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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Marisa Pavone, Docente di pedagogia speciale, Università di Torino

L’integrazione scolastica e sociale delle persone con deficit “in situazione di gravità”*

 

Si intende riflettere sull’integrazione scolastica e sociale delle persone che manifestano difficoltà considerate “gravi”. Ancora ai giorni nostri, dopo un cammino trentennale in direzione inclusiva, rappresenta infatti uno dei problemi più “spinosi”; forse la vera sfida da raccogliere, nell’intento di imprimere  un impulso trasformativo alla qualità del processo.

 

 

Nella vita pratica e seguendo un ragionamento elementare, non sembra difficile giungere ad un accordo allo scopo di identificare la “condizione di gravità” di un individuo: presenza di grave compromissione delle funzioni, incerte possibilità di recupero, ridottissimo livello delle capacità di comunicazione e di relazione, mancanza di autonomia personale e dunque esigenza di continuo aiuto da parte di personale assistente. Tuttavia, quando il discorso si fa più approfondito, rigoroso e sistematico, si incontrano rilevanti ostacoli a raggiungere una definizione univoca; si deve prendere atto che il concetto di “gravità”  tende a relativizzarsi  in molteplici direzioni, a uscire dall’orizzonte spazio-temporale del singolo, per “farsi” in qualche misura contestuale, relazionale, culturale, sistemico: l’esito di una negoziazione evolutiva tra storia personale e discorso sociale.

           

Valenza multidimensionale del concetto di “gravità”

 

Come è noto, la nostra tradizione giuridico-amministrativa fornisce una esplicita definizione della situazione di gravità attraverso la Legge quadro sull’handicap (legge n. 104/92, art. 3, comma 3), che recita: Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.

Secondo questa disposizione, che regolamenta la condizione esistenziale dei soggetti disabili, lo stato di gravità è tutto riscontrabile all’interno della persona, legato alla presenza di  un deficit che riduce l’autonomia  personale al punto da manifestare un bisogno assistenziale permanente, continuativo e globale: si tratta di una sentenza inappellabile, un destino prestabilito che non lascia intravedere alcuna prospettiva evolutiva e, seppur minime, potenzialità educative. La storia del disabile grave sembra inevitabilmente caratterizzata dall’urgenza e dalla persistenza di aiuti, dalla necessità di dipendere dagli altri, avendo poche o nulle capacità di dare.

Quanto questa rappresentazione rigida e deterministica sia lontana dalla realtà, risulta evidente all’esperienza di tutti. Chiunque ha potuto conoscere direttamente o indirettamente individui con deficit grave e anche gravissimo (sensoriale, fisico, neuropsicologico, comportamentale) i quali, pur manifestando un  bisogno di assistenza continua e la necessità di usufruire di protesi di vario genere, poiché muniti di buona intelligenza, riescono a seguire proficuamente l’attività scolastica o lavorativa. Vi sono altri che, pur fortemente handicappati, sono tuttavia così dotati, da saper esprimere modelli di vita e di pensiero magistrali.

Più frequentemente, vi sono intorno a noi soggetti che manifestano condizioni di tale gravità  e mancanza di autonomia personale e sociale, da rendere veramente  complicato l’impatto con i normali ritmi di vita per se stessi e per i loro familiari. Sono persone prigioniere di limiti di ogni genere, imposti dalla natura, dagli altri o da se stessi, che devono essere aiutate “a ridurre la loro prigionia con terapie, protesi e forme nuove di relazione e di comunicazione; ma anche in queste circostanze estreme, “l’utopia che guida la ricerca indica che la persona ha un valore trascendente ogni altra considerazione”[1]. Non esistono persone che hanno un valore minore; nessuno può essere connotato come pura carenza o come puro caso clinico: anche in situazioni limite, l’originale  sviluppo individuale mette in luce parti competenti e sane, che possono in qualche modo essere  bonificate ed estese.

La chiave di lettura pedagogica insegna che la situazione di gravità è un concetto sistemico, dipendente dall’intersezione di una molteplicità di fattori personali, relazionali e contestuali, quindi non unicamente insediata nel soggetto: è certamente riferibile all’entità della compromissione, all’età, alla capacità comunicativa da parte del disabile, al grado di motivazione ad apprendere, comprensione e condivisione degli obiettivi educativi; ma anche alla qualità e quantità, al grado di coordinazione e integrazione dei sostegni personali (familiari e sociali) e dei servizi messi a disposizione dall’ambiente, nonché alle aspettative di quest’ultimo (Vico, 1984 e 1994, Gaudreau  1993, Canevaro 1996 e 1999, Canevaro e Ianes, 2003).

