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La scuola che divide

(di Pietro V. Barbieri)

 

Nella prima settimana di lavoro la lobby della World Blind Union e della World Federation of the Deaf ha imposto alla discussione il tema delle “forme alternative di educazione” correlate solo con i ciechi, i sordi ed i sordociechi. Alcuni Stati come la Tailandia, la cui delegazione governativa è guidata da un non vedente, hanno presentato emendamenti in favore di questa ipotesi, sostenuta inoltre da un gruppo importante di associazioni non governative. Il dibattito ha dato vigore a quelle delegazioni dei Paesi ricchi che sono spaventate dall’idea di cambiare il loro sistema educativo, e a quelle dei Paesi in via di sviluppo, il cui problema risiede principalmente nell’80% di bambini privi di possibilità di frequentare la scuola. Gli argomenti di questi ultimi vengono facilmente fagocitati dai primi per respingere l’ipotesi di tendere ad un’educazione inclusiva nel sistema scolastico generale. 

In mezzo ci sono delegazioni come quella dell’Australia, che ha il compito di moderare e pertanto mediare sul tema specifico. Alcune delegazioni, come la Giordania, la Giamaica e lo Yemen hanno rifiutato l’idea della categorizzazione che vuole specifici interventi per sordi e ciechi. Altre hanno cercato di spiegare come una Convenzione rappresenti il fulcro internazionale per realizzare diritti in un percorso che progressivamente realizzi il futuro dell’inclusione delle persone con disabilità.
L’Unione Europea, che parla con la voce unica della Presidenza di turno, ha assunto una posizione mediana tra quella italiana, ovviamente di carattere completamente inclusiva, e quella di altri Paesi europei che in larga maggioranza non prevedono l’integrazione scolastica nelle loro politiche di istruzione presenti e future.

La proposta dell’Australia era di eliminare ogni riferimento a forme alternative di educazione, ma di specificare la necessità di abilitare sordi e ciechi rispettivamente con la lingua dei segni e con il braille.
Entrambe le proposte hanno ricevuto forti critiche da parte delle maggiori associazioni. Nel primo caso si trattava di aprire all’educazione speciale per tutti, anche se eccezionalmente e condizionata dall’obiettivo dell’inclusione.

Nel secondo caso la critica è stata esercitata sia per l’assenza di percorsi speciali, sia per la previsione di specifici interventi per sordi e ciechi con un articolo appositamente predisposto.

Il dibattito si è concluso con il rinvio ad ulteriori confronti informali tra le delegazioni affinché preparino una proposta per la prossima sessione dell’Ad Hoc Commettee. Al termine di questo dibattito una organizzazione non governativa ha tenuto un evento collaterale al quale ha preso parte anche chi scrive presentando la situazione italiana riscuotendo interesse tra i presenti, tra cui delegazioni governative e di associazioni provenienti da Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Paesi Arabi, Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda ed Austria.

La caoticità causata da questo argomento è ruotata attorno ad un’azione dei delegati italiani, che in ogni contesto hanno promosso l’educazione inclusiva possibile realizzata non quale buona prassi bensi’ come intervento sistematico.

A margine di questo aspro confronto rileviamo come le associazioni che unitariamente avevano deciso di parlare con una sola voce, si siano divise ed abbiano isolato la volontà istituzionalizzante dei poteri storicamente più forti tra le stesse associazioni.

In ultimo un’amara constatazione. Poco è previsto e ancor meno discusso a proposito di formazione professionale, vocational training e lifelong learning, nonostante il qualificato intervento dell’International Labour Organization, agenzia delle Nazioni Unite. La battaglia dei sordi e dei ciechi ha oscurato implicitamente la questione del diritto all’accesso ad ogni forma di educazione.


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