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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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L’Italia che accoglie
Il futuro dell’inclusione e del welfare
(Seminario DS Firenze 24-25-26 ottobre 2002)


Intervento Livia Turco



L’Italia che accoglie: il futuro dell’inclusione e del welfare

Premessa
Accogliere ed includere: il significato di queste parole oggi

Lo sviluppo umano e la promozione delle capacità
La moderna questione sociale

La reciprocità tra generazioni ed il patto di cittadinanza tra italiani e stranieri è il riformismo che costruisce il futuro

·Per un welfare dello sviluppo umano

Consentitemi di affrontare il tema di questa sessione partendo da una riflessione che troppo rapidamente è stata archiviata nel nostro dibattito. La propongo utilizzando un’espressione di Giuliano Amato contenuta in una sua intervista del 10.6.’02, dopo le elezioni francesi, e che mi ero annotata perché esprime bene il problema che ci sta di fronte e da cui partire per parlare di riforma del welfare: "……Vota per il centrosinistra solo chi si preoccupa del bene del Paese perché già sta bene di suo. Invece diserta chi sta male e dunque pensa solo a se stesso. Il rischio per noi è di diventare un macro Partito d’Azione".

Non dimentichiamo, tra l’altro, che una quota significativa dell’elettorato dei Forza Italia e della Casa delle Libertà è costituito da un elettorato popolare: pensionati, disoccupati, casalinghe, operai.
Cito a questo proposito l’utilissimo saggio di Piergiorgio Corbetta "Forza Italia, il nuovo che non c’è". (Il Mulino, 3/2000)
Non a caso la politica del Governo Berlusconi si presenta non con il volto del tacherismo, ma con quello populista che, mentre destruttura il sistema dei diritti e delle politiche pubbliche relative alla formazione, alla sanità, alla previdenza, nomina i più deboli, dimostra loro attenzione, nomina i problemi della vita quotidiana come quello degli anziani non autosufficienti o degli asili nido. Lo fa attraverso politiche ingannevoli e con il cinismo della propaganda e della strumentalizzazione. Ma quei messaggi possono creare consenso.
C’è una politica sociale del centrodestra che parla il linguaggio della "tolleranza zero" (nei confronti dell’immigrazione, della criminalità minorile, del disagio mentale) e quello della filantropia e della solidarietà.
Una politica sociale che ripropone un uso spartitorio delle risorse (ad esempio, nel campo della lotta alle droghe, nel rapporto con il volontariato); che esalta lo strumento penale per risolvere situazioni complesse di disagio sociale; che esalta la dimensione "privata" della famiglia per riproporre una separazione tra dimensione privato-familiare e dimensione sociale.
Il riformismo del centrosinistra deve, allora, riuscire, a partire dalle battaglie in corso, a qualificarsi come RIFORMISMO delle RESPONSABILITÀ verso il Paese – nei termini indicati dall’articolo di A. Reichlin sulla Repubblica del 22 ottobre - ed al contempo come RIFORMISMO POPOLARE e costruire un’ampia alleanza sociale che unisca i ceti deboli, gli esclusi, il lavoro dipendente con le forze del sapere e dell’impresa più dinamica.
Riformare il welfare significa definire il blocco sociale del centrosinistra e costruire un patto sociale. Che non è dato, come sappiamo, dalla statica rappresentanza degli interessi, ma da un progetto per il paese in cui sia chiaro per ciascuno la convenienza che può trarre, le opportunità che può ricevere, ma anche il ruolo che può giocare.
Costruire un patto sociale significa offrire l’opportunità a chi ne è coinvolto di sentirsi rappresentato negli interessi, ma anche di sentirsi parte di un progetto e di un destino del paese.
L’Ulivo nel ’96 vinse perché si presentò con un progetto e si pose l’obiettivo di rappresentare un blocco sociale: il lavoro dipendente, le forze intellettuali e quelle dinamiche dell’impresa.
Sono convinta che per costruire una proposta di riforma del welfare sia utile partire dal patrimonio rappresentato dall’esperienza di governo del centrosinistra. Per rielaborarlo, per trarre da esso una "lezione" per il futuro.
L’azione di governo del centrosinistra, per quanto riguarda la riforma del welfare, ha dovuto misurarsi con due pesanti vincoli: il risanamento economico e la rilegittimazione dell’efficacia e del valore delle politiche pubbliche svilite non solo dal neoliberismo, ma anche dalle inefficienze del sistema pubblico.
Ed il merito più grande (purtroppo sottaciuto) che ha avuto la nostra esperienza di governo è stata quella di avere rileggittimato sul piano dei valori, dell’efficacia ed anche della sostenibilità finanziaria le politiche pubbliche in merito alla sanità, alla scuola, alle politiche sociali. E di aver esplicitato a partire dalla Finanziaria del 1996 – per proseguire in tutte le altre – un nesso forte tra azione di risanamento, promozione dello sviluppo e promozione della coesione sociale.
I limiti che rinvengo in quella esperienza sono soprattutto due:
1. La mancanza di una visione d’insieme dell’azione riformatrice, l’aver proceduto per pezzi, tante volte neppure tra loro comunicanti, secondo una logica incrementale che si è limitata ad aggiungere misure al sistema esistente anziché riformarlo ed arricchirlo. Questo è stato vero, soprattutto in quell’ambito del welfare in cui le carenze ed il bisogno di riforma era più acuto come la tutela dai rischi della disoccupazione, la tutela dei nuovi lavori, la lotta alla povertà, il sostegno alle responsabilità familiari.
2. La mancanza di legami sociali, che ha visto indebolirsi quelli del nostro mondo tradizionale - lavoro dipendente, pensionati – e ha registrato la nostra assenza nella realtà dei nuovi lavori e nelle situazioni di vecchio e nuovo disagio sociale.

Il lavoro che dobbiamo svolgere, per contrastare l’azione del governo e preparare una alternativa, deve collocarsi su tre piani:

1. Aggiornare le nostra analisi della questione sociale: per cogliere la complessità dei fattori che determinano inclusione ed esclusione sociale; per misurarsi con i risvolti che avrà il mutamento della composizione demografica del nostro paese; per apprezzare, finalmente, il valore economico e sociale delle attività di cura connesse alla sfera della riproduzione sociale;

2. Costruire legami sociali e promuovere la partecipazione attiva dei soggetti, promuovere convivenza. Essere cioè, concretamente e quotidianamente partito dell’integrazione sociale.
Per "accogliere", per "includere" è necessaria, infatti, una "buona politica" che sia capace di costruire un legame vero con la vita quotidiana delle persone e sappia dare il senso della prospettiva e del futuro;

3. elaborare una proposta compiuta di riforma attraverso il coinvolgimento delle competenze, ma anche dei soggetti sociali interessati al cambiamento