Anche la scienza medica ritiene impresa impossibile approdare a una definizione unanimemente certa dello stato di gravità, essendo questo una risultante multidimensionale, imputabile a una pluralità di fattori e parametri riferibili contemporaneamente al soggetto e alla situazione in cui è inserito, che vanno  presi in considerazione in prospettiva dinamica.

A tale proposito, è significativo ricordare che a fronte di una drastica definizione di gravità presente nella Legge Quadro sull’handicap, ben diversamente si esprime il successivo “Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap” (DPR 24 febbraio 1994), rispetto all’integrazione scolastica. Pur con tutti i limiti riconosciuti - in particolare quello di evidenziare  una connotazione marcatamente sanitaria della disabilità - l’Atto di indirizzo definisce la diagnosi funzionale come prodotto di elementi clinici e psicosociali.

Gli elementi clinici si acquisiscono tramite la visita medica diretta dell’alunno e l’acquisizione dell’eventuale documentazione medica preesistente. Gli elementi psico-sociali si acquisiscono attraverso specifica relazione in cui siano ricompresi: i dati anagrafici del soggetto; i dati relativi alle caratteristiche del nucleo familiare (composizione, stato di salute dei membri, tipo di lavoro svolto, contesto ambientale, ecc) (art. 3, comma 2).

Inoltre, il dispositivo ricorda che la diagnosi funzionale è finalizzata al recupero del soggetto, quindi “deve tenere particolarmente conto delle potenzialità registrabili” analiticamente rispetto alle diverse aree di sviluppo (comma 4); per altro, non fa menzione alcuna della situazione di gravità.

Recentemente, il nuovo sistema di Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF)[2], elaborato dagli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, offre un  paradigma interpretativo delle situazioni di minorazione radicalmente rinnovato, e questo cambiamento culturale ha ricadute interessanti anche sulla considerazione degli stati di gravità. Muovendo dal presupposto che al centro dell’attenzione degli studiosi è la “condizione di salute” nel contesto delle singole situazioni di vita e degli impatti ambientali (un  “ombrello”  che accomuna  ogni cittadino) la disabilità  costituisce un sottosistema della “salute”, dunque un “particolare” prodotto dell’interazione tra caratteristiche di salute e fattori contestuali fisici e sociali; come tale, può interessare qualunque persona in un particolare momento della sua esistenza, più o meno continuativamente.

Gli studiosi dell’OMS ricordano che gli individui non devono essere ridotti o caratterizzati esclusivamente nei termini delle loro più o meno gravi menomazioni, limitazioni nelle attività o restrizioni nella partecipazione. Proprio per evitare denigrazione, stigmatizzazione e connotazioni inadeguate, il nuovo modello di classificazione esprime le varie categorie diagnostiche in modo neutrale. “Gli attributi negativi di una condizione di salute e il modo in cui le altre persone vi reagiscono sono indipendenti dai termini usati per la definizione […] Il problema è principalmente di atteggiamenti degli altri individui e della società verso la disabilità”.[3]

 

La condizione di gravità: una sfida per tutti

 

L’eccesso di semplicismo non può certo indurci a pensare che le difficoltà dei disabili gravi siano trattabili come mera questione terminologica: l’esperienza “sofferente” di sopportare ridotti margini di autonomia, attività e partecipazione rappresenta un vissuto inalienabile per il soggetto che ne è protagonista, e per i suoi familiari. Tuttavia, l’unicità originale individuale – per quanto  compressa in confini spazio-temporali angusti – partecipa della dignità dell’essere persona, pertanto è portatrice di potenziale educabile e rieducabile, anche se non è “normalizzabile” (consideriamo il significato di “normalità”in senso statistico). Se si adotta un concetto ampio e profondo di  apprendimento, superando gli orizzonti nei quali è tradizionalmente concepito, si scopre che è alla portata di tutti, nonostante le difficoltà personali e sociali, perché ogni essere umano manifesta capacità di sviluppo.

