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L’integrazione dei bambini handicappati a scuola: intervista a Raffaele Iosa (*)

a cura di Marcello Visocchi

L’ultimo quinquennio è stato un periodo di grandi cambiamenti per la Scuola Italiana. Potrebbe farci il punto della situazione con particolare riferimento all’inserimento e all’integrazione dei bambini portatori di handicap?

Questo quinquennio di riforme ha segnato, bene o male, un’epoca di straordinari cambiamenti nella storia della scuola italiana. Probabilmente tra trent’anni rivedremo questo quinquennio, ovviamente con gli occhi critici di quello che accadrà, come un evento straordinario. Al di là cioè dei giudizi politici o istituzionali dobbiamo ammettere che questo è un paese nel quale cambiare la scuola, creare riforme strutturali, è un processo estremamente complicato.

I lettori sanno che in questi anni abbiamo organizzato il riordino dei cicli scolastici: abbiamo realizzato la scuola dell’autonomia, abbiamo sviluppato moltissimo nuove forme di responsabilità degli enti locali e, contemporaneamente, sono state emanate alcune leggi straordinariamente importanti che possono avere degli effetti significativi nel mondo dell’handicap e della disabilità. Cito in particolare la recente legge Turco sui servizi integrati che sostanzialmente modifica e migliora quello che è uno degli snodi storici di difficoltà in ordine all’integrazione delle persone in situazione di handicap: l’integrazione tra servizi. Non siamo più una logica quasi di contrattazione fra ente locale e scuola, famiglia ed ente locale ma vi è il dovere di tutte le strutture, di tutti i servizi di integrarsi tra di loro, a livello locale prima ancora che nazionale. Logica di concertazione, quindi, piuttosto che logica di contrattazione per far in modo che ogni persona abbia il massimo di opportunità da tutti i punti di vista e da tutti i servizi possibili. Parlo della Legge Turco perché in qualche modo questa innerva anche tutto il resto.

Quali sono i filoni di fondo di questa nuova stagione di riforme relativamente all’handicap?

I filoni di fondo, politici e culturali, sono fondamentalmente tre.

Il primo è quello di aumentare il più possibile, nel mondo sociale, le garanzie di opportunità e cioè rendere possibile all’handicappato ed alle persone in situazione di disagio, il massimo di garanzie tipiche di una società solidale. Una società che renda possibile a tutti lo sviluppo delle proprie potenzialità, di limitare al massimo il rischio che la tutela dei diritti delle persone in difficoltà sia giocato in una logica di pura assistenza.

Il secondo aspetto, strategico e che non riguarda solo l’handicap, è credere molto che la formazione, l’istruzione e l’educazione siano i grandi volani di democrazia e di civiltà. Dobbiamo investire molto di più, per così dire, nel cuore delle persone che crescono come una risorsa umana fondamentale, sia per lo sviluppo economico che per lo sviluppo civile.

In sostanza, abbiamo il bisogno di aumentare le opportunità per tutti. Non parlo, infatti, dell’handicap in senso stretto. E’ in questo contesto che l’handicap si inserisce: fare in modo che l’origine familiare, la condizione fisica, psicologica e l’handicap non diventino e siano condizioni di svantaggio. Ebbene, l’intera politica sulle scuole, l’autonomia, la decentrare i servizi, il riordino dei cicli con una continuità nuova ha in fondo questo grande obiettivo che è quello di migliorare la qualità della vita per tutti.

Il terzo aspetto che, se si vuole, è il più profondo, è quello di partire da un’idea nella quale tutto ciò che attiene al mondo dello "speciale" sia il più possibile ricondotto e valorizzato in una dimensione "normale". Il nostro paese ha un’esperienza straordinaria che non possiamo negare. Io sono orgoglioso di essere italiano quanto meno per questo fatto: da trent’anni ogni mattina, 124.000 bambini e ragazzi handicappati, nelle situazioni più particolari e diverse l’una dall’altra, vengano nelle nostre scuole assieme agli altri, convivono con essi.

L’esperienza ci ha insegnato alcune cose grandi sulle quali non possiamo tornare indietro: la prima è che loro stessi sono una risorsa per noi, la seconda è che vivono meglio e apprendono meglio in un contesto normale piuttosto che in un contesto speciale, la terza è che in qualche modo sono migliori di quanto i deficit certificati all’ingesso possano far pensare.

Questo vuole dire che siamo all’avanguardia rispetto all’Europa?

Noi abbiamo acquisito un patrimonio particolare. Si pensi per esempio al fatto che nella campagna elettorale che stiamo vivendo, le parti politiche hanno idee diverse su tantissime cose, forse quasi su tutto, ma se c’è un punto sul quale i programmi elettorali non hanno particolari differenze: è proprio sull’handicap in rapporto alla scuola. Non esiste in questo momento nel paese una forza politica, culturale che proponga il ritorno alle scuole speciali, agli istituti. Questo non vuol dire naturalmente che non esistano differenze circa il come muoversi.