Accogliere ed includere: il significato di queste parole oggi

Accogliere, includere: cosa significano queste parole in una società e in un tempo in cui sempre più frequentemente nelle zone dell’opulenza e del benessere, nella vita normale incontriamo Erica, Omar, Nicola, la mamma di Cogne, lo sterminio di una famiglia a Chieri?
Si tratta di violenze inaudite ed indecifrabili che svelano la realtà di una generazione che, se tante volte si presenta con il volto dell’impegno e della generosità, molte altre esprime vuoto, spaesamento, solitudine.
Una generazione di ragazze e di ragazzi che parla di noi adulti e parla di questa nostra società e, soprattutto, chiama in causa la capacità regolativa e di senso delle istituzioni preposte alla formazione delle persone e del bene comune: la famiglia, la scuola, i media, la religione, la politica.
Questi ragazzi che crescono rintronati dalla televisione, dalla pubblicità e da miti bugiardi, da una promessa di felicità a buon mercato, segnalano la fragilità della funzione pedagogica degli adulti, essenziale per ogni società, non importa a quale grado di sviluppo tecnico-industriale.
Il problema è che si è interrotta la "narrazione tra le generazioni", vale a dire la trasmissione e lo scambio di saperi, di affetti, di legami, di opportunità che costituiscono uno dei fattori fondamentali di inclusione sociale.
E si è interrotta su un punto cruciale che è la comunicazione dei linguaggi e dei sentimenti.
I ragazzi che giocano per ore con gli strumenti moderni della tecnologia, con i videogiochi, con i messaggini del cellulare sono più svegli e più rapidi nel cogliere i nessi causali e logico formali.
Ma l’intelligenza nel maneggio dei videogiochi non ha nulla a che vedere con la relazione sociale affettiva, con il rapporto umano non simulato, ma sperimentato nella realtà.
E sono quest’ultimi i beni che dobbiamo restituire ai nostri figli affinché la nostra società sia accogliente ed inclusiva.
Così come dobbiamo riflettere, come persone e come soggetto politico, sulle conseguenze che comporta e comporterà negli stili di vita, nell’uso delle risorse, nella qualità delle relazioni umane il nostro divenire sempre più società del figlio unico, degli anziani soli, dei genitori sovraccarichi di lavoro.
Questi nostri ragazzi esprimono lo spaesamento dentro una società del benessere – che è diventata società di mercato – e che ha capovolto l’ordine dei valori per cui le cose, gli oggetti, i consumi sostituiscono le relazioni umane.
Le quali sono forgiate su un codice della "normalità esteriore" e sono prive di un codice etico di senso. Relazioni erratiche che sono più l’incrocio di solitudini, che non appunto, relazioni.
E la domanda profonda e vera che proviene da queste erraticità, precarietà, disordine delle relazioni – tra giovani ed adulti, tra uomini e donne, tra adulti ed anziani - è una domanda di SENSO e di SICUREZZA. Che chiama in causa diversi aspetti.
Le difficoltà delle persone ad interpretare il cambiamento ed a collocare se stesse in una società diventata troppo grande, troppo complessa, troppo confusa e che non si riesce a decifrare ed a capire.
La maggiore problematicità nel governare la propria biografia e costruire un progetto di vita basato su certezze e sicurezze dato che la vita delle persone oggi è meno lineare, meno prevedibile, più esposta a rischi, dove certe difficoltà si presentano più volte nel corso della vita (per esempio la perdita e la ricerca di lavoro).
Tanto più quando molte persone si trovano prive delle fondamentali opportunità e dei fondamentali diritti; si confrontano con le povertà e si vedono riflesse diseguaglianze sociali eccessive ed ingiuste.
E poi, ancora la fatica a costruire legami sociali significativi ed il grande bisogno di calore umano, di sentirsi parte di una narrazione collettiva. Ed, al contempo, la ricerca della libertà, dell’impresa individuale che incorpa un rischio calcolato.
Di fronte a questo contesto l’azione di inclusione si presenta molto complessa e deve agire in ambiti e sfere diverse.
Deve consentire a ciascuna persona di godere di una soglia di benessere intesa come fruizione di una quota adeguata di beni che concorrano a formare le qualità della vita; deve consentire al lavoro di tornare ad essere non solo una fonte di reddito, ma anche di realizzazione individuale; deve promuovere la legalità ed il rispetto delle regole e contrastare il degrado urbano; deve restituire efficacia e capacità regolative alle principali funzioni connettive della società, alle istituzioni ed alle relazioni che ne sono preposte: scuola, famiglia, media.
Nella consapevolezza che le risorse fondamentali per l’inclusione sono il sapere, il lavoro, la capacità di dare e ricevere cure, di costruire legami sociali. Ed anche di promuovere un’etica pubblica della responsabilità che sradichi finalmente quel "familismo amorale" che è tanta parte della nostra storia nazionale.
Dunque, accogliere, includere non significa solo redistribuire in modo equo le risorse, ma ricostruire il tessuto connettivo della nostra società. E, dunque, declinare in modo nuovo la cittadinanza che non può essere scandita solo dalla grammatica dei diritti, ma comporta la riscrittura del senso della dignità umana.
Torna preziosa la riflessione di Amathia Sen – premio Nobel per la pace – attorno alle capacità.
Per capacità A. Sen intende ciò che le persone sono in grado di fare e di essere in una determinata società; quanto la loro dignità come esseri umani è riconosciuta e valorizzata; quanto le persone siano libere di scegliere la loro vita nella concretezza delle loro particolari condizioni.
La capacità è l’esercizio delle libertà sostanziali; mette l’accento sui risultati che si ottengono attraverso il buon utilizzo delle risorse.
Quello delle capacità è un concetto molto importante perché mette al centro dello sviluppo economico e sociale l’assunzione di responsabilità delle persone e la responsabilità del contesto sociale di consentirgli di esprimere tutte le sue potenzialità e di partecipare così, in modo attivo, alla promozione del benessere.
Non si limita a riconoscere in modo formale un diritto, ma si preoccupa di come renderlo pratico ed effettivo.
Concentra la sua attenzione sui processi di trasformazione dei diversi beni a disposizione dei singoli giacché i beni, in questa prospettiva, hanno valore non solo in quanto sono posseduti, ma in quanto sono capaci di generare un risultato.
La politica di inclusione si qualifica così come la capacità di tradurre il reddito in benessere ed in libertà.
Non a caso il concetto di "capacità" si accompagna a politiche di sviluppo economico-sociale capaci di offrire "opportunità concrete", di sollecitare "capacità effettive" e consentire di perseguire il proprio "progetto di vita".
Adottare questo concetto significa, per quanto ci riguarda, superare definitivamente un sistema di protezione sociale che mette (o si illude di mettere) le persone al riparo dai rischi fornendo loro dei risarcimenti per costruire un sistema che metta i soggetti nelle condizioni di affrontare meglio i rischi accrescendo la loro dotazione di mezzi, risorse, opportunità.
Martha Nusshaum integra questa proposta di valorizzazione delle "capacità" attraverso il riconoscimento delle interdipendenze e delle dipendenze che fanno parte dell’esperienza umana.
"Ogni società reale è una società in cui si dispensano cure e si ricevono cure".
L’atteggiamento di cura è un atteggiamento umano fondamentale che dovrebbe fondare ogni teoria etica e della cittadinanza.
La cittadinanza si declina, allora, come pieno esercizio delle capacità di una persona; come pieno riconoscimento della sua dignità. Come responsabilità verso se stesso e verso la comunità; come disponibilità delle persone a dare e ricevere cura.
Essa arricchisce la strategia dei diritti chiarendo che non si tratta di un catalogo di rivendicazioni, ma della individuazione dei beni essenziali che devono essere riconosciuti a ciascuna persona perché essa possa esprimere pienamente la sua dignità.
Il messaggio evangelico "Lazzaro, alzati e vai" ed il motto del volontario "mi prendo cura di te perché fare del bene fa stare bene", costituiscono – a mio avviso – la metafora entro cui declinare oggi la strategia della cittadinanza. Che recupera così una radice antica della sinistra, quella della mutualità, della cooperazione, della partecipazione attiva dei soggetti.
Radice che è stata arricchita dall’esperienza e dalla cultura del Movimento delle donne e da quello che si configura, oggi, come un grande soggetto di modernizzazione e di innovazione nel rapporto tra cittadino ed istituzioni, vale a dire il volontariato e il Terzo settore.
L’inclusione che si basa sulla promozione delle capacità delle persone deve ricercare strade inedite per promuovere la capacità d’azione dei cittadini, per promuovere il cittadino competente.
Infatti, la grande partecipazione alle attività di volontariato e in generale del Terzo settore mette all’ordine del giorno dell’agenda politica un tema strategico: l’impegno civile come opportunità di innovazione della società. Significa che rafforzare la società civile, i soggetti sociali che operano tra Stato e mercato, non è una sfida che riguarda solo le solidarietà e le responsabilità collettive, ma anche la libertà degli individui e la loro capacità di iniziativa. Le prospettive di affidare più potere alla società civile non è giustificato dal fatto che le casse dello Stato sono vuote. È una sfida che trova giustificazione nel fatto che solo per questa via si aprono gli spazi di innovazione per le istituzioni dello Stato e per l’economia.