L’impegno ad investire in coraggio e fiducia non riguarda solo il soggetto disabile, ma coinvolge tutti: dalle figure genitoriali più da vicino investite, ai parenti, amici, specialisti, professionisti che incontrano la sua storia, al cittadino qualunque, che condivide  un’atmosfera culturale. Da parte di tutti e di ciascuno occorre accettare “l’incontro col limite”, inteso come componente - per quanto dinamica - tuttavia necessaria della condizione umana. Dice Montobbio che “nel nodo dell’incontro col limite troviamo contemporaneamente i sentimenti del coraggio e del rischio ma anche quelli della rassegnazione e della rinuncia”[4], dell’assenza di speranza e dell’illusione negata: messaggi dissonanti, a doppia banda. La disponibilità a riconoscere ed accettare  il limite, a incontrare la pena mantenendo la speranza, a intrattenere solidaristiche relazioni di aiuto, a chiedere e offrire sostegni concreti a chi ci sta accanto, a concretizzare questi atteggiamenti in un realistico progetto di vita da condividere con gli altri è cosa che, in varia misura, riguarda la generalità delle persone.

Lo scopo fondamentale  del vivere sociale è quello di aiutare la vita, dovunque, in tutti, di più in coloro che trovano nel vivere la massima difficoltà. Là dove le possibilità  personali sono ridotte, occorre muovere qualche passo in più sul versante sociale, scolastico, lavorativo, sanitario, ambientale: allestire o potenziare servizi comunitari formali ed informali, coordinarli in rete, stimolare nuove risorse, offrire supporti personali e materiali, sempre nell’ottica di considerare il soggetto disabile e la sua famiglia come protagonisti attivi dell’intervento[5]. Infatti, la possibilità di esercizio di  competenza, di offrire risorse oltre che riceverne è una delle due gambe su cui il benessere personale è obbligato a camminare.

Questo apre le porte ad una ulteriore riflessione: non è pensabile che per il disabile in situazione di gravità - manteniamo questa espressione linguistica convenzionale -  e per la sua famiglia la dimensione del tempo sia per la maggior parte occupata  da esperienze di carattere sanitario e terapeutico, coniugate a lunghi intervalli di solitudine, con ridottissimi margini di normalità e assenza assoluta di momenti di ri-creazione distensiva.  Come per il re Mida tutto ciò che toccava si tramutava in oro, per il soggetto in difficoltà qualsivoglia esperienza - perfino quelle che normalmente consideriamo svago - assume i caratteri della “terapia” (ippo-terapia, musico-terapia, teatro-terapia, pet-therapy, ecc.). Ci sembra importante che nel ciclo vitale della famiglia con congiunti disabili, la condizione di gravità venga inserita in un circuito virtuoso di “relativa normalità”, che rende meglio accettabile la situazione, e aiuta a recuperare un certo equilibrio esistenziale. Gli esperti sostengono che   fra i vari principi guida delle recenti riforme di politica sociale, il più generativo sia la normalizzazione intesa come affermazione del diritto di ogni persona, indipendentemente dalle sue difficoltà, a godere di condizioni di vita il più possibile vicine a una ipotetica linea di “normalità”.

 

La situazione di gravità dei soggetti Down

 

Un ragionamento ulteriore, nella direzione di sostenere il valore relativo della “situazione di gravità” del disabile, trova testimonianza nella disposizione legislativa che riconosce appunto la “condizione di gravità” dei portatori  di sindrome Down. La legge finanziaria per il 2003, ha introdotto nuove regole per l’accertamento delle condizioni di invalidità e la conseguente erogazione di indennità alle persone con Trisomia 21 [6] (oltre che a quelle affette da morbo di Alzheimer).

In considerazione del carattere specifico della disabilità intellettiva solo in parte stabile, definita ed evidente, e in particolare al fine di prevenire la grave riduzione di autonomia di tali soggetti nella gestione delle necessità della vita quotidiana e i danni conseguenti, le persone con sindrome di Down, su richiesta corredata da presentazione del cariotipo, sono dichiarate, dalle competenti commissioni insediate presso le aziende sanitarie locali o dal proprio medico di base, in situazione di gravità ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ed esentate da ulteriori successive visite e controlli (art. 94).[7]

