto vitale quanto inedito per l'Italia: «più servizi, più tasse, più controllo popolare».

 

 

Note:

 

Decreti attuativi della legge 328/2000

 

DPCM 15 dicembre 2000 “Riparto tra le Regioni dei finanziamenti destina­ti al potenziamento dei servizi a favore delle persone che versano in stato di povertà estrema e senza fissa dimora”, in attuazione dell’art. 28 della L. 328/2000. Pubblicato sulla G.U. del 23 marzo 2001, serie generale, n. 69.

 

DM 21 maggio 2001 n. 308 recante regolamento concernente “Requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio dei ser­vizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale, a norma del­l’art.11 della L. 328/2000. Pubblicato sulla G.U. del 28 luglio, serie gene­rale, n. 174.

 

D.P.R. 3 maggio 2001 recante “Approvazione del Piano nazionale degli in­terventi e servizi sociali per il triennio 2001-2003, in attuazione dell’art. 18 della L. 328/2000. Pubblicato sulla G.U. del 6 agosto 2001, supplemen­to ordinario n. 204.

 

D.Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 recante “Riordinamento del sistema delle Isti­tuzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, a norma dell’art.10 della L. 328/2000. Pubblicato sulla G.U. del 1° giugno 2001, serie generale n. 126.

DPCM 30 marzo 2001 recante Atto di Indirizzo e coordinamento sui rap­porti Regioni - Enti locali - terzo settore, in attuazione dell’art. 5 della L. 328/2000. Pubblicato sulla G.U. del 14 agosto 2001, serie generale n. 188.

 

DM concernente la definizione dei profili professionali delle figure pro­fessionali sociali, in attuazione dell’art. 12, comma 1, della L. 328/2000.

 

DM in attuazione dell’art. 12, comma 2 della L. 328/2000 concernente la definizione delle figure professionali sociali da formare con i corsi di lau­rea e con corsi di formazione organizzati dalle Regioni e dei criteri gene­rali riguardanti i requisiti per l’accesso, la durata e l’ordinamento didatti­co dei medesimi corsi di formazione.

 

DM recante istituzione della Commissione tecnica per il sistema informa­tivo dei servizi sociali, in attuazione dell’art. 21 della L. 328/2000.

 

DPCM per l’istituzione della Commissione di indagine sulla esclusione sociale di durata triennale, in attuazione dell’art. 27, comma 4, della L. 328/2000.

 

Il quadro normativo regionale: interventi delle singole Regioni

Il piano socio-sanitario regione per regione a Dicembre 2003

 

 


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