Lo sviluppo umano e la promozione delle capacità

Le parole: accogliere, includere ci portano a riflettere per quale società e quale proposta di sviluppo economico e sociale vogliamo realizzare.
Se l’aspetto cruciale di una politica di inclusione è la valorizzazione delle capacità delle persone, e dunque, l’investimento sul capitale umano, questo compito non può essere delegato solo alle politiche pubbliche o ai soggetti del no profit, ma deve costituire la responsabilità primaria di una politica di crescita e di sviluppo economico.
Veniamo così al cuore del welfare-state: quello di essere propulsore di una interazione tra la crescita economica e la coesione sociale.
È stata questa la "missione" del welfare europeo. Essa deve rimanere la "missione" del welfare europeo che verrà. Ciò significa, come ha affermato Romano Prodi, "procedere nel senso dell’adeguamento e del rafforzamento del sistema di garanzia e della giustizia sociale" nella consapevolezza che oggi il cimento è più arduo di ieri.
Quale rapporto dunque tra le politiche di welfare e la crescita economica?
Questione che può essere formulata attraverso l’interrogativo: riteniamo possibile, nel mondo di oggi, attivare politiche redistributive e di sviluppo capaci di contrastare le attuali diseguaglianze a fronte di una perdita di sovranità degli stati ed a fronte di una mondializzazione dei mercati che, come scrive V. Beck sul suo "Cosa è la globalizzazione", "……consente alle imprese ed alle loro associazioni di liberarsi e riconquistare il potere di azione finora addomesticato con gli strumenti della politica e dello stato sociale, di un capitalismo organizzato democraticamente"?
In che termini può essere oggi proposta una politica redistributiva e di equità?
Si tratta allora di misurarsi con le diseguaglianze tra gli stati e negli stati, e definire in cosa consiste una politica di sviluppo, di benessere sociale e di promozione dei diritti.
Partire dalle diseguaglianze non significa avere una visione negativa dei processi di globalizzazione, ma porsi l’obiettivo dell’estensione e del pieno utilizzo – in un’ottica di equità – delle importanti opportunità di sviluppo economico, sociale e personale che esse comportano.
Assumendo la prospettiva indicata da A. Sen secondo cui la questione non è semplicemente se tutte le parti guadagnano qualcosa, ma se la distribuzione dei guadagni sia equa.
Si sta affermando sempre più la consapevolezza che la diseguaglianza è negativa non solo dal punto di vista dell’equità, ma anche di quello della crescita e dello sviluppo.
C’è una correlazione negativa tra diseguaglianza e crescita; c’è una correlazione positiva tra redistribuzione e crescita.
Bisogna dunque costruire una complementarietà e non una contrapposizione tra crescita e redistribuzione.
Questo significa pensare ad una funzione del welfare che non sia solo riparativa e risarcitoria, di puro contenimento delle diseguaglianze prodotte dai meccanismo spontanei del mercato, ma che sia propulsore dello sviluppo. A partire dalla consapevolezza, ad esempio, che risorse decisive per lo sviluppo sono la formazione, la conoscenza, le relazioni e che dunque i bisogni sociali possano essere la base per uno sviluppo di idee, di tecnologie e di investimenti di lungo periodo. Bisogna cioè vedere le potenzialità di mercato e di lavoro delle politiche sociali. Mentre, ancora troppo nella sinistra, le politiche di formazione del benessere della persona sono viste come residuali, assistenziali e di puro costo.
Le tradizionali politiche di welfare hanno sempre assunto le politiche sociali come "compensazione" o rimedio ai guasti provocati dal mercato. In questa visione, "sociale" e "mercato" rappresentano i poli alternativi di un discorso pubblico entro cui cercare solo una sorta di equilibrio tra dinamiche fra loro antagoniste.
Da un lato, il mercato che avvantaggia pochi soggetti, destruttura il sistema delle relazioni sociali, dissolve le appartenenze ecc.; dall’altro le politiche sociali che intervengono a ricomporre i cocci con servizi di protezione, assistenza e recupero. In ogni caso, "dopo" che il tessuto sociale si è frantumato.
Bisogna rovesciare tale impostazione. Le politiche sociali possono essere assunte esse stesse, al pari del mercato, come produttrici di ricchezza e di occupazione. Occorre inaugurare una "nuova via" che sia in grado di coniugare protezione sociale e solidarietà da un lato, produzione di reddito e nuove opportunità economiche, dall’altro. Una compiuta strategia di lotta all’esclusione sociale è tenuta a considerare tutte le potenzialità di mercato, e quindi di lavoro e di sviluppo, delle politiche sociali.
Riformare il welfare significa allora orientarlo nella direzione della promozione di uno sviluppo con alta qualità ed intensità di lavoro, ecologicamente sostenibile, socialmente inclusivo e solidale.
Si tratta, insomma di passare da un welfare assistenziale e risarcitorio ad un welfare promozionale dello sviluppo economico, della qualità del lavoro, della piena e buona occupazione e della inclusione sociale.
Vorrei citare ancora A. Sen: "…… il divario fra due punti di vista, quello tutto concentrato sulla prosperità economica e quello più ampio che mette in primo piano il tipo di vita che possiamo vivere è un tema di primaria importanza quando si concettualizza lo sviluppo. La ricchezza non è il fine ultimo che cerchiamo, la perseguiamo solo in vista di qualcos’altro.
L’utilità della ricchezza sta nelle cose che ci permette di fare, nelle libertà sostanziali che ci aiuta a perseguire. Due cose sono egualmente importanti: riconoscere il ruolo cruciale della ricchezza nel determinare le condizioni e la qualità della vita e rendersi conto di quanto sia condizionata e contingente questa correlazione. Una concezione adeguata dello sviluppo deve andare ben oltre l’accumulazione della ricchezza e la crescita del prodotto nazionale lordo e di altre variabili legate al reddito; senza ignorare la crescita economica dobbiamo guardare più in là.
Dobbiamo considerare ed esaminare sia i fini sia i mezzi dello sviluppo se vogliamo capire più a fondo lo sviluppo stesso; prendere come obiettivo principale la massimizzazione del reddito e della ricchezza è una scelta che si può definire inadeguata. E, per la medesima ragione, non è sensato considerare la crescita economica fine a se stessa; lo sviluppo deve avere una relazione molto più stretta con la promozione della vita che viviamo e della libertà di cui godiamo.
L’espansione di quelle libertà che a buona ragione consideriamo preziose non solo rende più ricca e meno soggetta a vincoli la nostra vita, ma ci permette anche di essere in modo più completo individui sociali che esercitano le loro capacità, interagiscono con il mondo in cui vivono e influiscono su di esso. Ne deriva una lettura della povertà come privazione di capacità fondamentali e non solo come mancanza di reddito, e la politica di inclusione come capacità di tradurre il reddito in benessere ed in libertà. Se il benessere sociale viene concepito in funzione dello star bene individuale, allora occorre tenere conto delle variazioni nella conversione del reddito in star bene, prestando le dovute attenzioni alla mutevole relazione tra reddito, da una parte e capacità e funzionamenti dall’altra. Anche questi fattori di conversione che influenzano le relazioni tra reddito e star bene devono essere presi esplicitamente in considerazione. L’analisi deve spostarsi dallo spazio dei redditi a quello degli elementi costitutivi dello star bene e della libertà. Le politiche redistributive non possono ignorare il fatto fondamentale delle diversità umane e l’importanza di fondo della libertà umana. L’eguaglianza della libertà di perseguire i nostri fini non può essere generata dall’eguaglianza nella distribuzione dei beni primari.
Dobbiamo esaminare le variazioni interpersonali nella trasformazione dei beni primari e più in generale delle risorse nelle capacità di ciascuno di perseguire i propri fini ed obiettivi.
Se siamo interessati all’eguaglianza delle libertà non vi è alcun vantaggio nel richiedere l’eguaglianza dei suoi mezzi anziché ricercare l’eguaglianza dei suoi risultati. "La libertà è collegata a entrambi, ma non coincide con nessuno dei due". (A. Sen, "La diseguaglianza")
Queste considerazioni hanno delle implicazioni molto concrete coma la formulazione in sede di Unione Europea di indicatori dello sviluppo umano basati non solo sul reddito, ma su un approccio più complesso al fine di misurare la relazione tra abbondanza economica (o scarsità economica) e salute sociale. Perché dobbiamo riuscire a capire come mai il disagio sociale cresce anche quando l’economia migliora. Perché si realizza una divaricazione tra abbondanza economica e salute sociale. C’è qualcosa di profondo che ha alterato il nesso, fino a qualche tempo fa solido e diretto, tra l’economia e la società. Qualcosa che gli indicatori economici non sono in grado di cogliere.
Bisogna riequilibrare il rapporto tra mercato e società. Bisogna comporre la divaricazione tra PIL e qualità sociale. Ed allora, come suggeriva in un suo articolo Giorgio Ruffolo, dobbiamo disporre di indicatori precisi della qualità sociale.
"La identificazione di una serie di indicatori sociali permetterebbe di costruire il ritratto concreto di una società non ad una dimensione e di assumere quegli indicatori come punto di riferimento dell’azione politica: l’educazione, l’ambiente, la sicurezza, la partecipazione politica, la vivacità culturale, la salute, l’ambiente, non evocati in "discorsi", ma identificati concretamente in "traguardi".