Si continua a dire, in politica economica ed in politica sociale, che l’Italia deve entrare in Europa. Ho l’impressione che questo sia il caso nel quale è l’Europa a dover entrare in Italia. Prova ne sia che anche nei nostri contatti internazionali ci accorgiamo sempre di più che quello che fino a qualche anno fa era considerato da nostri paesi ‘cugini’ un’eresia italiana, una originalità un po’ latina, mediterranea, la convinzione radicata che gli italiani agiscano più sulla base del sentimento che del la ragione, stia cambiando. E’ emblematico il fatto che il parlamento olandese dopo aver gestito per una quindicina di anni un’esperienza totalmente opposta alla nostra, cominci oggi a promuovere leggi per costruire un sistema del tutto simile al nostro.

Voglio raccontare solo un caso che mi ha molto colpito. Ho avuto un incontro con un dirigente del Ministero Messicano, in Messico ci sono quasi 40 milioni di alunni in situazione di svantaggio. Ebbene il governo messicano sta da anni copiando la nostra normativa, a nostra insaputa. Mi ha fatto molto piacere saperlo e questo dimostra come noi abbiamo un patrimonio che va in qualche modo riconosciuto.

Il fatto di avere una legislazione all’avanguardia rende tutto più semplice?

No, questo non vuole affatto dire che non abbiamo dei problemi. Sicuramente, il nostro è un paese più civile, più capace di capire ed accettare le differenze di quanto invece alcuni aspetti, alcune percezioni ci facciano intuire. Voglio dirlo perché è anche giusto che si sappia: noi siamo in un paese nel quale ormai ospitiamo circa 70 mila alunni provenienti da paesi extracomunitari. Alunni con i quali abbiamo adottato il medesimo modello che abbiamo utilizzato anche per i bambini in situazione di svantaggio. A differenza ad esempio della Francia e della Germania, noi non abbiamo classi speciali. In questi due paesi ci sono persino, non dico delle classi ghetto, ma una specie di quarantena che i ragazzi migranti devono "subire" prima di essere inseriti nelle classi normali. Noi, forse perfino con un po’ di follia democratica, inseriamo tutti fin dal primo giorno in un bagno linguistico che diventa culturale. Abbiamo, in altre parole, un patrimonio tutto sommato positivo grazie al quale consideriamo la diversità una cosa che ci aiuta ad essere migliori, non un problema. Naturalmente, ripeto, non sto affatto dicendo che non ci siano problemi e difficoltà.

Quali sono, quindi, secondo Lei i problemi da risolvere per una proficua applicazione delle recenti normative?

Il primo problema, quello che almeno a me preoccupa di più, non riguarda la scuola.

Devo dire francamente che abbiamo un sistema nel quale, almeno per quanto riguarda la scuola dell’obbligo, l’accoglienza e l’integrazione sono realizzate in un modo tutto sommato positivo. Il problema vero è, invece, il fatto che noi non riusciamo ancora a essere più coraggiosi e forti in quello che non è un problema scolastico ma un problema sociale complessivo. La soluzione, cioè, di quello che noi in termini tecnici chiamiamo "progetto di vita", detto in modo forse più brutale, il passaggio tra il momento in cui la persona disabile termina la scuola e l’inserimento nel modo del lavoro. Non ho altri modi per dirlo. Parto dall’idea che ciò che rende una persona libera non è solo la possibilità di avere un reddito ma soprattutto la possibilità di essere inserito, di esprimere tutte le proprie potenzialità. Questo tema è molto dibattuto all’interno della discussione per il riordino dei cicli e l’innalzamento dell’obbligo scolastico. Bisogna capire come sia possibile sviluppare meglio in rapporto alle regioni, agli enti locali, alla società e al mondo economico, tutte le opportunità per le persone disabili affinché il numero più alto possibile dei nostri ragazzi riesca ad avere poi una relazione con la vita adulta il più possibile normale. Dico ciò perché altrimenti il rischio che corre la scuola è quello di essere la grande illusione socializzata, di diventare un parcheggio che dura per tutta la giovinezza per finire con l’abbandono in un limbo di una vita adulta sempre più precaria. D’altra parte i genitori delle persone disabili sanno bene e vivono sempre con grande sofferenza quello che è il loro vero problema: "quando io non ci sarò, mio figlio con chi starà?"