E’ piuttosto insolito che lo stato di gravità di una particolare categoria di cittadini costituisca non l’approdo di approfondite ed estese ricerche teoriche e sperimentali condotte da esperti di discipline mediche e/o scientifiche in generale, ma il portato di una disposizione giuridica. Se consideriamo la storia  dell’educazione dei soggetti trisomici possiamo riconoscere alterne interpretazioni, atteggiamenti mutevoli nella considerazione sociale che li riguarda. A partire dagli studi pubblicati dal dr. John Langdon Haydon Down nel 1866 (Osservazioni su una classificazione etnica degli idioti) e fino agli anni Settanta del secolo scorso,  nell’immaginario collettivo queste persone venivano giudicate come i più rappresentativi esponenti della condizione di “diversità” intesa come “sub-normalità”, inferiorità, rispetto alle caratteristiche attribuibili agli individui comuni. Anche a causa dei limitati traguardi raggiunti all’epoca dalla ricerca scientifica, si attribuivano loro limitate potenzialità di vita sia in dimensione temporale, sia rispetto al prevedibile sviluppo delle funzioni di personalità.

Durante una pluridecennale evoluzione del processo di integrazione scolastica e sociale dei disabili, supervisionato criticamente dalla ricerca scientifica ed empirica, si è potuto dimostrare che i soggetti con sindrome Down - se adeguatamente supportati con interventi professionalmente, socialmente e organizzativamente  qualificati - raggiungono buone capacità di maturazione, buoni livelli di inserimento attivo nel mondo scolastico, in quello sociale (culturale, ricreativo, sportivo, ecc.), lavorativo, civico.

Come dunque interpretare l’attribuzione della situazione di gravità ai Down - introdotta nel contesto di una legge finanziaria - visto che appare una scelta dissonante se rapportata alle buone prassi di inclusione che li vedono protagonisti, e al nuovo sguardo scientifico rivolto alle disabilità dall’ultimo sistema di classificazione ICF? Come spiegarsi che, a quanto si dice, il riconoscimento  dello “status di gravità” sia stato richiesto a gran forza proprio da alcune Associazioni di categoria, quindi dalle famiglie direttamente interessate?

Riteniamo che la risposta  porti a ribadire ancora una volta il significato variabile dell’attributo di “gravità”, che davvero non sta solo nell’individuo, ma spesso si origina dall’interazione tra l’individuo e l’ambiente; in particolare, in numerose occasioni la gravità della circostanza (non della disabilità) è provocata dalle croniche carenze/inadeguatezze/disfunzioni dei servizi erogati, e/o dall’arretratezza e dal pregiudizio culturali.

Nella  contingenza particolare, ci permettiamo di ipotizzare che la “rivendicazione” della gravità del deficit per i soggetti Down sia da ricondurre a ragioni di carattere prevalentemente amministrativo/organizzativo. In un contesto caratterizzato dalla mancanza o disorganizzazione delle risorse, l’istanza potrebbe di fatto esprimere l’intenzione di assicurare a sé o ai propri cari quella priorità nella erogazione di servizi che la Legge Quadro sull’handicap attribuisce come diritto inalienabile alle situazioni di gravità.

 

 

* In “APPUNTI sulle politiche sociali”, n. 1-2004
L’articolo riprende in gran parte il testo pubblicato all’interno della monografia L’integrazione scolastica e sociale delle persone con deficit “in situazione di gravità”, pubblicata nel n. 3/2003 della rivista, promossa dal Centro studi Erickson, “L’integrazione scolastica e sociale”. Nella stessa monografia gli altri interventi sono di A. Canevaro, C. Ricci, R. Pizzinelli, L. D’Alonzo, D, Mariani Cerati.

 


 

[1] G. Cottoni, La scolarizzazione e l’apprendimento degli alunni in situazione di gravità, Centro Provinciale di Documentazione per l’Integrazione scolastica, lavorativa, sociale, Parma, n. 8, 1996, p. 10

[2] Organizzazione Mondiale della Sanità, ICF. Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Erickson, Trento, 2002.

[3] Organizzazione Mondiale della Sanità, ICF cit., p. 191.

[4] E. Montobbio, C. Lepri, Chi sarei se potessi essere, Edizioni del Cerro, Pisa, 2000, p. 62.

[5] M. Pavone, “La rete”, in M. Pavone, M. Tortello, Pedagogia dei genitori, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, pp. 309-342.

[6] Il termine “Trisomia 21” è entrato nel vocabolario nel 1959, in seguito alla scoperta della anomalia genetica che provoca la sindrome, da parte del medico Lejeune e della sua équipe.

[7] Legge  n. 289 del 27 dicembre 2002 (finanziaria 2003), in G.U. n. 305, supplemento ordinario n. 240 del 31-12- 2002.


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