La moderna questione sociale

Permane nel centrosinistra una lettura datata della questione sociale che elude la complessità dei fattori che determinano inclusione ed esclusione sociale, non si è misurata con i risvolti che avrà soprattutto per i giovani il mutamento della composizione demografica del paese – non solo diventare una società di anziani, ma anche di figli unici – e che continua a non vedere il ruolo economico e sociale che rivestono le attività connesse alla sfera della riproduzione umana.
Oggi più di ieri le persone possono essere esposte al rischio di povertà e di esclusione sociale. Oggi più di ieri i percorsi biografici vivono situazioni di incertezza.
La vita delle persone è molto meno lineare e prevedibile; certe difficoltà si presentano più volte nel corso della vita (per esempio la perdita e la ricerca di lavoro). Il singolo è molto più solo nel senso che non può contare sul sostegno della comunità; i legami sociali deve costruirseli in proprio.
In questo senso anche una persona normale si confronta periodicamente con momenti di crisi nei quali è determinante la dimensione sociale.
Insomma, la popolazione non si divide più in una "maggioranza normale" (casa, lavoro, famiglia) che ce la fa da sola e in una minoranza di persone in difficoltà che richiedano assistenza, orientamento, sostegno.
Le politiche di welfare devono essere dunque di sostegno alla normalità della vita quotidiana. Devono essere "politiche della vita quotidiana".
Politiche universalistiche, aperte a tutte e a tutti al cui costo ciascuno partecipa sulla base del reddito. Solo così si possono prevenire i rischi ed aiutare i deboli. I quali non sono catalogabili "a priori" in categorie, ma possono diventarlo nel corso della vita.
Reddito, qualità del lavoro, accesso ai circuiti informativi, consistenza e qualità del percorso formativo, percorsi biografici, composizione del nucleo familiare: sono questi i fattori che primariamente determinano inclusione ed esclusione sociale.
Non a caso i dati ISTAT e gli studi sulla povertà nel nostro paese condotti dalle (benemerite) Commissioni Povertà della Presidenza del Consiglio che si sono succedute in questo paese (e che questo governo ha ridotto al silenzio) ci mettono in evidenza che la condizione di povertà colpisce una fascia orizzontale della popolazione.
Si tratta di persone anziane sole, di coppie con figli minori, famiglie monoparentali con figli minori, giovani che svolgono lavori "poveri".
L’Italia, dopo la Gran Bretagna, è il paese con il più alto tasso di povertà minorile; 1.704.000 è il numero di minori poveri nel 2000, pari al 16,9 % di tutti i minori. Essa si concentra nelle Regioni del Mezzogiorno dove è povero il 27,4% di tutti i minori, a fronte del 7,3% nel Nord e l’11,3% nel Centro.
Scrive Chiara Saraceno: "…. La povertà fra i minori contraddice i più elementari principi di uguaglianza delle opportunità e compromette le aspettative di reddito futuro. Lo svantaggio potenziale di più lungo periodo – in termini di minore istruzione, difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro, rischi di esclusione sociale ecc. deriva dell’esser poveri nella fase iniziale del ciclo di vita".
Le famiglie in condizioni di povertà relativa nel 2000 sono pari al 12,3% del totale delle famiglie; le famiglie in condizioni di povertà assoluta sono pari al 4,3% del totale delle famiglie.
La povertà relativa si addensa nel Mezzogiorno dove le persone povere sono il 25,5% della popolazione; ma è presente anche nel Centro Nord dove colpisce il 7,3% della popolazione .
Cito, inoltre, il fenomeno delle persone senza fissa dimora, stimate in 17.000, e formate all’80% da maschi, relativamente giovani (il 70% ha meno di 48 anni) quasi in egual misura italiani e stranieri.
È, quindi, anzitutto la mancanza di lavoro a provocare la povertà delle famiglie e degli individui, con esiti lungo tutto il ciclo della vita; si è poveri da bambini come figli di disoccupati e sottoccupati; si rimane poveri da giovani e da adulti perché la povertà dei genitori, unita ad una politica della formazione poco attenta a compensare le situazioni di svantaggio familiare, non consente l’accesso ad una formazione adeguatamente spendibile sul mercato del lavoro; e si rimane poveri da anziani perché una carriera lavorativa frammentata e precaria, spesso non coperta da contributi previdenziali, non garantisce neppure la pensione minima INPS.
L’accesso al lavoro è dunque essenziale per combattere l’esclusione sociale e per una politica di inclusione.
Ma il lavoro da solo non produce integrazione sociale. Un reddito da solo non libera dalla povertà.
Perché la povertà è l’espressione di un fallimento delle capacità e contribuisce una limitazione dell’esistenza umana.
Pertanto un percorso di integrazione sociale non deve mirare solo a fornire una garanzia minima di risorse, ma a sviluppare ed a reintegrare le capacità lavorative, professionali, di relazione sociale senza le quali non c’è né identità, né inclusione sociale, né cittadinanza.
Questa manifestazione è tanto più necessaria di fronte ai cambiamenti che hanno modificato il lavoro.
Anche se il lavoro dipendente costituisce il 72% dell’occupazione complessiva ed il lavoro operaio (nel senso più ampio della parola) rappresenta il 47% degli occupati dipendenti, la realtà dei lavori atipici ed intermittenti, del vecchio e nuovo lavoro autonomo costituisce un ambito di grande rilievo.
Il "lavoro autonomo di seconda generazione" per usare una espressione di Aldo Bonomi si presenta come un universo magmatico di condizioni lavorative caratterizzate da: compresenza di più attività, fluttuazioni dei diversi livelli della gerarchia professionale, oscillazione costante tra attività autonome a tutti gli effetti e condizione parasubordinata, crucialità del capitale intellettuale e sociale indipendentemente dal livello professionale. Mentre va riconosciuto il ruolo che i lavori "atipici" e le forme flessibili d’impiego hanno avuto nel trainare la crescita degli impieghi e dei posti in particolare per le donne.
Il lavoro "atipico" non ha svolto un mero ruolo di sostituzione dei rapporti di lavoro standard come si temeva a metà degli anni ’90.
Esso ha anche offerto, in parte, nuovi lavori. Che non si presentano tutti come lavoro povero e precario, ma, talvolta, come lavori ricchi di contenuti professionali.
Il nuovo lavoro autonomo, la complessità e lo sviluppo dei lavori "atipici" reclamano un nuovo sistema di protezione sociale che offre un corredo essenziale di diritti e tutele. Solo così è possibile prevenire le condizioni di povertà e promuovere una buona e piena occupazione.

I Rapporti della Commissione Povertà, sia il 1° Rapporto (1985), sia l’ultimo (2001) pur avendo come compito l’analisi dello specifico fenomeno della povertà hanno ritenuto giusto prendere in considerazione quella che viene definita "quasi povertà" o "a rischio di povertà".
Questa fascia nel 2000 comprendeva l’8,3% delle famiglie in aggiunta al 12,3% delle famiglie povere.
Con ciò la Commissione ha messo in evidenza che, per quanto riguarda la povertà economica, non esiste un confine preciso tra poveri e non poveri: esso è costituito da una soglia che potrebbe essere anche un po’ più alta o un po’ più bassa.
Insomma, se l’analisi delle condizioni di vita si estende al di là dell’area della povertà e della quasi povertà si constata che altre fasce di cittadini vivono in condizioni di ristrettezza economica.
Meno gravi, ma non per questo meno accettabili in una società democratica. Le quali sconfessano l’idea di una società con conformazione "a trottola" per usare un’espressione di Ermanno Gorrieri (contenute nel suo recente libro "Parti uguali fra diversi") con un polo di povertà ed un polo di ricchezza ed un ampio corpo sociale omogeneo non solo dal punto di vista della cultura e del costume, ma anche delle condizioni di vita.
Credo sia corretto l’invito che ci proviene dallo stesso Gorrieri a rileggere più attentamente e ad aggiornare il Rapporto che per conto del Cespe realizzò Massimo Paci nel 1993 "Le dimensioni della diseguaglianza". (anche se non è per nulla condivisibile, sulla base dei fatti la ricostruzione che egli fa dell’esperienza dei governi di centrosinistra)
Perché la povertà è l’ultimo gradino di un fenomeno più generale che è la diseguaglianza e la scarsità economica è solo un aspetto delle diseguaglianze. Che si manifesta nelle forme più molteplici e varie ed è prima di tutto misurabile delle distribuzioni di quei beni che determinano la qualità della vita.
Nella determinazione delle diseguaglianze hanno un rilievo particolare: l’istruzione, il lavoro, la qualità del lavoro, la condizione economica.
Può essere utile indicare qualche dato per rendere concreta la formazione delle diseguaglianze.
Il reddito medio per titolo di studio è il seguente (dati Banca d’Italia relativi al 2001):
licenza media 28.490.000 lire annue
diploma 35.622.000 lire annue
laurea 51.931.000 lire annue

Nel 2000 tra gli 80.000 ed i 100.000 ragazzi e ragazze non hanno conseguito la licenza media e concluso l’obbligo scolastico.

Quanto ai redditi individuali medio annui ottenuti dai lavoratori dipendenti nel 2000 (dati Banca d’Italia 2000):
operaio 24.780.000 lire annue
impiegato 32.558.000 lire annue
impiegato direttivo 55.100.000 lire annue

Un altro indicatore rilevante delle diseguaglianze è lo stato di salute della popolazione.
A fronte di un generale miglioramento delle condizioni di vita e di salute della nostra popolazione le diseguaglianze in termini di salute e di mortalità restano inalterate.
Le diseguaglianze all’interno delle classi sociali riguardano i rischi prevenibili e le morti evitabili. In particolare, la condizione di salute è fortemente correlata al livello di scolarità. "I meno abbienti hanno minore capacità di scelta (fra le diverse opzioni disponibili) minore probabilità di adesione ai programmi in cui sono coinvolti, maggiore difficoltà di interazione con i servizi sanitari" (Vineis, Dirindin – Elementi di economia sanitaria).

