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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Il vero significato dell’integrazione scolastica (*)

Va da se che il tornitore si sforza di lavorare sul pezzo non riuscito affinché diventi come gli altri pezzi.
Voi invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento….Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare.(1)

La famosa lettera non era diretta a una professoressa, ma era rivolta a tutti gli insegnanti e a un modo di fare scuola che si occupava dei sani e respingeva i malati.

Don Milani, se non pensava agli alunni disabili come li intendiamo oggi, sicuramente mirava a realizzare l’integrazione scolastica, voleva una scuola in grado di integrare tutti e ciascuno senza chiedere in cambio assimilazione.

Pensava a un modello di scuola in cui tutti gli insegnanti e i vari operatori fossero coinvolti nella costruzione di una comunità scolastica integrante. Solo se si guarda al contesto si può capire l’integrazione dell’alunno disabile. Se la scuola non è integrante per tutti, non può esserlo neppure per l’allievo disabile. La logica dell’integrazione deve pervadere tutta la scuola come in una rete. La rete da sicurezza: se qualcuno cade dal trapezio (e non è detto che sia l’alunno disabile) e c’è una protezione sottostante, non si farà del male.

Una vera integrazione, se deve sostenere tutti gli alunni, tutti uguali e tutti diversi, deve anche essere sostenuta da tutti.

L’integrazione non riguarda solo l’alunno disabile: ciascuno di noi ha bisogno di aiuto e di sostegno, fosse anche solo in certi momenti e in certe occasioni. E questo perché l’uomo, a differenza degli animali che dopo la nascita sono subito in grado di cavarsela da soli, non nasce autonomo. Lo diventa. Prima attraverso un lungo <<allevamento>> e poi mediante l’educazione e l’istruzione, che caratterizzano ogni momento dell’esistenza umana. Dalla culla alla bara si impara sempre. E sempre si ha bisogno di aiuto, specie se si è deboli come lo sono un bambino piccolo, un adulto disabile, un adulto in stato di bisogno più o meno momentaneo.

La nostra Costituzione è basata su principi solidaristici: al fascista <<mene frego>> ha sostituito il democratico <<I care, me ne occupo, l’altro mi sta a cuore>>.

Perciò una scuola che integra – o almeno, si propone di farlo – dovrebbe offrire a tutti gli allievi ( e perché no? Anche gli insegnanti e a tutti gli operatori scolastici) un adeguato sostegno in caso di bisogno. In questo modello di scuola non sarà soltanto l’alunno portatore di stigma a ricevere attenzioni e cure particolari, ma tutti gli alunni (e gli insegnanti) dovranno essere coinvolti attivamente in qualche forma di sostegno, di aiuto, di supporto, di empatia.

Compito della scuola è aiutare ogni alunno della classe a sentirsi parte integrante di un gruppo. Le classi non possono essere delle piccole comunità in concorrenza tra loro: devono avvicinarsi l’una all’atra e sentirsi parte di una comunità più ampia. Questa comunità insegnerà a condividere le proprie esperienze con gli altri, a comunicare adeguatamente, a unirsi a collaborare per superare pregiudizi, anche di coloro che non credono in questi principi di condivisione. Di questa comunità dovrebbero sentirsi parte tutti, ciascuno con il proprio ruolo e con le proprie mansioni: come un’orchestra in cui ognuno, pur suonando uno strumento diverso, contribuisce alla buona riuscita dell’esecuzione del brano musicale. Il senso di appartenenza a una comunità può rompere, e di fatto rompe, ogni barriera.

Lo slogan degli anni Settanta <<Rendere speciali le scuole normali>> conserva ancora una sua validità.