Una seconda questione. Noi abbiamo inserito i nostri ragazzi nelle scuole normali, abbiamo inventato la figura dell’insegnante di sostegno come una delle chiavi strategiche per qualificare l’integrazione. Dobbiamo dire, però, che su questo abbiamo ancora molto da fare. E’ necessario garantire maggiore continuità. Il fatto vero è, purtroppo, che per tante ragioni (tra cui anche un macchinoso sistema contrattuale e un modello impiegatizio del lavoro) molto spesso gli insegnanti di sostegno sono molto più "volatili", cambiano molto di più di tutti gli altri. Questo crea un paradosso: il fatto cioè che i bambini che avrebbero bisogno di maggior continuità sono quelli che ne hanno di meno.

Dai nostri dati di ricerca, leggibili nella nostra relazione al parlamento di quest’anno, emerge che l’insegnante di sostegno se è stabile in una scuola diventa molto poco insegnante di sostegno del bambino handicappato ma molto di più insegnante della classe. Il primo ad aver bisogno di essere integrato sembra sia proprio l’insegnante. Se invece ogni sei mesi, purtroppo come è capitato quest’anno, cambia insegnante di sostegno, inevitabilmente la scuola è portata a sentirlo più come una specie di custode a cui scaricare addosso il bambino e così via. Abbiamo bisogno di una politica più intelligente sul piano contrattuale.

A suo avviso abbiamo quindi bisogno di puntare molto di più sugli insegnanti di sostegno?

No, non abbiamo bisogno di puntare maggiormente sugli insegnanti di sostegno, ne sono convinto. Abbiamo bisogno di puntare su tutti gli insegnanti. Mi spiego. Il prossimo futuro della scuola parlerà sempre più di diversità, il nostro paese diventerà sempre di più multiculturale. Abbiamo bisogno, quindi, che tutti i nostri insegnanti siano maggiormente competenti su tutto ciò che vuol dire differenza. Nei nuovi percorsi universitari dobbiamo rafforzare molto la conoscenza delle differenze.

Quale può essere il contributo dell’Autonomia sui temi dell’inserimento e dell’integrazione?

Io ho lavorato in questi anni, parallelamente all’handicap, alla costruzione dell’autonomia della scuola.

Mi rendo conto che bisogna aiutare molto di più gli insegnanti a rendersi consapevoli degli enormi potenziali che può avere l’autonomia nel liberare la scuola da quel modello rigido, lineare, routinario che dà a tutti i bambini e ragazzi le stesse cose nello stesso momento, nelle stesse ore. E’ questo il modo di bloccare i ragazzi dotati e impedire ai ragazzi che fanno fatica di riuscire a farcela. La flessibilità didattica, la possibilità di organizzare la scuola per gruppi, per gruppi di cooperazione, con tempi diversi è strategica, è decisiva per i nostri ragazzi in situazione di handicap così come lo è per tutti.

Questo per dire qual è la nuova logica su cui noi vorremmo lavorare con le scuole: non trattarle da uffici burocratici terminali del ministero ma come luoghi pensanti, attivi.

Infine, per quanto riguarda la scuola sono dell’opinione che noi dobbiamo valorizzare molto più l’idea che in genere espongo con questo slogan: è ora di smettere di fare circolari che cadono dall’alto uguali per tutti ma è molto meglio far circolare le esperienze. Noi del Ministero dobbiamo diventare struttura di servizio, non struttura di comando.

Qual è il suo punto di vista sull’utilizzo delle nuove tecnologie?

E’ un altro aspetto su cui dobbiamo lavorare di più e al quale mi sto molto appassionando.

Ho visto in questi ultimi anni un’esplosione straordinaria di utilizzo di tecnologie nella scuola e anche nella vita privata. D’altra parte dobbiamo renderci conto che oggi attraverso i computer, internet, le particolari tecnologie specifiche, persone che dieci anni fa non erano in grado di farlo ora possono leggere e scrivere, comunicare. Con piccoli sensori messi vicino alle ciglia bambini spastici scrivono poesie e dicono come la pensano. Non voglio dire che la tecnologia sarà la nuova Lourdes che farà i miracoli, non è questo. Ma non posso non riconoscere che alimentando la ricerca e aumentando dentro la scuola il suo utilizzo può migliorare straordinariamente apprendimenti e socializzazione.

Come potranno essere utilizzate secondo Lei le nuove tecnologie?

Personalmente voglio far in modo che si favorisca l’uso delle tecnologie molto di più di quanto abbiamo fatto finora. Un circuito di queste esperienze per alimentare dentro la scuola l’idea che essa è un luogo in cui la penna, la matita, il quaderno non sono necessariamente gli unici strumenti ma dove la tecnologia può diventare un potenziale, nel senso anche strumentale e tecnico, di straordinario valore.

Stiamo lavorando alla costruzione di un portale web, e lo facciamo in collaborazione con la BDP, che è selettivo ed elettivo. Non è uno dei tanti portali sull’ handicap che in genere hanno migliaia di pagine e dove si corre il rischio di annegare piuttosto che navigare, ma un portale molto selettivo che vuole offrire agli insegnanti esempi, buone pratiche, un centinaio all’anno, che possano aiutare ogni scuola a fare quella cosa che è fondamentale in ogni professione che è il dovere di copiare.