Da queste considerazioni scaturisce una importante indicazione politico-ideale.
Se le diseguaglianze sono fisiologiche in una società competitiva che punta all’efficienza ed alla modernizzazione, tuttavia, una politica riformista non può restare indifferente di fronte al crescente numero delle diseguaglianze eccessive ed ingiuste.
Una politica ispirata al criterio di equità non può limitarsi ad ASSISTERE i poveri ed a promuovere la loro uscita dalla povertà, deve porsi l’obiettivo di garantire a tutti i cittadini una soglia di benessere intesa come fruizione di una quota adeguata di beni che concorrono a formare la qualità della vita.
Per superare le diseguaglianze più gravi ed eccessive bisogna che lo Stato garantisca pari opportunità di partenza; bisogna che ciascuno sia sollecitato nella cultura della responsabilità e del rischio. Ma sono necessarie anche politiche pubblice dell’occupazione, dell’istruzione, della sanità, della casa che siano orientate ad aiutare chi è più in difficoltà ed a superare i disagi più gravi.
Facendo leva sulle capacità della persona che va colta nella sua interezza e nella complessità della sua vita quotidiana. Quando lavora e crea lavoro, ma anche quando riproduce la sua forza lavoro. Quando consuma, quando ha bisogno di assistenza, quando svolge i suoi compiti di cura. Consumo, cure, assistenza sono dimensioni della vita che richiedono lavoro e risorse, comportano costi, ma producono a loro volta risorse e beni materiali e simbolici.
Questa dimensione della vita, la sfera della riproduzione sociale, comporta una mole di attività che misurate in tempo di lavoro superano quelle prestate nella produzione di merci e di servizi pubblici e privati ed è essenziale al funzionamento dell’intero sistema economico.
Eppure essa continua ad essere il lato oscuro della luna.
"Nulla di ciò che la riguarda compare nei dati della contabilità nazionale, i manuali di economia la ignorano, appena adesso le politiche pubbliche cominciano a prestarle qualche timida attenzione, il sindacato fa fatica ad inquadrarla nelle sue categorie. Così il tema della riproduzione sociale non diventa mai parte di un discorso pubblico e ciò può accadere anche se è sotto gli occhi di tutti".
È un giudizio che condivido, contenuto nel bel libro di Silvano Montebugnoli e su cui molto ha scritto Chiara Saraceno. E molto ha detto il Movimento delle donne.
Questo rimanere, la sfera della riproduzione sociale, il lato oscuro della luna ha avuto ed ha delle conseguenze pratiche molto rilevanti.
Come quella di mantenere in una zona di perifericità, come discorso minore, le politiche di sostegno dale responsabilità familiari, o continuare a fare un discorso vecchio sulla flessibilità o sulla previdenza ignorando quanto sia cruciale la flessibilità infratemporale, quella relativa al ciclo della vita.
Quanto è importante ed equo per la qualità della vita di una persona e di una famiglia potersi prendere delle pause lungo il ciclo della vita, poter vivere studio, lavoro, cura non come fasi della vita tra loro consequenziali ed alternative, ma componenti di tutto il ciclo della vita, su cui poter esercitare padronanza combinandoli tra loro con libertà ed elasticità.
Oppure quanto è miope, dal punto di vista della competitività del sistema e dell’equità sociale, considerare un problema secondario il tasso di occupazione femminile.
Quando esso si configura invece come presupposto fondamentale di una politica di equità sociale sia per combattere la povertà, sia per una politica più favorevole nei confronti della genitorialità.
Arrivando così all’altra questione cruciale per una politica economica e sociale efficace: la composizione demografica del nostro paese.
Che ci consegna e consegnerà sempre più una società di persone anziane e di figli unici. Nel 1999 i ventenni erano quasi 900.000; nel 2000 erano 660.000, nel 2010 saranno 560.000. Figli unici che vivono sempre più a lungo nella propria famiglia d’origine.
Siamo la società del figlio unico, della famiglia lunga per via dell’ingresso ritardato dei giovani nel lavoro e nella vita.
Infatti, i giovani italiani fanno molta più fatica, rispetto ai loro coetanei europei, ad inserirsi nel lavoro ed a costruire una vita propria, autonoma dalla famiglia d’origine.
La società del figlio unico, già molto radicata nel nostro paese, ha motivazioni sociali e culturali complesse. Ha, anzitutto, alla sua base un fatto molto positivo: la nuova consapevolezza delle donne e la maturazione di un’etica della responsabilità e della scelta.
Ma essa è soprattutto conseguenza del fatto che è aumentato il costo economico dei figli e sono diminuiti i vantaggi economici che derivano dai figli.
Questo perché è prevalsa un’etica pubblica ed un indirizzo delle politiche pubbliche che hanno oscurato la consapevolezza che i figli sono un bene pubblico, sono un investimento per il futuro, pertanto il loro costo non può ricadere solo sulle famiglie. Ed ha oscurato altresì quel principio di responsabilità che ci rende responsabili nei confronti di ciò che consegneremo alle generazioni future e che non deve metterle - per nostra colpa, omissione, incapacità – in una situazione di difficoltà.
La bassa natalità – come ha rilevato acutamente Massimo Livi Bacci – rischia di creare forti difficoltà alle generazioni future.
La società del figlio unico rischia di essere faticosa ed iniqua per i futuri giovani.
Perché ad essi toccherà vivere in una società meno affollata; dovranno sostituire generazioni assai più numerose nei processi di produzione. Su di loro graverà l’onere di trasferimenti sociali meno generosi per via della mutata composizione per età.
Su di loro potrebbe anche ricadere l’onere di riequilibrare la bilancia riproduttiva distorta dai loro genitori troppo propensi a generare figli unici.
Dovranno lavorare in più, di più, più a lungo e dovranno anche avere più figli.
"Nel mondo Occidentale c’è una tradizione secolare secondo la quale i figli hanno goduto di standard di vita mediamente assai più elevati di quelli dei padri. Non sono pochi quelli che ritengono che questa tendenza stia per essere invertita, e che il livello di vita delle generazioni future sarà inferiore a quello dei loro genitori" (Livi Bacci).
I cambiamenti della composizione demografica del nostro paese e dell’Europa ci pongono di fronte un’altra questione cruciale: quella del bisogno che la nostra economia e la nostra società ha ed avrà di una quota stabile e qualificata di forza lavoro immigrata, e dunque di persone immigrate.
Nel prossimo ventennio in Italia la popolazione in età lavorativa – quella tra i 20 e 40 anni – la più flessibile, dinamica ed innovativa, diminuirà di sei milioni di unità (- 35%).
Anche se l’Italia riuscirà a superare i suoi deficit in materia di occupazione - disoccupazione meridionale, disoccupazione femminile, più intensa produttività del lavoro – avrà comunque bisogno di una quota consistente di persone immigrate.
La questione che si pone, allora, è quella di avere in materia di immigrazione un approccio culturale e politico che parta dalla realtà e che sia capace di cogliere il "bisogno" e la "convenienza" dell’Italia e dell’Europa all’immigrazione e di collocarli all’interno di una proposta coerente di sviluppo economico-sociale e di promozione della cittadinanza. Bisogna, cioè, saper individuare l’interesse nazionale ed europeo ed una politica aperta e regolata dell’immigrazione e collocare tale politica all’interno di una visione della società e di un progetto di sviluppo economico, sociale e civile.
Se impostiamo così la questione, allora si potrà definire una politica migratoria basata sul riconoscimento dei reciproci vantaggi e si potrà delineare un patto di cittadinanza tra italiani e stranieri che stabilisca diritti e doveri. L’unico che può liberare gli uni e gli altri dalle paure reciproche.


La reciprocità tra generazioni ed il patto di cittadinanza tra italiani e stranieri è il riformismo che costruisce il futuro

I dati indicati, sommariamente, relativi ai caratteri della moderna questione sociale, ci suggeriscono che la vera fatica che dobbiamo compiere per rendere efficace, nel terzo millennio, la capacità di accoglienza e di inclusione è quella di collocare tali funzioni in un tempo più lungo e in uno spazio più grande.

Il tempo della responsabilità verso le generazioni future e lo spazio occupato dalle migrazioni e dal bisogno di mobilità.

La reciprocità tra le generazioni ed il patto di cittadinanza tra nativi e migranti costituiscono, a mi avviso, la cifra di un riformismo che nella quotidianità costruisce il futuro.

Perché questo è lo snodo più intricato e più difficile da dipanare, è il punto in cui la diseguaglianza si presenta in tutta la sua complessità e si deve misurare con una inedita composizione demografica.

Cosa significa infatti dal punto di vista del lavoro e delle prestazioni sociali - e dunque della lotta alle diseguaglianze - una società con pochi giovani e molti anziani?
Il problema non è quello di togliere a qualcuno per dare ad altri e neppure solo di redistribuire le risorse esistenti (anche se quello dell’aumento e della composizione della spesa sociale è un aspetto cruciale della riforma del welfare); il problema è quello di elaborare nuovi obiettivi di benessere sociale che richiedono un cambiamento negli stili di vita e la scoperta di beni fino ad ora trascurati: come la formazione, il tempo della convivialità e del dono, il sostegno alle attività di cura, i beni relazionali.
Tali beni non sempre comportano un onere finanziario ma possono anche favorire una riconversione e qualificazione della spesa sociale.