A scuola l’integrazione deve prevedere:

- un coinvolgimento di tutti gli insegnanti e di tutti gli operatori scolastici, evitando di delegare tutte le responsabilità all’insegnante di sostegno e usufruendo in modo collaborativi e integrato delle sue competenze specifiche;

- una filosofia dell’integrazione che diventi cultura e modo di essere nel quotidiano, un substratum per integrare tutte le diversità;

- una modalità di approccio che non sia centrata solo sugli obiettivi (i programmi), ma anche sulle relazioni (gli aspetti affettivi): in questo contesto si colloca in modo particolare il ruolo del personale non docente;

- Il passaggio da un modo chiuso di intendere la scuola, come istituzione volta prevalentemente a fare apprendere determinate materie, a uno aperto in cui tutto sia, in un certo senso, scuola;

- un approccio il più possibile individualizzato;

- un equilibrio e un senso della misura nel fornire quel sostegno necessario con intensità, frequenza e durata commisurate al bisogno di ciascun alunno (e non solo dell’allievo con disabilità);

- il potenziamento delle risorse residue o esistenti in ciascuno (da parte degli insegnanti e degli operatori che collaboreranno);

- la coerenza degli interventi da stabilire non solo in sede di Collegio dei docenti, ma anche in riunioni con i non docenti: lavoro in gruppo e lavoro di gruppo;

- il perseguimento dell’autonomia dei soggetti da educare.

Una progettualità di questo tipo non si improvvisa: rimane un punto di partenza, non di arrivo.

Un punto di arrivo è un obiettivo, non un sogno.

Ma non è forse questo il senso della scuola?

Il Concilio Vaticano II ha detto che non bisogna confondere l’errore con l’errante. Ma siamo sicuri che tutti, proprio tutti siano in grado di frequentare la scuola?

Il problema è malposto, visto che non è l’individuo a doversi adattare alla scuola – quasi che questa fosse una divinità e non una semplice istituzione finalizzata a promuovere la crescita individuale -, ma è la scuola che deve adattarsi all’individuo.

Un bambino impara le cose del mondo seguendo un suo programma in cui entrano occasioni, materiali, giochi, contatti, incontri, scontri con i coetanei e i più grandi, ecc. Perché, improvvisamente, allo scoccare del sesto o del quinto anno di età deve imparare seguendo un programma altrui?

Quale programma è dunque proponibile per i ragazzi mentalmente ritardati?

Un programma adatto a loro. A ciascuno di loro.

La legge lo ha chiamato Piano Educativo Individualizzato (PEI).

Lo slogan Prima riabilitare per poi inserire viene ribaltato: Inserire per riabilitare. Se a parlare si impara parlando e a scrivere scrivendo, a stare con gli altri si impara stando con gli altri. Il contatto con i normali, con modelli comportamentali positivi, produce miglioramenti di per sé.

Occorre dunque creare le condizioni affinché l’alunno disabile possa frequentare positivamente la stessa classe dei suoi coetanei.

E se l’autonomia rappresenta la condizione indispensabile perché l’alunno possa imparare, allora la prima cosa che egli dovrà imparare a manifestare sarà proprio l’autonomia. In altre parole ritorna sempre lo stesso principio di fondo al quale si è già accennato, che non riguarda solo quello disabile ma tutti gli alunni: bisogna partire da ciò che si ha o che si sa. Non è neanche un principio pedagogico: è semplicemente buonsenso. Quando gli insegnanti dell’ordine di scuola successivo si lamentano del fatto che gli alunni appena arrivati non hanno le basi per svolgere il programma della scuola in cui essi operano, invece di lamentarsi sul muro del pianto, dovrebbero inserire nel loro programma il raggiungimento di quagli obiettivi che l’istituzione scolastica di livello antecedente non è stata in grado di perseguire. Altrimenti è la scuola del programma, non della programmazione. In definitiva – i termini più tecnici - se i prerequisiti non ci sono, occorre perseguirli.

Per fare questo i prerequisiti devono diventare obiettivi.

Nel caso dell’alunno disabile indichiamo con autonomia tutte quelle abilità che costituiscono i prerequisiti dei prerequisiti.

Magari prevedendo un programma che tenga conto dell’individuo e non della massa. Per questo nella scuola è entrato il termine programmazione.

E’ l’autonomia di cui godono oggi le scuole consente a esse di fare leva ancora di più su una politica di programmazione conforme allo spirito del PEI: programmare significa stabilire gli obiettivi dell’apprendimento e dello sviluppo personale, rapportare gli obiettivi alle capacità personali di tutti e di ciascuno, valutare che l’obiettivo sia effettivamente raggiunto e, se necessario, modificare quanto previsto in modo ancora più mirato.

(1) Don Milani, Lettera a una professoressa, Firenze Editrice Fiorentina. 1963


(*) Vito Piazza, Per chi suono la campanella?, Erickson


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