Se un nostro collega ha già fatto una buona esperienza, non si vede perché non possiamo dignitosamente copiare. E, altrettanto, se una scuola ha condotto un’esperienza positiva non si vede perché se la deve tener chiusa nei propri cassetti, nei propri registri e non meriti invece che sia messa in circolazione. A questo proposito, intendiamo finanziare la ricerca perché ci siamo accorti che in molte scuole italiane si fa ricerca vera e propria, in termini scientifici. Si inventano strategie, si producono software. Ma la disgrazia è che, spesso, come se ne va il bambino handicappato, muore anche l’esperienza, rimane, appunto, in un cassetto e non si usa più.

Cosa può dire a proposito degli standard di qualità del servizio scolastico nazionale?

L’Italia non è uguale dappertutto. Ci sono luoghi nei quali la qualità del servizio per l’integrazione è bassissima, luoghi dove è perfino eccessiva. Allora non è possibile in un’epoca nella quale la parola dominante nella bocca di tutti è federalismo, pensare ad un modello nazionale unico. Vi è la necessità di fare in modo che alcuni standard essenziali di qualità, in questo la legge Turco ci può aiutare, abbiano diritto di cittadinanza in ogni parte del paese.

L’esperienza che ho, girando molto l’Italia, è che, per esempio, per quanto riguarda la singola scuola, in questo momento noi abbiamo scuole di qualità, di altissima qualità e scuole vergognosamente desolanti anche nel medesimo quartiere. Non c’è, quindi, un nord, sud, centro, periferia ma la qualità dipende tantissimo dai comportamenti collettivi dello staff che compone una determinata scuola. Il problema politico e istituzionale nostro è come fare in modo che le scuole di eccellenza vengano premiate e valorizzate e le scuole in difficoltà aiutate.

E per gli Enti Locali?

La stessa cosa riguarda gli Enti Locali. Se in genere si può dire che esiste una tradizione amministrativa migliore al nord che al sud, ed è vero che in genere c’è una maggiore qualità perfino pragmatica dei servizi al nord, possiamo anche dire che sta ormai emergendo una complessità tra nord, sud, centro, ovest, che dipende tantissimo anche lì dai comportamenti istituzionali. Al nord, ad esempio, sta avvenendo un fatto che a me stupisce molto: le professioni sociali sono praticamente in grande crisi. Non c’è più nessuno che vuole esercitarle. All’Università di Padova, per il corso di specializzazione per il sostegno, l’80 per cento dei posti messi a concorso è stato vinto, attraverso la prova di selezione, da insegnanti che provengono dal Sud, dove probabilmente il mercato del lavoro è diverso che al nord. Ma è anche vero che al nord c’è una tendenza a delegare al terzo settore molto di più che al sud. Ho sempre avuto la percezione che se il terzo settore si sostituisce al pubblico, non collabora con il pubblico. Il rischio che si corre è quello che, poiché il terzo settore vive in relazione a quante persone deve servire, è tendenzialmente portato ad aumentare la domanda, cioè ad aumentare i tassi si assistenza piuttosto che i tassi di autonomia.

E’ necessario, quindi, un certo equilibrio tra le parti?

Si. C’è bisogno di equilibrio e cioè che siano lavori di concertazione, di partnership non di delega. Posso dire che spesso al sud c’è una tenuta della famiglia, una tenuta sociale, che è nettamente migliore che al nord. Allora, anche nei termini delle politiche locali, trovo molto interessante che al centro della politica dell’integrazione sia stato messo l’ente locale. Trovo che quest’idea del comune come posto dove mettere in comune, anche qui gioco sulle parole, cioè dove bambini e ragazzi di tutti i tipi vengano messi in comune nel senso, appunto, di un luogo dove l’ente locale, i volontari, i cittadini, i genitori naturalmente, trovino la sinergia, rende veramente federale questo paese nel senso giusto della parola.

Io ho sempre pensato che la parola federalismo si deve sposare con l’idea di sussidiarietà. Non tanto nel senso che chi prima faceva il ministro a Roma oggi fa l’assessore regionale, ma che si porti più in basso possibile vicino al cittadino il luogo delle decisioni in modo da aiutarlo di più e meglio. E’ il principio della sussidiarietà. Se un cittadino può farcela da solo, ha tutto il diritto di farcela da solo. Noi dobbiamo arrivare nel momento in cui non ce la fa. Non immaginare che siamo sempre indispensabili a tutti ma cercare di trovare quelle che sono le cose che possono essere utili per la persona, perché non c’è cosa migliore nella vita che imparare a fare da soli.

(*) L’intervista è apparsa in Vita dell’Infanzia, n. 7, settembre 2001, pp. 42-46


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