Ciò che dobbiamo fare è misurarci con i cambiamenti del ciclo della vita.

L’infanzia, la giovinezza, l’età adulta hanno preso un ritmo diverso, nuovo rispetto al passato. Per questo non conviene a nessuno vivere la propria stagione separati dagli altri. Bisogna guardare al ciclo della vita nella sua unitarietà e consentire una comunicazione più fluida tra le varie età.

Ed allora dobbiamo adeguare i nostri stili di vita ed usare bene risorse che prima non avevamo, come ad esempio il tempo che gli anziani possiedono in abbondanza.

Questo bene prezioso, che si può condividere senza impoverirsi, può essere messo a frutto come motore capace di moltiplicare le opportunità per tutti.
Anzitutto per sconfiggere la situazione di solitudine che deriva dal senso di inutilità in cui vivono molti anziani; per consentire ai bambini, ai giovani, alle famiglie di avvalersi di risorse preziose come i sentimenti, gli affetti, il tempo della convivibilità e del dono; per rimodulare il tempo di lavoro e adottare i ritmi di lavoro al ciclo della vita.

Il welfare, per chi sta invecchiando, non è solo quello delle pensioni, ma quello che mette al centro la qualità delle relazioni umane e sociali, la pluralità dei servizi alla persona ed alle famiglie, la salute come promozione del benessere, il diverso rapporto tra il tempo di lavoro e glia altri tempi della vita.
Ciò che hanno in comune bambini, adulti, anziani è il tempo della vita che si è spostato in avanti ed il desiderio di esercitare una maggiore padronanza su di esso.
Ciò comporta una modificazione del tempo sociale.
In particolare: l’adattamento dei ritmi di lavoro ai cicli della vita.
Poiché si allungano tutte le età si allunga anche il tempo della vita lavorativa ma, contemporaneamente, il tempo di lavoro si mescola e si alterna con altre esperienze, studio, volontariato, socialità, che devono diventare sempre più compatibili e compresenti.
Perché il lavoro non deve essere solo finalizzato alla produttività economica ma anche alla crescita del tessuto sociale.
Il tema dell’alternanza nell’arco di tutta l’esistenza di un tempo per il lavoro e di un tempo per altre attività è una nuova e moderna esigenza che gli anziani condividono con le donne e con i giovani.
Bisogna costruire un sistema di protezione sociale che corrisponda alle esigenze di scegliere il mix lavoro-attività e poter decidere quando e come alternare il lavoro strutturato, l’impegno nelle associazioni e nel tempo liberato.
Nella consapevolezza che il lavoro, ancora più di ieri, e per un numero ancora più grande di persone è ricercato non solo perché fonte di reddito ma perché fattore di identità individuale e sociale.
Ed allora bisogna che il lavoro non solo sia accessibile ma sia dotato di un corredo di diritti. In ogni luogo e in ogni forma di lavoro la persona deve portare in dote un pacchetto di diritti.
Configurando così un welfare della persona, che promuove la cittadinanza della persona in quanto tale e garantisce l’accesso alle prestazioni sulla base del suo essere persona.
Riconoscendo altresì che il luogo fondamentale di costruzione della cittadinanza è il lavoro.
Da questo punto di vista la Carta dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e la proposta di legge di riforma degli ammortizzatori sociali elaborata dall’ulivo costituiscono un tassello importante nella riforma del welfare.
Bisogna altresì integrare nelle istituzioni dello stato sociale la funzione del sistema formativo attraverso l’elevamento dell’obbligo scolastico, il credito formativo fino a 18 anni, l’educazione permanente.
L’obiettivo è quello di consentire ai giovani di costruirsi un autonomo progetto di vita. L’accesso a un lavoro compatibile con la formazione, servizi di sostegno come l’abitazione, sono le priorità fondamentali. Poiché si allungano tutte le età si allunga anche l’arco della vita lavorativa. La dismissione dolce dal lavoro alla pensione, la possibilità di sommare una pensione parziale e un lavoro parziale, il prolungamento dell’età lavorativa incentivata aumentando in misura più che proporzionale la funzione del lavoratore/lavoratrice, incentivando le imprese nella ricollocazione e riqualificazione dei lavoratori anziani, e penalizzandole in tutti i casi in cui esse cerchino di espellere i lavoratori meno giovani nel corso dei processi di ristrutturazione; la possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di "prendersi delle pause" lungo il ciclo della vita lavorativa per attività di cura e formazione.
Riconoscendo, finalmente, la responsabilità del lavoro di cura come diritto e dovere di donne e uomini. Che deve avvalersi anche di una adeguata diffusione di servizi alla persona sul territorio e nei luoghi di lavoro.
Nella nostra vita quotidiana ci sono incombenze ed attività che possono migliorare la vita di chi è più fragile, migliorare la funzione dei servizi, rendere più sicuri i contesti della vita quotidiana.
Queste attività e incombenze possono essere realizzate solo attivando relazioni umane motivate dal sentimento del dono, della solidarietà del senso civico nei confronti della comunità.
Il servizio civile volontario dei giovani e delle persone in età matura potrebbero aiutare questo ambito di mutuo aiuto, di scambio e attività di cura, facendolo diventare una componente strutturale del nuovo welfare.
Dimostrando così che l’uso del tempo può essere moltiplicatore di opportunità e benessere.
Tessitrici speciali di legami di cura sono diventate le persone soprattutto le donne, immigrate, che, contrariamente ai luoghi comuni, svolgono un ruolo prezioso di integrazione sociale.
Produrre convivenza in ogni luogo della vita quotidiana attraverso il rispetto delle regole previste dal nostro ordinamento e promuovendo diritti concreti e quotidiani è la strada obbligata che ci sta di fronte per costruire una società aperta e sicura.
Lavoro, formazione, lingua e cultura italiana, servizi sociali, sostegno alla solidarietà sono le opportunità necessarie per costruire un patto di reciprocità tra italiani e immigrati, in cui sono chiari i diritti ed i doveri reciproci ma anche la promozione della cittadinanza politica attraverso il diritto di voto locale per costruire responsabilità e senso di appartenenza alla comunità.


Per un welfare dello sviluppo umano

Per definire gli indirizzi della riforma del welfare è utile ricapitolare i tratti essenziali e problematici del welfare italiano.

I caratteri del welfare italiano

Conveniamo tutti sul fatto che il sistema di protezione sociale del nostro paese non è nato da un progetto organico adottato in un determinato momento della nostra storia. Esso segue e risente dei caratteri dello sviluppo economico e sociale del nostro paese. Pertanto ha avuto un’origine "lavoristica" e "mutualistico-categoriale", con finanziamento contributivo. In parallelo con lo sviluppo economico e con il crescere delle risorse disponibili le varie forme di protezione sociale sono state gradualmente estese a nuove categorie fino a comprendere tutti i lavoratori dipendenti e autonomi. La prima, fondamentale, svolta verso forme di tutele estese a tutti i cittadini è stata il passaggio dalle mutue al Servizio Sanitario Nazionale (1978). Restano pertanto centrali le politiche "categoriali" in cui la titolarità del beneficio dipende dall’appartenenza ad un determinato gruppo individuato sulla base di caratteristiche come l’età o lo stato occupazionale spesso prescindendo dallo stato di bisogno o dalle risorse a disposizione del beneficiario.
I punti fondamentali che sono di fronte a noi sono:
1. valori di spesa in rapporto al PIL inferiori alla media europea in tutti i settori ad eccezione della spesa pensionistica per superstiti e soprattutto per vecchiaia.
2. Forte prevalenza della voce di spesa per la previdenza che assorbe (dati ISTAT sulle spese sociali relative al 2000) una quota del 60% contro il 16,7% dell’assistenza ed il23,8% della sanità).
Questo tipo di distribuzione della spesa sociale che tuttavia richiede di essere meglio approfondita - perché come sappiamo la spesa previdenziale contiene una quota di spesa assistenziale – contribuisce a spiegare la prevalenza nel nostro paese delle prestazioni in denaro che raggiungono il 75% del valore complessivo.
La rete dei servizi alle famiglie costituisce la novità importante del welfare locale realizzato soprattutto da Enti Locali, Regioni e soggetti del no profit e che solo nel 2000 - con i governi di centrosinistra - ha trovato impulso attraverso lo stanziamento di risorse e la definizione di strumenti nazionali previsti dalla legge 328/2000
3. Problemi di efficacia ed efficienza nell’allocazione e nell’uso delle risorse a partire da una accentuata diversificazione territoriale delle spese sociali. Infatti, la spesa sociale è sensibilmente più elevata nelle regioni del Centro-Nord che è la parte del paese dotata di un livello più adeguato di servizi e prestazioni anche se, le analisi condotte sulla base del rapporto tra partecipazione alla produzione del PIL e prestazioni sociali, segnano una redistribuzione a vantaggio del Mezzogiorno. I dati più recenti dicono infatti che il Mezzogiorno ha prodotto il 22,6% del PIL ed ha ricevuto il 29,2% delle prestazioni; le regioni del Nord, a fronte di una produzione del 57,4% del PIL usufruiscono di un ammontare di prestazioni pari al 49,4%.
4. La scarsa capacità di promuovere politiche attive del lavoro; di tutelare chi è disoccupato e chi cerca lavoro; di offrire tutele e diritti alle forme di lavoro diverse da quelle del lavoro dipendente a tempo indeterminato; unito alla mancanza di misure universalistiche di contrasto della povertà.
5. La scarsa propensione ad investire sulle formazione, sul rapporto formazione-lavoro e sulla formazione permanente.
6. La storica mancanza di una politica a sostegno delle responsabilità familiari e per la promozione dell’autonomia dei giovani.
7. Politiche assistenziali incapaci di raggiungere sia obiettivi di equità verticale (tra cittadini più o meno abbienti) sia obiettivi di equità orizzontale (tra famiglie più o meno numerose); a sua volta la "categorialità" di gran parte degli istituti assistenziali esistenti limita l’universalità del sistema, lasciando prive di copertura fasce di popolazione importanti, in particolare minori, disoccupati e inoccupati.
La peculiarità italiana delle politiche sociali ed assistenziali nel panorama europeo è, dunque, quella di avere meno risorse a disposizione e risiede soprattutto nella articolazione qualitativa degli interventi: l’assenza di un sostegno universale ai redditi insufficienti; l’esistenza di una serie disorganica di programmi categoriali riservati a specifiche tipologie di beneficiari; lo scarso peso delle prestazioni in natura rispetto ai trasferimenti monetari.
Quanto alle spese previdenziali, tema che merita un approfondimento particolare, va sottolineato che la preminenza della spesa previdenziale all’interno della spesa sociale è una caratteristica che l’Italia condivide con gli altri paesi europei e che, in questi anni, grazie alle riforme Amato e Dini, risulta fortemente attenuato.
Aggredire e risolvere i nodi problematici prima indicati è dunque essenziale per una riforma del welfare che:
1. promuova i diritti ed i doveri delle persone nella direzione di un welfare delle persone e non solo del lavoratore;
2. promuova una buona e piena occupazione e doti ciascuna persona di un bagaglio adeguato di formazione e conoscenza;
3. promuova l’equità tra i sessi e le generazioni e tra i cittadini italiani e stranieri;
4. promuova il cittadino competente: scopra e promuova le disponibilità morali e le competenze dei cittadini e li coinvolga nella costruzione di politiche della vita quotidiana.

Un welfare che deve qualificarsi sempre più come welfare europeo coordinando le sue politiche in sede europea e che deve realizzarsi compiutamente come sistema di welfare locale e comunitario.
Un welfare attivo, che assuma come riferimento il concetto delle CAPACITÀ; investa sul lavoro, sul sapere, sui legami sociali, sul sostegno alle attività di cura, sulla formazione delle competenze e delle qualità morali delle persone.
Punti sulla formazione di una rete integrata di servizi alle persone nella consapevolezza che si tratta di un bacino di occupazione ed una risorsa per lo sviluppo.
Come è scritto nel documento proposto dalla Commissione Progetto: "…. la nuova riforma del welfare ha come traguardo una costituzione sociale comune, che vede oltre la fase di riconoscimento e della proclamazione dei valori e dei diritti e costituisca un sistema di istituti e di regole in cui ogni cittadino si riconosca e si senta sicuro e socialmente protetto e, nello stesso tempo, sia condizione di legittimazione democratica delle istituzioni.
Questa costituzione sociale deve avere come orizzonte l’Unione Europea, anche se, ovviamente, i punti di partenza restano nazionali".
Questo comporta anzitutto l’impegno ad assicurare l’universalità del diritto alla sicurezza sociale ed alla personalizzazione dei servizi.
Un universalismo che deve però qualificarsi come universalismo equo. Vale a dire, garantisce l’universalità di accesso in quanto ai beneficiari e la selettività nell’erogazione delle prestazioni in base alle condizioni economiche dei destinatari. L’accesso è universalistico; la partecipazione al costo è equo, cioè in base al reddito. L’universalismo equo promuove per i più deboli forti azioni per garantire loro l’accesso ai servizi.
Si tratta di un equilibrio necessario per garantire un welfare di qualità accessibile a tutti e scongiurare il progetto del doppio canale perseguito dal centro-destra: un welfare pubblico, residuale e dequalificato per i più poveri; un sistema assicurativo privato che garantisca prestazioni qualificate per i redditi medio-alti.
La via dell’universalismo selettivo - che tiene conto delle condizioni economiche delle persone e delle peculiarità dei loro bisogni - è inoltre essenziale per contrastare le diseguaglianze e realizzare una eguaglianza sostanziale che è tale in quanto riconosce le disparità e le differenze.
Questo comporta che un ampio spettro di politiche sociali - scuole, lavoro, sanità, assistenza - si proponga finalità redistributive e di promozione della capacità delle persone.
Ciò presuppone un soggetto pubblico che si impegna quale sollecitatore di risorse, di impegno, di progettualità a favore della promozione del benessere e come regista capace di assegnare a ciascun attore la sua parte e consentirgli di dare il meglio di sé. Quella che viene chiamata funzione di programmazione e che le istituzioni devono compiere, praticando la "cultura del limite" che le rende capaci di individuare, conoscere, valorizzare i saperi e le competenze della società e di coinvolgerle nella definizione dell’agenda del governo e nella elaborazione delle proposte.
Ciò presuppone che lo Stato e le istituzioni facciano fino in fondo la loro parte nella promozione della solidarietà e della giustizia sociale così come prevede la nostra Costituzione.
Questo tanto più a fronte della riforma federale dello Stato che non può essere applicata rompendo il principio dell’unitarietà dei diritti e di omogeneità delle prestazioni, altrimenti il rischio è che si accentuino le diseguaglianze.
Rischio molto concreto se guardiamo a ciò che sta succedendo nella sanità.
Per questo vanno raccolte le preoccupazioni che si stanno levando da parte di molti ambienti - medici, operatori sociali, genitori, studiosi - circa il rischio che il federalismo riduca il principio di unitarietà e dunque di universalità dei diritti. Ed il nostro impegno non deve essere solo - nei nostri governi regionali e locali - quello di dare prova di una buona qualità dei sistemi di sicurezza sociale, ma applicare fino in fondo la riforma federale che mette in capo allo Stato la funzione di garantire i diritti sociali e sanitari sia attraverso leggi di principio che attraverso la definizione degli standard essenziali.
Bisogna, inoltre, considerare che i diritti, oltre che strumento di espansione della libertà individuale, costituiscono anche mezzo di risposta ai rischi sociali e dunque a fenomeni caratterizzati dalle interdipendenze. Pensiamo al diritto all’ambiente o alla salute.
Pertanto, le politiche per promuovere questi diritti non devono configurarsi solo come politiche specifiche per la salute, per l’ambiente, bensì devono riuscire a promuovere il bene salute, il bene ambiente all’interno delle più generali politiche economiche, fiscali, infrastrutturali.
In tal caso le politiche sanitarie, sociali, ambientali si pongono come politiche di coordinamenti interistituzionale.
Questo approccio risulta concreto e innovativo se si affrontano i problemi della salute. Della salute, appunto, e non solo della sanità.
È fondamentale difendere il sistema sanitario pubblico, universalistico e solidale, basato sul principio della fiscalità generale.
È altrettanto doveroso adeguare il livello del suo finanziamento alla media europea.
Così come va respinta la rappresentazione del nostro sistema sanitario come perennemente esposto al rischio di un tracollo finanziario.
Uno studio accurato da parte della Ragioneria Generale dello Stato, ripreso peraltro nel DPEF 2003-2006, stima un aumento del rapporto tra spesa sanitaria pubblica/PIL di 1,7 punti nell’arco dei prossimi 50 anni, raggiungendo il 7,2% nel 2050.
Si tenga conto che i dati registrano per l’Italia nel 2000 una spesa pari al 5,9% uguale a quella del Regno Unito, ma nettamente inferiore sia a quello francese (6,8%), sia a quello tedesco (8%).
L’Italia è l’unico paese in controtendenza quanto a dinamica della spesa pubblica: a fronte di aumenti generalizzati, che in alcuni casi superano nel decennio il punto di PIL (si veda Germania, Portogallo, USA), il nostro paese registra negli anni ’90 un drastico contenimento delle risorse destinate alla sanità pubblica.
Una forza di sinistra però non può limitarsi a parlare di finanziamento del sistema e di risorse, ma deve mettere al centro i grandi obiettivi di salute come il superamento delle diseguaglianze, la capacità di presa in carico delle malattie connesse all’allungamento della vita, la promozione dei nuovi bisogni di salute come quello della corretta alimentazione o della prevenzione degli stati depressivi, che riguardano in modo particolare gli adolescenti.
Riconversione della spesa sanitaria e non solo aumento (verso quelle attività - come i servizi territoriali di base e le misure di prevenzione - in grado di produrre a parità di costo una migliore qualità della vita); adozione di politiche intersettoriali (che coinvolgono anche settori extrasanitari); grandi investimenti nella ricerca e nelle risorse umane sono dunque gli obiettivi di una politica sanitaria che vuole misurarsi con i nuovi bisogni di salute.
Bisogna insomma spostare l’attenzione dalle prestazioni agli obiettivi di salute e di benessere.
Adottare il concetto delle "capacità" elaborato da A. Sen come generatore di nuove politiche sociali significa realizzare innovazioni importanti nella cultura e nella pratica del welfare.
Bisogna anzitutto spostare l’attenzione dalle prestazioni fornite dal settore pubblico agli stati di benessere di coloro ai quali le prestazioni sono destinate. Ad esempio: dai servizi sanitari alle condizioni di salute della popolazione, dal sistema scolastico al livello di istruzione degli studenti.
Bisogna correggere la distorsione autoreferenziale delle politiche di welfare.
Normativamente, allora si deve ribadire che le prestazioni fornite dal sistema pubblico contano nella misura in cui si convertono in definiti stati di benessere della popolazione cui sono rivolti, con la conseguenza che le variabili di controllo degli interventi vanno individuate nella sfera dei secondi piuttosto che dei primi.
Così, ad esempio, gli standard di riferimento non vanno definiti in termini di beni e servizi da rendere disponibili, ma di FUNZIONI che i cittadini devono essere in grado di svolgere.
La differenza tra prestazioni e stati di benessere evidenzia che la formazione del benessere è molto nelle mani dei suoi destinatari: persone, famiglie, comunità locali le quali devono essere sollecitati in una funzione attiva. Devono diventare attori dei processi di soddisfazione dei propri bisogni.
Si tratta insomma di valorizzare le risorse che esistono dal lato della "domanda" dove sono presenti bisogni, ma anche capacità positivamente attivabili in vista dei risultati che si vogliono ottenere.
Questo impianto conferma la centralità di buone politiche pubbliche, ma sottolinea che a "parità di spesa pubblica" tutte le risorse che è ragionevole attivare "dal lato della domanda" migliorano la qualità delle risposte e del soddisfacimento dei bisogni.
E le risorse dal lato della domanda sono capitali umani (competenze, energie, disponibilità di tempo), capitali sociali (relazioni, legami, fiducia).
Le persone, le famiglie, le comunità locali possiedono "risorse specifiche" e "conoscenze tacite" che i programmi di welfare devono riconoscere in quanto tali e devono ben utilizzare.

Politiche fiscali e trasferimenti monetari

L’obiettivo di una soglia di benessere per tutti chiama in causa l’indirizzo delle politiche fiscali e la costruzione di un mix positivo tra politiche fiscali e trasferimenti monetari.
L’equità complessiva nella distribuzione dei redditi è la risultante, da una parte, della struttura dell’imposizione e, dall’altra, dei trasferimenti monetari alle famiglie, cosicché i due corni del problema vanno affrontati entro una logica unitaria e le misure sull’uno e sull’altro fronte vanno soppesate nei loro effetti congiunti. Criterio che i provvedimenti del governo di centrodestra non seguono. Ciò comporta un disegno unitario di interventi fiscali e trasferimenti monetari che possono consistere in:
a) introduzione di un istituto di base di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale: il reddito minimo di inserimento che prevede una temporanea integrazione al reddito per coloro che, per qualunque ragione, si trovano al di sotto della soglia di povertà. L’integrazione al reddito è accompagnata da misure e percorsi di integrazione sociale;
b) sostegno, in forma incentivante il lavoro, dei redditi correnti e dei contributi previdenziali di coloro che, pur inseriti nel mondo del lavoro, hanno un reddito insufficiente a causa della precarietà del rapporto di lavoro o delle difficoltà ad avviare la propria attività di lavoratori autonomi;
c) realizzazione di un sistema di tutele dal rischio di disoccupazione che sia omogeneo e unificante per tutto il mondo del lavoro dipendente;
d) riforma del sistema di imposizione personale sul reddito che tuteli ed integri i redditi bassi (credito d’imposta per gli incapienti) e incentivi il lavoro riducendo il prelievo al margine;
e) riforma dell’assegno al nucleo familiare per introdurre anche nel nostro paese un assegno per i figli a partire dal 2° figlio, di tipo universalistico, entro una soglia di reddito con il compito di aiutare le famiglie a sostenere il costo dei figli;
f) garanzia di una dignitosa pensione di base, generalizzata, nel quadro della estensione del sistema contributivo a ripartizione e della coerenza attuariale dei trattamenti. E’ il problema delle "pensioni povere" che riguardano tanti lavoratori di oggi ma soprattutto tanti lavoratori di domani; vale a dire i lavoratori e le lavoratrici con una occupazione discontinua, i lavoratori impegnati in attività usuranti e pericolose, i lavoratori e le lavoratrici impegnati in lavori di cura e di assistenza.
Permanendo il sistema contributivo come parametro con il quale misurare la vita attiva di una persona, è necessario garantire ai lavoratori di reddito medio o basso una adeguata copertura previdenziale su tutto l’arco della loro vita lavorativa attraverso l’istituzione di fondi di solidarietà, finanziati dall’intera collettività, tali da poter integrare le risorse al fine di conseguire un sistema previdenziale più equo. Credo inoltre sia molto rilevante quanto evidenziato dal recente rapporto ISTAT sullo stato di salute della popolazione. Vale a dire il rapporto tra speranze di vita e carriere professionali. E credo vada raccolto il suggerimento di usare la leva di manovra della politica previdenziale per compensare con uno scambio tra anticipazione del tempo di riposo e tempo di lavoro ciò che la storia professionale ha eroso in termini di speranza di vita.

Per quanto riguarda il finanziamento dello stato sociale riprendo le proposte contenute nel documento elaborato dalla Commissione Progetto.

¨ Il rapporto tra il livello di spesa e il livello complessivo di tassazione. Una riduzione drastica e indifferenziata delle imposte e l’abbattimento della progressività dell’impostazione, proposti dal Governo di Centro-Destra, sono incompatibili con una riforma dello Stato sociale volta a garantire livelli essenziali adeguati di prestazioni e di servizi sociali, tali da assicurare l’esercizio effettivo e universale dei diritti sociali garantiti dalla Costituzione.
¨ Un diverso equilibrio delle risorse del Welfare all’interno dei vari settori interessati, al fine di favorire maggiormente la spesa per la formazione e per la ricerca attiva del lavoro per il sostegno alle attività di cura ed alle responsabilità familiari.
¨ Misure di federalismo fiscale che siano tali, da una parte di favorire sia il decentramento delle strutture dello Stato sociale sia la responsabilità a livello regionale e locale; e, dall’altra parte, attraverso appositi fondi di perequazione, da garantire in tutto il territorio nazionale i livelli essenziali dei servizi.
Le misure di tutela aggiuntive quali potrebbero essere i servizi sperimentali, anche di avanguardia, potrebbero essere finanziate, specialmente nella fase iniziale, da imposte di scopo emesse dalle autonomie locali interessate, facendole precedere da referendum cognitivi.
¨ Una ridistribuzione della pressione fiscale e la riduzione progressiva del cosiddetto cuneo contributivo che grava sui salari e sull’occupazione con la creazione di un contributo generale di solidarietà (prelevato in percentuale su tutte le imposte pagate dalla collettività) che corrisponda ad una fiscalizzazione parziale degli attuali contributi sociali. Va precisato che questa fiscalizzazione deve essere tale da non compromettere la consistenza delle entrate contributive e, soprattutto, la funzione parametrale che hanno oggi i contributi nella valutazione ai fini pensionistici.
¨ Una delle funzioni importanti del soggetto pubblico è quello di suscitare impegno a favore del benessere e della coesione sociale da parte dei soggetti privati, a partire dalle aziende. La promozione del benessere e della coesione sociale ha bisogno, infatti, di politiche pubbliche qualificate ma anche di larghe alleanze nel settore economico ed in quello sociale.
Concludendo: riformare il Welfare significa mettere in campo proposte, ma soprattutto trattandosi della vita concreta delle persone, di sollecitare iniziativa e assunzione di responsabilità da parte dei soggetti interessati al cambiamento. Ha pertanto bisogno di "buona politica".


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